Spesso si attribuisce all’illuminismo e alla rivoluzione francese del 1789 la quasi totale responsabilità della repressione linguistica e culturale subita dalla “nazioni senza stato”. Anche nel caso dei baschi. Quasi che l’ancienne regime invece le tutelasse e salvaguardasse la loro integrità.
In realtà la faccenda mi sembra un tantino più complessa. A mio avviso, quello che traspare è una sostanziale continuità. Qualunque fosse il “blocco dominante al potere”, lo Stato manteneva le leve del controllo esercitato nei confronti dei “sottoposti” (sia sulle classi subalterne sia sui popoli minorizzati) con ogni mezzo ritenuto necessario.
Anche dopo una rivoluzione. Soprattutto quando va troppo per le lunghe e degenera in guerra civile. Senza dare risposte e soluzioni adeguate alle aspirazioni di giustizia e libertà da cui, presumibilmente, era stata innescata.
Per restare nell’Esagono, pensiamo alla dura repressione per mano di Luigi XIV della ribellione dei Bonnets rouges in Bretagna (scoppiata per le nuove tasse, ma che en passant aveva fornito l’occasione per l’incendio di vari castelli e l’uccisione dei proprietari, quindi tutto fuorché “conservatrice”).
Oppure pensiamo allo sterminio di donne basche accusate di stregoneria in Lapurdi (regione considerata “sediziosa”) alla fine del XVI secolo: oltre tremila “streghe”, circa il 12% della popolazione di allora.
L’inviato del re, il visconte di Lancres (tutto fuorché un illuminista o un giacobino ante litteram) individuò nella stregoneria una probabile fonte di disordini. Agì quindi di conseguenza spedendo le povere donne (al massimo erboriste e depositarie di saperi tradizionali, comunque “soggetti antagonisti”) sul rogo.
Successivamente, nel XVII sec., scoppiò una rivolta in Zuberoa. Era la risposta dei baschi al solito Luigi XIV che aveva arbitrariamente concesso la proprietà della provincia al conte di Treville. La ribellione era guidata da un certo Matalas, poi fatto decapitare.

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A sinistra: il castello di Mauleón, in Zuberoa, dove venne giustiziato nel novembre 1661 il sacerdote Bernard Goihenetxe, detto Matalas. Aveva capeggiato una rivolta contadina contro l’aumento delle imposte e l’assegnazione di terre pubbliche alla nobiltà: settemila uomini disarmati furono travolti da 500 soldati a cavallo e 400 fanti. A destra: Zuberoa (in guascone Sola, in francese Soule) è un territorio del Paese basco francese.

Appare evidente che, quando si trattava di reprimere i baschi (o i bretoni) e le loro sacrosante aspirazioni, anche l’aristocrazia si dava da fare.
Quanto alla specifica, mirata repressione linguistica operata dallo stato francese in Iparralde, non ebbe inizio di punto in bianco con il 1789. C’erano già dei precedenti.
Nel 1539 Francesco I firmò un’ordinanza che imponeva ai tribunali l’uso esclusivo del francese. Il primo passo in un’epoca in cui Iparralde godeva ancora di una certa relativa autonomia e conservava in parte le sue istituzioni tradizionali.
Circa un secolo dopo, la nascita dell’Accademia della Lingua rappresentò un ulteriore passaggio nel fare del francese l’elemento unificante del territorio.
Poi, ça va sans dire, con la rivoluzione del 1789 arrivò il colpo di grazia: l’imposizione del francese a tutte le nazionalità presenti nell’Esagono che determinò la messa al bando dell’euskara (il basco), del bretone, del corso, eccetera. L’obiettivo era quello di salvaguardare unità e coesione dello Stato francese, ma a spese dei popoli minorizzati, delle nazioni senza stato.

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Un deputato di Lapurdi aveva tentato di cogliere l’occasione della rivoluzione per ottenere un nuovo ordinamento amministrativo, presentando il progetto di un dipartimento basco. Invece, nonostante l’opposizione congiunta dei deputati baschi e bearnesi, nel 1790 venne istituito il dipartimento dei Bassi Pirenei. Il malcontento e la ribellione vennero repressi anche con deportazioni (e la morte come conseguenza per molti deportati). Con il senno di poi, un’occasione irreparabilmente persa per entrambi: per i baschi innanzi tutto, ma forse anche per la Francia rivoluzionaria che non seppe (o non volle) coniugare i Diritti dell’Uomo e del Cittadino con i Diritti dei Popoli. Diciamo che all’epoca mancava un antesignano di Emilio Lussu o di Lelio Basso.
Se poi guardiamo a Hego Euskal Herria (Paese basco “provvisoriamente” sotto amministrazione spagnola), le cose andarono anche peggio, sempre per opera della “monarchia tradizionale” (“organica” e cattolica, la stessa vagheggiata da Franco): dai massacri di eretici (veri o presunti, in realtà più che altro dissidenti) dell’Inquisizione dopo l’invasione della Navarra da parte di quel che rimaneva dei “re cattolici” (il solo Ferdinando: a quel punto Isabella era già defunta), alle stragi operate nel dopoguerra (quella civile spagnola, dopo il 1939) dal cattolicissimo Franco…
Fino, si parva licet, alla bassa manovalanza neofascista italica operante nei vari squadroni della morte antibaschi (ATE, BVE, GAL) in batteria con elementi dei Guerrilleros de Cristo Rey (cattolici ultratradizionalisti, legati ai servizi segreti spagnoli).

