Lunedì pomeriggio. Sto guardando la tv in un’America decisamente scossa, poche ore dopo che quella banda di delinquenti dell’ISIS ha minacciato di colpire gli Stati Uniti come prosieguo del massacro di Parigi. E, come faccio sempre quando sono lontano da casa, sto pensando intensamente al mio militarizzato e demonizzato Israele.
La CNN strombazza: “Le città degli Stati Uniti intensificano la sicurezza dopo l’attacco di Parigi,” e “La nuova minaccia di attacchi dell’ISIS comprende Washington,”, mentre l’emittente inquadra e intervista una marea di politici e capi militari ed esperti di sicurezza. Raccontano agli spettatori che proteggere tutti i bar e i teatri da potenziali attentati è semplicemente impossibile. Descrivono lo Stato Islamico come la peggior piaga del terrorismo che siano in grado di ricordare. Discutono se il presidente Barack Obama abbia ragione a insistere che non poserà un solo stivale in Siria e in Iraq per contrastare il califfato.
Gli espertoni, dal presidente in giù, mi sembrano più o meno fuori di testa. Dianne Feinstein, senatrice per oltre 20 anni che ha fatto parte della potente commissione per gli affari esteri e l’intelligence, mormora qualcosa di incoerente sulla necessità di “tenere unito il mondo occidentale” per “provvedere alcuni elementi di sicurezza”. Un succedersi di aspiranti presidenti repubblicani sollecitano un tonante quanto generico attacco sul campo. “Dovremmo distruggerli”, dichiara Jeb Bush. “Voglio combatterli nel cortile di casa loro, in modo da non doverli combattere nel nostro”, abbaia Lindsey Graham. Il presidente ha appena tirato una sberla ai suoi critici in una conferenza stampa, respingendo i loro suggerimenti più o meno come ha fatto con le obiezioni di Benjamin Netanyahu sull’accordo nucleare con l’Iran: “Questa gente vuole dire come si muoverebbe al posto mio? Presentino un piano specifico” (Netanyahu ha fatto proprio questo per l’Iran, ovviamente: non che sia servito a qualcosa).

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Fotogramma del nuovo video propagandistico dell’ISIS, distribuito il 16 novembre, che promette attacchi ai Paesi coinvolti nelle operazioni aeree sulla Siria.

Statisti e commentatori hanno definito il recente bagno di sangue l’“11 settembre francese”. Per molti versi, però, è stato il giorno in cui Parigi ha subìto un assalto terrorista che assomigliava, in formato addirittura ridotto, a quelli sofferti per anni da Israele. Nemmeno nel corso della Seconda Intifada le stragi strategicamente pianificate dai kamikaze di Hamas e Fatah nei primi anni di questo secolo sono riuscite a massacrare 129 di noi in una sola sera. Gli ci è voluto più tempo: soltanto nel marzo 2002 sono stati uccisi da terroristi palestinesi 120 civili israeliani.
Mentre bombaroli e cecchini prendevano di mira i nostri autobus, i nostri centri commerciali, alberghi, università e ristoranti, noi abbiamo fatto due cose che la Francia, gli Stati Uniti e il resto del mondo libero dovranno fare a loro volta, se vogliono sconfiggere quest’ultimo e particolarmente spregevole terrorismo islamico: abbiamo imparato a ridurre la nostra vulnerabilità al terrorismo e abbiamo aggredito gli assassini nei loro centri operativi. Miope, ipocrita e cocciuta, la comunità internazionale – compreso il grosso del mondo occidentale – ha capito a malapena la necessità della prima strategia e ci ha sanzionato per la seconda.
Noialtri abbiamo reso ai terroristi più difficile ucciderci facendo proprio quelle cose che gli esperti della CNN stanno definendo impossibili: proteggendo tutti i nostri bar, ristoranti, centri commerciali, ingressi degli alberghi, autobus e ogni altro luogo pubblico in cui i nostri cittadini si riuniscono, con barriere, metal detector e guardie di sicurezza; e dopo tutti questi anni, i kamikaze ancora non sono riusciti a mettere piede nei nostri teatri e nelle nostre sale da concerto. Abbiamo rafforzato la raccolta di informazioni nei territori palestinesi ferocemente ostili, in particolare nelle città della Cisgiordania da cui ci eravamo ritirati anni prima nella vana ricerca di una convivenza pacifica. E alla faccia delle continue critiche assurde, abbiamo costruito una barriera di sicurezza – un misto di recinzioni e tratti di muraglia – in modo che gli attentatori suicidi palestinesi non possano entrare tranquillamente in macchina in Israele e farci saltare in aria. Siamo diventati una nazione di analisti della sicurezza interna, che valutano dove fare acquisti e se prendere o non prendere l’autobus per ridurre al minimo l’esposizione agli assassini. E abbiamo tenuto duro.
Abbiamo anche reagito con la forza, in particolare dopo il marzo nero del 2002, quando abbiamo lanciato una grande operazione militare in Cisgiordania per distruggere l’“infrastruttura” del terrorismo nella regione: le fabbriche di bombe e i centri di indottrinamento dei kamikaze.

