Figlio mio, temi l’Eterno e il re, non associarti con quelli che vogliono cambiare; perché la loro calamità sopraggiungerà improvvisa; e la rovina di entrambi chi la conosce?                       
(Proverbi 24,21-22)

Nel cattolicesimo c’è un equivoco che da sessant’anni coinvolge la Chiesa. Il catto-progressismo millanta il Concilio Vaticano II, pastorale e non dogmatico, come l’unico o il migliore della storia.  Le cose non stanno così ed è bene confutare questo luogo comune che fa parte della retorica dell’“ecclesiasticamente corretto”. Oltre all’ecumene, generazioni di preti educati nei seminari in modo fuorviante sono divenuti intanto cardinali, vescovi e presbiteri. Se quel consesso trasformò la liturgia e la lex credendi, le disposizioni dei concili precedenti non si estinsero di botto ma seguitarono a essere parte integrante della Tradizione, insieme alla Rivelazione. Parafrasando Robert Spaemann, il filosofo cattolico morto nel 2018: “Che cosa fonda l’identità di un popolo? La comunanza di un racconto. E questo vale in primo luogo per il popolo di Dio. Esso vive nella tradizione dell’aver ricevuto e dall’aver trasmesso quanto ha ricevuto. Ciò che abbiamo udito e conosciuto, e i nostri padri ci hanno raccontato, non lo terremo nascosto ai nostri figli. Essi a loro volta dovranno trasmetterlo secondo il comando del Signore”.
Per Spaemann, che ha prodotto queste meditazioni, la tradizione e la liturgia hanno ancora un senso rispetto al nuovo linguaggio ecclesiale che ha perso di sacralità. Per esempio, l’abbandono del canto gregoriano e della polifonia classica ha privato i riti di un patrimonio liturgico, artistico e spirituale grandioso, recidendo le radici con la tradizione dei secoli.
Se in quella assise vennero cambiati i “connotati” alla Chiesa Cattolica, di rado si ricordano i protagonisti decisivi, ovvero gli autori del putsch, fra i 2400 Padri. Negli eventi del Vaticano II, una figura di spicco della svolta modernista fu certamente Giuseppe Dossetti, fondatore della Scuola di Bologna, che contribuì a scrivere il documento conciliare sulla “Chiesa dei poveri”.  

