Altre volte –  distratto dalle innumerevoli tragedie che avvengono quotidianamente in questa Valle di lacrime – avevo lasciato perdere. Per esempio tre-quattro anni fa all’epoca del terremoto in Nepal. Quando, mentre migliaia di persone erano ancora sepolte sotto le macerie (e volontari e soldati cercavano di estrarle a mano, letteralmente, per carenza di attrezzature adeguate), qualche imprudente (e impudente) alpinista, anche vicentino, reclamava l’intervento urgente dell’elicottero per rientrare al campo base.
Perfino Messner ne aveva sottolineato la mancanza di buon gusto di fronte alle vere urgenze.
Visto che comunque erano ben riforniti di vivande, fornelli, tende, sacchi a pelo e quant’altro, potevano attendere in quota o rientrare con mezzi propri (le gambe).
Per non parlare di alcuni “torrentisti” (si dice così?) rimasti intrappolati in qualche forra – sempre nel Nepal a causa del terremoto – che pretendevano assistenza e si giustificavano in quanto erano alla ricerca di erbe e piante rare, magari ancora sconosciute, per eventuali usi medici. Così, senza permesso. A casa mia si chiama biopirateria.
Poi quest’anno il caso di quelli (ancora vicentini, sotto copertura umanitaria) che si son visti “collassare addosso la montagna” (vado a memoria). E, come si sa, un pakistano (“guida” o portatore?) ci ha rimesso la pelle.
L’evento è stato definito come qualcosa che “non prevedi né si può prevedere” da benevoli commentatori. Ma scusa: li leggete i giornali qualche volta? Ormai gli eventi “imprevisti e imprevedibili” (imprevedibili una volta, al bel tempo che fu) dovuti al surriscaldamento sono pane quotidiano. Ovviamente qui, nella Padania felix soffocata da capannoni, basi militari e pedemontane, ci si deve accontentare di qualche alluvione, tromba d’aria e “bomba d’acqua”.
Nel frattempo, nonostante qualche tardiva nevicata di maggio, i residui ghiacciai e nevai alpini colano come gelati al sole (perfino in grotta, verificato), il permafrost siberiano si squaglia, scoppiano incendi nella taiga e i Poli si frantumano in iceberg grandi come la Sicilia. Il minimo che può capitare sull’ Indu Kush è che vengano giù seracchi e ghiacciai pensili. A manetta.
Va aggiunta quella che a mio parere costituiva un’aggravante. Intenzione della spedizione era la “conquista” (ancora?) di una vetta da dedicare – nientemeno – che a Melvin Jones, noto come fondatore del Lions Club (il “volto umano” del capitalismo?). Forse gli Dèi delle Montagne si sono incazzati di tutto questo via-vai…

Ponti d’oro

Altro episodio recente, quello di un paio di esaltati che (sempre sotto copertura umanitaria, ma senza – pare – aver preventivamente versato al governo pakistano la quota assicurativa obbligatoria) si sono lanciati dalla vetta con gli sci e, dopo l’incidente, piangevano miseria, chiamavano le famiglie come bambini caduti dalla bicicletta e insultavano le autorità locali (la “burocrazia”) per il non immediato invio di elicottero. Quasi una sceneggiata. Quello che in un primo momento “rischiava di morire” in realtà se la sarebbe poi cavata senza gravi conseguenze. Buon per lui, naturalmente. Ma d’altra parte: la volevi l’avventura?
Come ho detto, entrambe le spedizioni si coniugavano (o meglio: si auto-rappresentavano) con intenti caritatevoli. Nel primo caso, la sostituzione di un ponte in legno con uno in ferro; nell’altro la consegna di qualche scatola di medicinali. “Regalati”, sottolineavano pelosamente.
Qualche dubbio e perplessità sulla buona fede di questi benefattori fai da te. Non è che il nuovo ponte dalla portata di 17 tonnellate (quello preesistente, in legno, veniva irrispettosamente definito “decrepito”) servirà più che altro a far transitare i fuoristrada delle spedizioni? Sembra che porti a un nuovo rifugio costruito da e per gli alpinisti occidentali: magari qualcuno sta pensando di sistemarsi qui come gestore per quando va in pensione…
Tornando allo sciatore estremo caduto sul Gasherbrum VII, riporto il messaggio apparso sul web appena giunti in vetta: “Cima! Cala è riuscito a salire l’inviolato”. Per poi passare, dopo la caduta (leggevo sul “Messaggero”) dal “tripudio” a “un incubo di sofferenza, angoscia, rabbia e frustrazione”. Questo perché “nessun elicottero pakistano, nonostante le richieste, le suppliche, gli interventi della Farnesina e gli appelli dei familiari dall’Italia è andato su a recuperarlo”. Sia per comprensibili ragioni di sicurezza (la quota era piuttosto alta), sia perché contemporaneamente c’erano almeno otto (otto! ma ‘sta gente non ha altro da fare?) interventi di salvataggio su altre pareti. Io mi sarei vergognato, sinceramente. Magari un po’ più di dignità non guastava.

Babbei della domenica

E che dire di quelle quattro scatole di medicinali (“regalati” hanno sottolineato) vergognosamente esibite prima di lanciarsi con gli sci giù dalla vetta (fino al giorno prima inviolata, non de-sacralizzata: magari gli Dèi permalosi si saranno incazzati anche qui)? Un’ostentazione che nemmeno i missionari del secolo scorso; sicuramente paternalisti e veicolo di omologazione, ma comunque con più stile.
L’impressione è che l’alpinismo occidentale stia emettendo – magari inconsapevolmente – qualche tardivo rigurgito di nostalgia coloniale, anche se fuori tempo massimo.
Coincidenza (o forse no). Negli stessi giorni dello scorso luglio arrivava l’ennesima notizia di un episodio comunque definibile di “malasanità”. Frutto presumibilmente delle politiche di tagli e di privatizzazione dei servizi sanitari. A Marina di Carrara un anziano malato oncologico, in ospedale per un’ecografia, ha potuto rientrare a casa soltanto dopo sette ore. Sei delle quali trascorse in un corridoio del pronto soccorso, esposto all’aria condizionata e senza che i parenti potessero entrare per assisterlo. In attesa di un’autoambulanza disponibile. Come conseguenza, per ora, vomito e tosse insistente.
Inevitabile chiedersi quante richieste per interventi d’urgenza ci saranno state nella stessa giornata da parte di alpinisti-escursionisti-speleologi (ricordate quella che l’anno scorso, dopo essere stata recuperata in grotta e portata all’ospedale, cinguettava di essersi “fatta anche un giro in elicottero”?).
Più o meno scanzonati o incoscienti. Quelli, per capirci, che chiamano il Soccorso Alpino anche per una storta. Forse sarebbe il caso di stabilire qualche priorità. Sia qui da noi che sulle montagne himalayane.
E in qualche caso (a scopo educativo) si potrebbe anche lasciarli lì…