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David Horovitz è il direttore-fondatore del “Times of Israel”. In passato ha diretto il “Jerusalem Post” (2004-2011) e il “Jerusalem Report” (1998-2004).

Buona parte della comunità internazionale, rintronata da un giornalismo pietista, ha travisato l’operazione, ha creduto alle invenzioni palestinesi sul bilancio delle vittime, e – con alla testa l’allora presidente George W. Bush – ha insistito affinché ci fermassimo e ce ne andassimo. Ma noi non l’abbiamo fatto. Ecco perché nel 2015, mentre l’attuale leadership politica, spirituale e mediatica palestinese incita la sua gente a uccidere di nuovo gli ebrei, ci troviamo ad affrontare accoltellatori e investitori stradali, invece che uomini-bomba dal potenziale dirompente. Quantomeno finora.
La Francia, gli Stati Uniti e il resto dell’occidente sono ora alle prese con molti dei dilemmi angoscianti che noi abbiamo vissuto per anni. Come si fa a mantenere le proprie libertà, si sta chiedendo l’occidente, mentre si affrontano nemici che di tali libertà abusano? Che tipo di leggi si devono emanare? A chi permettere di attraversare i confini? In quali circostanze effettuare arresti preventivi, detenere individui sospetti senza processo, spiare internet, neutralizzare gli istigatori all’odio? Non è facile, vero?
Come fai a ridurre al minimo le minacce ai tuoi cittadini senza che muoiano troppi dei tuoi soldati? E senza uccidere troppi dei civili (spesso sostenitori del terrorismo) a cui si mescola il nemico? Ecco qualcos’altro su cui ci siamo scervellati a lungo. Abbiamo lasciato Gaza nel 2005, Hamas ha preso il potere nel 2007, e da allora per tre volte siamo stati trascinati in un conflitto dagli attacchi incessanti degli islamisti contro Israele. Ma noi sappiamo di non poter distruggere l’ideologia estremista con la forza. Né vogliamo essere trascinati nuovamente nel pantano di Gaza. Un uomo una volta ha detto: “Siamo in grado di riconquistare il territorio. E finché vi lasciamo le nostre truppe, siamo in grado di mantenerlo, ma ciò non risolve il problema di fondo: eliminare le dinamiche che producono questi gruppi estremisti e violenti”. Quell’uomo era il presidente Obama, lunedì scorso, mentre parlava della Siria e dell’Iraq. Ti verrebbe da pensare che adesso stia cominciando a capire qualcosa di più delle difficoltà che abbiamo affrontato.
Ti verrebbe da pensare che adesso lui e gli altri benintenzionati leader mondiali… quelli che ci invitavano a correre rischi a favore della pace, assicurandoci che potevamo in piena sicurezza rinunciare al territorio adiacente persino nel nostro infido Medio Oriente; che non sapevamo cos’era meglio per noi… stiano cominciando a sospettare che forse, solo forse, le cose non sono così semplici. Che forse noi israeliani, nel resistere ostinatamente a politiche internazionali che temiamo si traducano in un suicidio nazionale, non siamo così stupidi, dopo tutto.

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Il ministro degli Esteri svedese, Margot Wallström.

In realtà io sto aspettando di vedere quante figure di spicco, che si suppongono intelligenti, seguiranno l’esempio del ministro degli Esteri svedese e faranno salti mortali per incolpare Israele per le azioni malvagie di un culto infernale che ha convinto i suoi seguaci a uccidere ed essere uccisi in nome di dio. L’argomento è talmente ridicolo da non riuscir quasi a riassumerlo: se solo avessimo fatto ciò che la comunità internazionale ci ha detto di fare – sembra essere il senso dell’affermazione – abbandonando la Cisgiordania come abbiamo rinunciato a Gaza (mettendo il nostro intero Paese a repentaglio nel processo), lo Stato Islamico non avrebbe massacrato 129 persone a Parigi e non starebbe minacciando gli Stati Uniti.
Lasciamo perdere… Quantomeno mi auguro che i leader e i dirigenti dell’intelligence di Francia, resto d’Europa e Nordamerica si confrontino con quelle controparti israeliane che hanno così spesso giudicato e criticato, beneficiando della nostra esperienza amaramente accumulata nella lotta contro il terrorismo islamico.
Non esiste una difesa assoluta contro il terrorismo. Né esistono panacee militari. Ma strategie efficaci ce ne sono. Israele non sarebbe sopravvissuto senza di esse. I fatti di Parigi sono un segnale che anche il resto del mondo libero dovrebbe adottarne il più possibile.

Traduzione a cura di “Etnie” dell’articolo Will the West now adopt Israel’s anti-terror strategies?, “The Times of Israel”, 17 novembre 2015.