Giuseppe Dossetti

Dossetti ebbe una complessa personalità divisa tra politica e religione. In gioventù aderì al fascismo come studente dei GUF, gli universitari che si servivano delle menti più brillanti del tempo per portare idee nuove regime. Nel 1937 la rivista “Il Solco fascista” lodò l’abile camerata Dossetti per i suoi strali contro il bolscevismo. Dopo l’“errore di gioventù” egli transitò, durante la guerra civile in Italia (1943-45), nel “lavacro” della Resistenza tra i capi del CLN con il nome di battaglia Benigno e concorse a creare il mito della liberazione, seppur da cattolico, ottenuta grazie alla presunta “superiorità etica” dei dirigenti e militanti comunisti.
Poi Dossetti trovò una collocazione nel nuovo corso politico del dopoguerra. Nel 1948 disse che il voto aveva fatto trionfare la “concezione cristiana” e che il Fronte Popolare (PCI e PSI) attuava una “campagna antireligiosa”. Aggiunse che “era nella natura delle cose il senso, intimamente religioso, della lotta per Cristo o contro Cristo” e che “la massa pesò in coscienza il senso spirituale, religioso e cristiano del voto a favore della Democrazia Cristiana”.
Vicesegretario della DC dal 1950 al 1951, fu deputato alla Camera e alla Costituente. In particolare, fu vero protagonista della formulazione dell’art.7 della Costituzione: “Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi”.
Visionario, avrebbe voluto traslare i precetti evangelici in campo politico e formare un partito cattolico-laburista. Alla fine del 1951 collise con il realismo di Alcide De Gasperi e uscì dalla DC e dal Parlamento. Confondendo i contesti, rivolto agli amici democristiani Leopoldo Elia e Pietro Scoppola disse: “La mia esperienza alla Costituente ha capovolto le sorti del Concilio”. Tuttavia la difesa costituzionale di uno Stato non poteva essere commisurata, in nessun modo, alla Parola di Dio. Nel 1956 fu mandato allo sbaraglio dal cardinale Giacomo Lercaro alle elezioni comunali a sindaco di Bologna come indipendente della DC. Malgrado la “crociata” clericale di Lercaro, il Partito Comunista Italiano ebbe la maggioranza e Dossetti entrò, assai deluso, in consiglio comunale nella minoranza.
Nel dicembre del 1956 manifestò il desiderio di diventare sacerdote. Si dimise da professore universitario, ritenendo il ruolo incompatibile con le sue scelte religiose. Nella sua ultima seduta del consiglio comunale, il 29 marzo 1958, rassegnò al sindaco Giuseppe Dozza le dimissioni da consigliere.
Vestito l’abito talare, si ritirò nel santuario di San Luca a Bologna per iniziare la preparazione. Fu ordinato sacerdote nel 1959, anche se non smise di interrogarsi sul senso di una “politica cristiana”. Dopo anni di clausura monacale nell’abbazia di Monteveglio a Bologna, fu precettato (un sogno avverato) e inviato dal cardinale Lercaro come suo perito ai lavori del Concilio.
Nel consesso espresse il concetto, invero del tutto manicheo, secondo il quale la tradizione aveva sempre una natura negativa e il modernismo sempre una natura positiva. La tesi, di fatto scismatica, tendeva a separare la Chiesa minacciando il cristianesimo dall’interno e, canonicamente, avrebbe dovuto essere sottoposta al Sant’Uffizio. Ciò però non avvenne!
L’aver detto che il cristianesimo “aggiornato” sarebbe “l’unica verità”, nata peraltro da una élite eterodossa, fu però un peccato contro la virtù teologale della carità. Dossetti teorizzò la “Chiesa dei poveri” sposando la teologia antropocentrica che da allora deviò lo sguardo da Dio: un’ alterazione della cristologia. Creando uno squilibrio di valori che, nel violare la dimensione del Divino, entrava in quella dell’umano. Fu di fatto un ribaltamento cristologico che sminuiva la Seconda Persona della Trinità. Un neo-arianesimo, un’eresia, in definitiva.
Nacque così una componente eterodossa dentro la Chiesa, in antitesi con la Rivelazione, la morale, il Magistero, l’ecclesiologia del passato. Nacque il cosiddetto cristiano adulto che, con la bandiera arcobaleno, nelle marce del “pacifismo” di Assisi, oggi fa la guerra al diritto naturale. Dossetti fu in sintonia con il clericalismo militante, e se da un lato portava con sé la dote teologica (sebbene fosse autodidatta), dall’altro si impose nelle manovre ecclesiastiche come promotore degli esperimenti di Bologna (cardinale Lercaro docet) e attrasse molti prelati alla sua causa.
Giuseppe Dossetti voleva creare le condizioni affinché si predicasse nella Chiesa la Verità al mondo attraverso un linguaggio contemporaneo. In realtà, la Verità veniva modellata secondo il pensiero e le esigenze del mondo stesso e non attraverso l’adesione totale a Dio. Un’altra religione, non certo in linea con Tommaso da Kempis o con l’ambiente certosino cristocentrico, dove è probabile che sia stato scritto il De Imitaione Christi, libro nel quale troviamo l’apologia del disprezzo della vanità del mondo.
Il nostro insegnò all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, dove nel 1940 ottenne la libera docenza e insieme la cattedra di Diritto canonico. Due anni dopo insegnò Diritto ecclesiastico all’Università di Modena.
Agli esordi nella vita pubblica, il primo novembre 1946, nell’intervento al convegno di Civitas Humana di Milano, affermò di voler mutare lo status quo della Chiesa:

Occorre, perciò, acquisire una mentalità di sospetto e di diffidenza contro mille modi spontanei di difesa e di reazione che insorgono in noi nella complessa sfera infra-razionale che ci portano a schierarci a difesa di princìpi o realtà che noi supponiamo ancora intangibili quando di fatto essi sono ormai quasi completamente travolti.

