La donna ha il cervello più piccolo dell’uomo, quindi è un essere inferiore. Lo stabilì, sulla base di dati scientifici “inoppugnabili”, Paul Broca, fondatore dell’antropologia francese, verso la metà del secolo scorso. Poco prima, in America, il medico Sarmkel George Morton, misurando il volume interno di un migliaio di crani di razze diverse, aveva concluso, anch’egli con certezza scientifica, che il genere umano è una piramide: in cima stanno i bianchi, in mezzo gli indiani, in fondo i negri.
Tra Broca, Morton, Giovanni Marro (autore nel 1940 di un libro dal significativo titolo Il primato della razza italiana), il professore tedesco Otmar von Verschuer, inventore di un metodo infallibile per “diagnosticare l’ebrea”, tra questi e altri illustri esponenti dell’antropologia classica corre un filo rosso che conduce direttamente alle camere a gas riviste in Olocausto.
Nelle sale dimenticate del Musée de l’Homme di Parigi c’è una grande collezione di cervelli umani, forse la più grande esistente al mondo. Centinaia e centinaia di emisferi gelatinosi, alcuni un po’ sfilacciati, altri ancora ben formati nel fine disegno delle circonvoluzioni, che galleggiano nei vasi di formalina, ciascuno con la sua brava etichetta. Sono la macabra testimonianza di una pseudo-scienza che non avrebbe mai dovuto essere inventata. A raccoglierli, quasi centocinquant’anni or sono, fu un medico di nome Paul Broca, esponente emerito di una scuola di antropologia che godette di reputazione indiscussa fino a tutta la seconda guerra mondiale.

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Paul Broca, 1824-1880.

Cosa ne faceva, Broca, di tutti quei cervelli? Erano la materia prima per gli studi di antropometria che portarono lo scienziato a interessanti scoperte tra cui, appunto, quella che la donna ha il cervello più piccolo dell’uomo. Per diffondere le proprie idee Broca fondò, nel 1859, la Société d’Anthropologie di Parigi e poi l’Ecole d’Anthropologie. Fu durante le riunioni alla Société, nel 1861, che si sviluppò il dibattito sulle prove “scientifiche” dell’inferiorità della donna.
“In generale”, diceva Broca, “il cervello è più grande negli adulti maturi che negli anziani, negli uomini che nelle donne, negli uomini eminenti che in quelli di poco talento, nelle razze superiori che in quelle inferiori… A parità di altre condizioni, c’è un’evidente relazione tra lo sviluppo dell’intelligenza e il volume del cervello”.
Oggi sappiamo che questo non è vero. Una diminuzione dell’intelligenza si ha di solito nei microcefali, cioè nelle persone che hanno un cervello di meno di 1000 centimetri cubici. Ma al di sopra di questa soglia ci possono essere variazioni anche notevoli dalla media normale, che è di 1500 cc, senza conseguenze sulle capacità mentali. Broca aveva però dalla sua una massa imponente di dati. Compiendo personalmente le autopsie in quattro ospedali parigini aveva misurato 292 cervelli maschili, riscontrando un peso medio di 1325 grammi, e 140 cervelli femminili, con un peso medio di 1144 grammi, 181 in meno dei maschi. Come mai tanta differenza?
Broca aveva preso in considerazione il fatto che questa differenza dipendesse dalla maggiore statura dell’uomo (come infatti è), ma all’obiezione rispondeva che la maggiore statura non poteva spiegare tutta la differenza. Perché? Perché sappiamo a priori che le donne non sono intelligenti quanto l’uomo. “Possiamo chiederci se le piccole dimensioni del cervello femminile dipendano esclusivamente dalle piccole dimensioni del corpo femminile. Tiedemann [un antropologo dell’epoca] ha proposto questa spiegazione. Ma non dobbiamo dimenticare che le donne sono in media un po’ meno intelligenti dell’uomo, una differenza che non va esagerata ma che è cionondimeno reale. Siamo quindi autorizzati a supporre che le relativamente piccole dimensioni del cervello femminile dipendano in parte dall’inferiorità fisica e in parte dall’inferiorità intellettuale della donna”.
La trasposizione tra tesi e dimostrazione è evidente; ma Broca non fa mostra di accorgersene. Partendo dai dati raccolti dal maestro, Gustave Le Bon, il più misogino degli allievi di Broca, lanciò nel 1879 un attacco contro le donne paragonabile per violenza solo a quello, famoso, di Aristotele. “Tra le razze più intelligenti come tra i parigini”, scriveva Le Bon, non oscuro fondatore della psicologia sociale, “si trovano numerose donne i cui cervelli sono più vicini quanto a dimensioni ai cervelli di gorilla che a quelli di cervelli maschili più sviluppati”.