Il colonialismo linguistico

Con la fine dell’impero coloniale francese (ma non della “politica d’Oltremare”, vedi il rilancio del neocolonialismo e gli interventi militari) si è in parte assistito alla rinascita di lingue che in passato venivano schiacciate dall’omologazione alla parlata e alla cultura esportate dalla metropoli.
Sia in Asia sia in Africa, le lingue tradizionali in precedenza erano considerate quantomeno un modo poco colto di esprimersi (anche da una parte della popolazione locale) mentre contemporaneamente si celebrava la grandeur francese.
Indirettamente, l’esempio del cosiddetto “terzo mondo” con le sue lotte di liberazione (Algeria, Vietnam, colonie portoghesi) fornì, se non un modello, sicuramente un’indicazione per le lotte di liberazione in Europa, dai Paesi baschi alla Corsica. ETA si richiamava esplicitamente all’esempio del FLN (Algeria), mentre il corso Yves Stella (uno dei fondatori del FLNC) parlava della sua lunga esperienza in Africa da cui trasse la convinzione che era possibile combattere per salvaguardare la propria cultura e lingua (identità o appartenenza che dir si voglia).
In ogni caso, alla fine del XX secolo la situazione in Iparralde (Euskadi Nord), per quanto grave, non era altrettanto drammatica di quella che si registrava in Hegoalde (Euskadi Sud). Anche a vent’anni dalla sua fine, la dittatura franchista durata un quarantennio aveva lasciato segni indelebili.

Questa la situazione di quanti utilizzavano l’euskara in Hego Euskal Herria alla fine del secolo scorso: Bizkaia 17%; Alava 7%; Gipuzkoa 44% (un’ipotesi: la vicinanza alla frontiera di Gipuzkoa consentì la fuga in Iparralde e in Francia a un numero maggiore di cittadini baschi nel 1939; col tempo molti rientrarono e presumibilmente i loro figli erano cresciuti parlando anche euskara); Navarra 11%.
Nello stesso periodo in Ipar Euskal Herria (Paesi baschi “francesi”, per convenzione) la situazione era questa: Lapurdi 24%; Bassa Navarra 72%: Zuberoa 70%.

Appariva evidente che nel complesso il basco si era meglio conservato al Nord (se pur “segnato dalla ferocia dell’illuminismo”) rispetto al Sud (che aveva invece “goduto” delle gioie della tradizione clerico-fascista).
Naturalmente, se in Iparralde non si sono registrati arretramenti, gran parte del merito va all’impegno sociale, all’insegnamento, all’attività di associazioni e volontari. Del resto era in territorio francese che la maggior parte dei baschi trovava rifugio, almeno fino alla fase delle estradizioni (seconda metà degli anni ottanta).
A conti fatti, in Hegoalde (Paesi baschi “spagnoli”, tanto per intenderci) alla fine del secolo scorso il 67% della popolazione parlava solamente il castigliano, mentre il basco come lingua di comunicazione era utilizzata da nemmeno il 10%. Drammatico!
E questo nonostante l’esistenza di una radio e di una televisione basche (ETB, anche se i programmi erano soprattutto “per giovani”: giochi, sport, cartoni animati…) e della possibilità di corsi in euskara all’università. Tra le cause, ovviamente i trascorsi della repressione fascista (al limite del genocidio culturale, e non solo). Va anche considerato il “peso linguistico” (espressione che prendo in prestito) delle varie istituzioni (esercito compreso) e dell’amministrazione.
Altro fattore, il tentativo franchista (riuscito solo in parte: molti figli di immigrati si integrarono nella lotta dei baschi per la libertà, vedi il Txiki) di trasformare i caratteri etno-culturali della nazione basca attraverso un’immigrazione massiccia nelle aree industriali basche.
Per quanto riguarda i giornali, se l’euskara era ed è presente sulla stampa lo si deve alle iniziative sociali degli abertzale, non certo a quelle della Comunità autonoma.
A grandi linee possiamo calcolare che attualmente esistano circa un milione (su tre milioni di abitanti) di basco-parlanti.
Oltre che dalla prevalente presenza delle lingue francese e spagnola (scontata), a suo tempo qualche ulteriore difficoltà sorse con l’introduzione dell’euskara batua (unificato).
Ferme restando le difficoltà inerenti alla forzata “tripartizione” del Paese basco, possiamo affermare che dalla fine del secolo scorso in Hego Euskal Herria si va evidenziando una certa “normalizzazione” linguistica.