Dossetti sconfinerà nel dualismo: la divisione nuovo/vecchio diventerà il suo parametro interpretativo di due modi – distanti – di essere Chiesa, impostazione la quale, disarcionando l’unico Magistero, deciderà ciò che sarà bene o male. E sostenendo la tesi dell’ermeneutica della discontinuità tra Chiesa “preconciliare” e “postconciliare” (confutata da Benedetto XVI), giudicò “reazionari” i prelati che gli opposero dubbi o lecite perplessità.
Fu lui a influenzare i seminari contemporanei dove si studiano i teologi Karl Rahner e Hans Küng, mentre gli studenti sorpresi a leggere la teologia non “allineata”, come i testi di Ratzinger, non vengono ritenuti idonei al sacerdozio.
Il Concilio Vaticano II è ancora un àmbito storicamente troppo recente perché possa essere interpretato nella sua interezza e con la dovuta serenità. La tesi dossettiana, l’ermeneutica della discontinuità, è in sé pericolosa. Di fatto si sancirebbe che con il Vaticano II iniziò un’“altra Chiesa cattolica”, diversa dalla quella precedente. Non ci sarebbero vie di scampo. Vorrebbe dire che il “migliore Concilio Ecumenico della storia” avrebbe licenziato una Chiesa scissionista; ovvero, che nella Chiesa da oltre mezzo secolo si assiste a uno scisma latente, la peggior sciagura che possa colpire la Chiesa di Cristo.
L’auspicio è che in futuro si possa analizzare l’evento con imparzialità, non come si è fatto negli ultimi decenni. Per ora, sia l’ermeneutica della continuità sia quella della discontinuità sono giudizi sospesi, da approfondire. Non è scontato che prevarrà un giudizio favorevole alla cesura voluta dai modernisti tra prima e dopo il Vaticano II, e non invece la valutazione, dottrinalmente irreprensibile, di chi la stigmatizzò perché le deliberazioni del Concilio furono contrarie al Depositum fidei della Chiesa Cattolica.
L’analisi onesta dell’evento dovrà posare lo sguardo soprattutto sulle fasi postconciliari, sul ruolo e sullo spazio di manovra lasciato a taluni prelati. Si dovrà cercare di comprendere, al di là del debole luogo comune secondo il quale l’ecumene adagiato nell’immobilismo avrebbe anelato a un cambiamento; indagare se la decisione dell’apertura del consesso fu in toto a carico di papa Giovanni XXIII, tre mesi dopo aver assunto il sommo pontificato, o se invece fu l’iniziativa di altri ambienti o soggetti extra ecclesiam; infine valutare, senza omissioni, il ruolo e le responsabilità di Paolo VI.
Per finire con Dossetti, la sua linea progressista in campo ecclesiale-politico a un certo punto entrerà in collisione con entrambi i contesti. Restò deluso da San Giovanni Paolo II, che giudicherà molto conservatore e soprattutto avversario della teologia della liberazione, un papa che aveva fatto retromarcia rispetto alle attese del dopo Concilio; e fu altresì deluso dalla politica, alla quale riservò un giudizio non meno severo, soprattutto sui temi morali ed etici.
Forse per questi motivi si dedicò alla “vita monastica” lontano dall’Italia. Nel 1972 si trasferì in Terra Santa, a Gerico, città a maggioranza araba dove continuò a studiare la Bibbia e a interrogandosi sul cristianesimo. Vi rimase dieci anni, con i fratelli della Piccola Famiglia dell’Annunziata. Fra l’83 e il ‘95, lo si poteva incontrare nella comunità da lui fondata: a Main (Giordania) o Ain Arik (Territori Occupati).

Oggi il “dossettismo” è più vivo che mai

È importante rimarcare che Dossetti partecipò insieme al cardinale Giacomo Lercaro a delicate sessioni del Concilio Vaticano II. Come presbitero ammesso alle discussioni del consesso, mai avrebbe immaginato di conquistare il ruolo di “stratega” allorché fu introdotto nell’assise come esperto personale dell’arcivescovo di Bologna.
Il 12 settembre 1963 il nuovo papa, Paolo VI, comunicò la sua decisione di designare quattro “moderatori”, nelle persone dei cardinali Lercaro, Suenens, Dopfner e Agagianian, con il compito di presiedere a turno l’assemblea conciliare per suo conto. Incarico che i designati avrebbero dovuto esercitare singolarmente. Qui arrivò il colpo di genio di Lercaro, il quale persuase i colleghi ad accettare Dossetti come segretario comune. Don Giuseppe avrà così una funzione diversa e un’autorità ben più ampia di quella iniziale e una sempre maggiore influenza.
Lercaro venne bloccato dal cardinale Pericle Felici il quale lamentò la suddetta irregolarità, anche perché le tesi di Dossetti cominciavano seriamente a suscitare qualche inquietudine. Ne venne informato il pontefice, che diede ragione a Felici. “Don Dossetti”, raccontava il cardinale Suenens, “a causa dell’atmosfera ostile e per tatto verso il papa, si ritirò evitandoci una situazione imbarazzante”. Ma il dado era tratto. Il Dossetti-pensiero si espandeva nell’assise. La sinistra cattolica era entusiasta – ricambiata – dell’ideologia dossettiana.
A perdere fu il cattolicesimo, che a guisa di “luteranesimo cattolico” cambiò in peggio la Chiesa. Vi furono reazioni di eminenti teologi che chiedevano di correggere gli errori rilevati nei testi conciliari, soprattutto nel Novus Ordo, la “Messa del Concilio” promulgata da Paolo VI nel 1969.  Esse furono represse, con zelo, dai “guardiani” del rinnovamento liturgico. All’ecumene, quasi nella sua interezza, verrà iniettata un’amara medicina che, inoculata nelle arterie della Chiesa, le occluderà. Arriverà un viatico liturgico con Summorum Pontificum da Benedetto XVI, ma tornerà la malattia con Bergoglio, fino al collasso attuale del Magistero perenne.