La questione razziale

La discussione sul cervello delle donne, accesasi in Francia, non era altro che un capitolo della più ampia discussione sulle differenze razziali, molto in voga tra gli intellettuali ottocenteschi, da una parte come dall’altra dell’oceano. In America, un eminente medico di Filadelfia, Samuel George Morton, decise di entrare nella mischia, anch’egli col sostegno di dati inoppugnabili. Dal 1830 aveva raccolto crani di diversi gruppi razziali, una collezione che quando egli morì, nel 1851, comprendeva 1000 teschi ed era la più grande raccolta del genere in quell’epoca. Nell’America pre-darwiniana (ma la teoria dell’evoluzione non spostò di molto i termini della questione) si scontravano due partiti: quello dei poligenisti, secondo il quale le razze erano state create separate e ineguali; e quello dei monogenisti, che la ragione della diseguaglianza facevano risalire alla corruzione seguita al peccato originale.
La Sacra Scrittura, buona come sempre a tutti gli usi, forniva al razzismo un valido argomento. Quando Noè, ubriaco e nudo, viene scoperto nella sua tenda da uno dei figli, Cam, costui segnala ai fratelli Sem e Jafet lo stato pietoso del padre, ma non fa nulla per aiutarlo. Sem e Jafet entrano nella tenda all’indietro per non vedere la nudità del padre e lo coprono. Quando Noè si sveglia maledice Canaan, figlio di Cam: “Che possa essere per i suoi fratelli l’ultimo degli schiavi; che Dio faccia prosperare Jafet, il quale abiterà nella tenda di Sem e che Canaan sia suo schiavo”. Alcuni teologi del medioevo videro in Cam l’antenato degli schiavi, in Sem quello dei chierici, in Jafet quello dei signori. Nel rinascimento questa gerarchia fu trasposta alle razze: Cam divenne l’antenato dei negri, Sem quello dei gialli, Jafet quello dei bianchi. La Bibbia non prevedeva, ovviamente, gli amerindi o “pellirosse”. Ciò permise di asserire che gli indiani d’America non avevano anima, dunque non erano uomini, e le loro proprietà potevano impunemente venire confiscate dai bianchi.
Fu nel secolo dei lumi che, nonostante il mito roussoiano del buon selvaggio, il razzismo assunse basi scientifiche. Il grande Linneo, passando dai piselli all’Homo sapiens, riconobbe quest’ultimo come un’unica specie, ma divisa in sei razze: americana, europea, asiatica, africana, selvaggia e mostruosa. Nella confusione nata da tante cervellotiche distinzioni, avveniva il fatto che l’antropologo prendesse se stesso e il proprio gruppo come punto di riferimento (“gruppo normale”) e misurasse su questo gli altri gruppi; e poiché il grosso degli antropologi officiava nell’Europa occidentale, il gruppo di riferimento era sempre quello caucasico, o meglio dei caucasici settentrionali, che Broca definiva “razza nordica”.
Convinto poligenista, Morton riteneva che le maggiori razze umane fossero state create separatamente come specie diverse. I caucasici, ai quali egli apparteneva, e i negri erano separati nell’antico Egitto come lo erano all’epoca dell’importazione degli schiavi negli Stati Uniti. Dato che l’umanità secondo la Scrittura non risaliva a più di mille anni prima dell’Egitto, era evidente, argomentava Morton, che le razze non avevano avuto tempo di differenziarsi da una comune matrice, ma dovevano essere state create cosi come le vediamo oggi.
Versandovi dentro semi di mostarda o pallini di piombo, il medico determinò la capienza dei crani della sua collezione. Il risultato fu riassunto nel 1849 in una tabella che fece il giro del mondo e che rappresentò a lungo l’argomento principe a favore della discriminazione razziale. In testa alla tabella, con una capacità cranica media di 1507 centimetri cubici, figurava la famiglia teutonica, comprendente nell’ordine i tedeschi gli inglesi, gli angloamericani. Seguivano a una certa distanza gli altri caucasici e, sempre più giù nella gerarchia, il gruppo dei mongoli, dei malesi degli indiani americani e infine dei negri africani o nati in America, che totalizzavano appena 1360 centimetri cubici di materia grigia.
Non risulta che Morton si sia mai espresso a favore della schiavitù, ma le sue craniometrie servirono di fatto ai sostenitori della peculiar institution meridionale. I dati di Morton, come quelli di Broca, sono stati rivisti nel 1981 da Stephen Jay Gould (The Mismeasure of Man) che non ha riscontrato alcuna differenza tra le cosidette razze; tutte mostrano una capacità cranica media che varia dai 1360 ai 1409 centimetri cubici. Morton era dunque un truffatore? Come già per Broca, anche per Morton la risposta di Gould è negativa. Se avesse voluto deliberatamente ingannare la platea, Morton avrebbe nascosto i suoi trucchi. Invece, dice Gould, ha lasciato bene in vista i dati grezzi, le aggregazioni e i passaggi della ricerca, tanto che è stato possibile ricostruirne l’itinerario. Cosa è emerso dalla revisione critica? Per esempio, che nel calcolare la capacità cranica media degli indiani, Morton ha incluso gli inca peruviani, che tale media abbassano, mentre nel calcolare quella dei caucasici ha escluso gli indù, che l’avrebbero abbassata. La sua media più alta, per gli inglesi, è basata su un gruppo tutto di maschi, mentre la media più bassa, per gli ottentotti, è ricavata da un campione tutto di femmine. Tutto questo, conclude Gould, discende dal fatto che Morton, come gli altri antropologi della sua epoca, avevano ben radicato il pregiudizio razziale e questo pregiudizio ne ha guidato la mente e la mano.