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“Scuola basca, scuola del popolo” dice lo striscione, durante questa manifestazione indetta nel febbraio 2013, a Hendaye (Iparralde), dalla federazione delle scuole bascofone.

L’euskara e la scolarizzazione

Non è esistita invece una seria politica linguistica comune, in quanto non esiste una Stato basco (e tantomeno uno basco unitario).
Sostanzialmente si può parlare di tre politiche linguistiche diverse a seconda delle diverse realtà sia giuridiche sia socio-linguistiche in cui versa Euskal Herria.
Nelle tre Vascongadas l’euskara ha conquistato terreno da un paio di decenni. È adottato dai mezzi di comunicazione, nell’amministrazione, nell’insegnamento, e dalla fine degli anni novanta anche in ambito lavorativo, in particolare nei servizi.
Fino a qualche anno fa la situazione peggiore era quella della Navarra, linguisticamente divisa in tre zone principali: il nord in cui si parla il basco, Pamplona e dintorni da considerare “zona mista” e il sud dove è assai carente (anche a livello istituzionale).
E lo sbandierato bilinguismo? Non è sempre una garanzia, anzi. Come spesso succede (vedi in Irlanda tra inglese e gaelico), la lingua più forte finisce con divorare l’altra.
In base all’articolo 3 della Costituzione spagnola, tutti i cittadini – baschi compresi – avrebbero il dovere di conoscere il castigliano. Invece il basco rimane un “diritto”.
Formalmente nelle Vascongadas i ragazzi delle scuole medie dovrebbero conoscere il basco, ma tale norma non viene applicata adeguatamente.
Da quanto mi era stato riferito, negli ultimi decenni sono rimasti in vigore tre i modelli di insegnamento.
Nel primo con tutte le materie in castigliano, il basco è seconda lingua.
In un’altro l’insegnamento è bilingue.
Nell’ultimo troviamo tutte le materie in euskara e il castigliano come seconda lingua.
E questo, sostengono gli indipendentisti abertzale, sembra l’unico che garantisce veramente l’apprendimento della lingua.
In Navarra esiste per oltre centomila alunni la scolarizzazione del primo tipo, ma a quanto sembra i bambini non imparano l’euskara.
Dalla prima metà degli anni novanta (1993) si sono applicati due tipi di insegnamento: 1) quello della scuola pubblica che dipendeva dal governo regionale basco e 2) quello della scuola privata, per esempio le scuole gestite dal clero o i collegi francesi, anche tedeschi, riservati in genere ai ragazzi di ricca famiglia.
Questo all’epoca aveva comportato la chiusura di molte scuole basche (le ikastolas) che dovevano scegliere tra scuola pubblica e scuola privata. Ne era derivata una lacerazione, una divisione.
È probabile che le ikastolas, in quanto spina nel fianco del governo basco (in senso buono: di stimolo, di pressione) siano state elegantemente e volutamente mandate in crisi (sempre secondo gli abertzale). O forse il governo basco considerava la normalizzazione linguistica ormai conquistata.
Parlando di ikastolas, ricordo che contemporaneamente (in sintonia) all’operazione contro il giornale in lingua basca “Egunkaria” 1) nel 2003 (arresto di una decina di redattori, alcuni sottoposti a tortura, chiusura del giornale e del suo sito internet per presunta relazione con ETA), vennero perquisiti anche gli uffici della Federazione delle Ikastolas.
Una grande quantità di materiale pedagogico, contabile e culturale venne sequestrato e inviato a Madrid.
Tornando al 1993, questi in sintesi furono i modelli scolastici imposti a Euskal Herria dallo Stato spagnolo. È da allora che l’euskara diventa, da lingua della resistenza, uno strumento di mobilità sociale per tutti quei soggetti (funzionari, impiegati pubblici, telecronisti, presentatori televisivi…) che non si erano mai particolarmente distinti nella lotta per l’autodeterminazione. 2)

N O T E

1) “Egunkaria” era l’unico quotidiano pubblicato integralmente in euskara (sei giorni a settimana) e distribuito in tutte e sette le province basche (sia in Hego E.H. che in Ipar E.H.).
2) Analogia evidente con il gaelico. A Dublino lo imparavano i funzionari statali per fare carriera; a Belfast e Derry, i militanti e i prigionieri repubblicani come rivendicazione.

 
BIBLIOGRAFIA