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Samuel George Morton, 1799-1851.

Di “casi Morton” è piena la storia della scienza. Del resto, se gli scienziati non avessero convinzioni aprioristiche non sarebbero uomini: come diceva Darwin, la buona scienza raccoglie dati per comprovare idee; ciò nonostante, l’antropologia razzista del XIX secolo, con le altre pseudo-scienze (la frenologia, la genetica di Mioiurin e Lysenko, eccetera), pone all’epistemologo quesiti di non facile soluzione. Secondo Jacques Ruffié (Dalla biologia alla cultura), per comprendere l’antropologia classica occorre collocarla nel suo contesto storico, cioè nel periodo di pieno sviluppo del colonialismo occidentale, che tendeva a presentarsi come prodotto non di una determinata congiuntura politica ma di un’imprescindibile necessità biologica.
Le idee di Broca ebbero lungo seguito. Anche Maria Montessori si dedicò alla misurazione della testa dei suoi allievi e fu brochiana nell’asserire che a più larghi perimetri corrispondono più alte intelligenze. Dissentì invece da Broca per quanto riguarda il cervello delle donne, che anzi giudicò più potente, tanto da lasciar prevedere l’avvento di un “regno delle donne”.
L’insegnamento di Broca illuminò anche l’opera di Otmar von Verschuer, direttore dell’Istituto di Antropologia di Berlino, e degli altri antropologi nazisti che durante la seconda guerra mondiale offrirono supporto scientifico alla “soluzione finale” di Hitler e di Himmler. In Mein Kampf, Hitler proclama che “l’ariano è il Prometeo del genere umano”, mentre “l’ebreo non soddisfa la condizione preliminare fondamentale per un popolo civilizzatore, egli non è idealista. Egli è e resta il parassita tipo, lo scroccone che, come in bacillo nocivo, si diffonde sempre più lontano”.
In discorsi di propaganda tenuti nella Francia occupata, ricorda Ruffié, gli antropologi del Terzo Reich erano soliti affermare che “sulla base di ricerche scientifiche relative all’ereditarietà siamo oggi persuasi che, in larga misura, l’immagine ereditaria dell’uomo è costante e immutabile… Solo una falsa concezione del matrimonio può distruggere questa immagine… Questa constatazione ha condotto lo stato nazionalsocialista a non lasciare più la scelta degli sposi alla casualità degli affetti, delle inclinazioni e dei desideri individuali. Esso ha eretto alcune barriere: in particolare, gli individui estranei alla razza o affetti da malattie ereditarie sono esclusi dalla riproduzione all’interno del corpo del popolo tedesco. L’interdizione di contrarre matrimonio tra tedeschi e individui di razza straniera concerne in primo luogo gli ebrei…”. Seguiva, immancabile, l’omaggio ai lavori degli scienziati francesi Broca, Gobineau, Lepouge…

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Il Saggio sulla diseguaglianza delle razze umane è l’opera più nota di Joseph Arthur de Gobineau (1816-1882), caposcuola del razzismo scientifico tra ‘800 e ‘900, i cui principali seguaci furono l’inglese naturalizzato tedesco Houston Stewart Chamberlain e Alfred Rosenberg, ideologo dell’“antropologia” nazionalsocialista.

Broca lo conosciamo, Ma gli altri chi erano? Joseph Arthur conte di Gobineau aveva esaltato, più o meno all’epoca di Broca, il primato della razza ariana, un mito al quale è strettamente connesso l’antisemitismo. G. Vahcer de Lapouge aveva anch’egli celebrato, in varie pubblicazioni tra il 1887 e il 1902, gli alti, biondi, dolicocefali (dal cranio allungato) discendenti degli ariani, “la razza che aveva dato origine a tutti gli uomini di genio ma che purtroppo era stata parzialmente soppiantata, in Francia, dalla razza alpina, composta da soggetti bruni, tarchiati, brachicefali (a cranio largo), propendenti per il cattolicesimo e il tranquillo lavoro dei campi”.
I princìpi di eugenetica di Von Verschuer furono messi in pratica nel 1936 con le Lebensborn, le “fontane di vita”, officine per la produzione di bambini di pura razza ariana, poste sotto il diretto controllo dello stato maggiore delle SS. In queste officine, a metà strada tra la clinica di maternità e l’allevamento zootecnico, giovani donne di sangue scelto, desiderose di regalare un figlio alla patria, poterono accoppiarsi con un partner anch’egli garantito di razza ariana, preso di solito nei ranghi delle SS. Se nonostante la cura posta nella scelta dei genitori il prodotto non presentava la qualità desiderata, veniva scartato.
La produzione del Lebensborn non era però sufficiente, e poiché molti fanciulli che presentavano tutti i caratteri della razza nordica si trovavano sparsi nei territori controllati dai tedeschi, Himmler decise una vasta opera di trafugamento, che prese l’avvio nel 1940 in Polonia. I bambini iconosciuti validi in seguito a “cernita razziale” e a esame psicologico venivano prelevati dalle famiglie e avviati in Germania. La cernita, non sempre affidata a personale esperto, lasciava però a desiderare e quando gli antropologi delle SS ripetevano il controllo si avevano molti scarti. Dei due milioni di bambini polacchi rubati, soltanto centomila furono considerati “razzialmente utili”. Della maggior parte degli scartati si sono perse le tracce, mentre dei centomila selezionati per rinforzare il capitale antropologico ariano è stato possibile identificarne e restituirne alle famiglie, dopo la guerra, soltanto un 15-20%.

 

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