Rievocazione semi-seria di una storica spedizione nella grotta considerata all’epoca la più “in quota” d’Italia.


L’anno era di sicuro il 1968. L’altro tipo chi era? Forse – dico forse – Sovilla. Almeno credo: era lui di solito che mi coinvolgeva nella ricerca di minerali e fossili. Tornavamo a valle con un prezioso bottino di denti di Carcharadon (squalo) capitando a Valdagno nel bel mezzo di una manifestazione contro il feudatario locale (prima o dopo il 19 aprile? Difficile dirlo…).
Avevamo trovato un passaggio in autostop dalle parti della “Montagna Spaccata” e fui l’unico a scendere, affidando zaino, casco, lampada a carburo eccetera all’amico speleologo (ma evidentemente refrattario ai conflitti di classe).
A distanza di tempo i ricordi di quella sera (comunque alquanto vaghi) forse si confondono e sovrappongono con altri del 19 aprile. Mi par di ricordare un corteo, slogan, qualche vetrina infranta, frammenti lapidei per la strada… Scenario scontato dei tardi anni sessanta.
Intanto il sottoscritto, allora giovanissimo, si aggirava curioso, insaccato in una tuta mimetica ricoperta di fango con indosso il solito giaccone verde-oliva. Nessun richiamo romantico alle guerriglie sudamericane (non consciamente almeno): quello era l’abituale abbigliamento di uno speleologo fine anni sessanta. Dimenticavo gli immancabili anfibi, più grandi di almeno due misure e con la punta in su.
Altro ricordo, questo più nitido, in cui speleologia e impegno socio-politico si confondono. Credo in ottobre – sempre 1968 comunque – dopo una incursione alla ancora integra “Spluga dei Gracchi”, rimonto in sella (della bici) e compio una “casuale” digressione in quel di Arzignano. Faccio un po’ di slalom tra accenni di barricate e copertoni fumanti negligentemente abbandonati qua e là e mi aggrego, educatamente, a una folta delegazione di operai e popolane in procinto di occupare il Comune.
Ben presto mi ritrovo in prima linea, doppiamente spintonato: da fronte i carabinieri schierati per impedire l’invasione di campo e da tergo le “masse proletarie” intenzionate a entrare comunque. Poi, di corsa, le due rampe di scale, il rumore di vetri in frantumi, fino all’ufficio dei sindaco.

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G. Sartori in solitaria sulla parete di fronte all’imbocco (che si intravede) della grotta nel 1978, per il decimo anniversario della spedizione.

La scena è ben impressa nella mente e nel cuore: la folla seduta per terra, accalcata nella sala e il sindaco (nella duplice veste di funzionario statale e di proprietario di una delle manifatture tessili in agitazione) appollaiato sul suo scanno, pallido in volto, a tergiversare e divagare. In frenetica attesa che l’arrivo della Benemerita ponga termine all’”increscioso episodio” (come riportò un cronista di passaggio). Anche su questo evento, lo dico per onestà intellettuale, potrei compiere qualche involontaria sovrapposizione con i (miei) tre giorni di partecipazione alle manifestazioni contro la chiusura della Pellizzari nel 1971.  
Altro flashback, un paio di mesi dopo. Stiamo organizzando la spedizione verso alcune grottine nei dintorni di Monteviale; le spelonche hanno ormai pochi giorni di vita per l’implacabile espandersi delle cave circostanti, ma in sede di Catasto farebbero ancora testo e numero. Passa un compagno in lambretta e dopo qualche scarna battuta pianto tutto e vado a distribuire il volantino di protesta per l’eccidio di Avola (2 dicembre 1968).
In quelle grotte penetrammo soltanto verso sera, quando ormai era più buio fuori che dentro. Rientrai a notte fonda con il casco acceso e una pila attaccata con il moschettone dietro lo zaino (viste le disastrose condizioni dell’impianto di illuminazione della mia “trocana”).
A distanza di tanto tempo mi rincresce ancora di non aver insistito maggiormente perché le cavità appena esplorate e rilevate venissero dedicate a Giuseppe Scibilia e Angelo Sigoma, i due braccianti morti assassinati dallo Stato per “trecento lire in più”. Due nomi destinati a scomparire sia dalla Storia sia dalla memoria. Coincidenza: lo stesso destino delle grotte in questione.

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Una rimpatriata di tre ex speleologi del Proteo (ormai non più giovani) in qualche grotta dei monti Lessini. Da sinistra: G. Sartori, Paolo Lain, Umberto Pivetta.

Memorie dal sottosuolo

Nonostante a volte abbia adottato l’espressione “Ventre della Bestia” per descrivere i meandri bui di qualche spelonca particolarmente repulsiva, le mie “proiezioni” nei riguardi di grotte, voragini, foibe e doline erano per lo più positive. Con il senno di poi mi rendo conto di aver cercato attraverso la speleologia di “rappresentare” e alimentare un mio innato, congenito rifiuto dell’universo consumista, mercantile e spettacolare. A quel tempo la speleologia, più ancora del relativamente nobile alpinismo (non parliamo dello sci, roba da siori), era praticata per lo più da reietti e disadattati. Alcuni fermamente decisi a restare tali.
Altro fattore decisivo nel mantenere alta la mia partecipazione alle spedizioni del CSP (Club Speleologico Proteo) era l’ingenua speranza, presto infranta, di poter sperimentare una socialità diversa; impregnata di slanci individuali e sforzi collettivi, di solidarietà ed emulazione… senza contraddizione.
Con qualche altro demente, ugualmente dedito a entrambe le pratiche devianti, arrivai anche a teorizzare avventuristiche varianti ipogee del “maquis”. Nel nostro immaginario sovversivo le grotte potevano elegantemente sostituire la “Montagna”, luogo canonico di ogni tellurica Resistenza.
A parziale giustificazione va comunque riportato che i partigiani nostrani si erano scavati, a suo tempo, chilometri e chilometri di camminamenti e rifugi sotterranei per sfuggire ai rastrellamenti. Evidentemente c’era qualcosa di atavico sedimentato nel codice genetico…

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Speleologi all’interno della grotta del Torrione di Vallesinella nel 1968.

Questa di Vallesinella è la storia vera…

Ma, tra le molteplici “memorie del sottosuolo” che si affacciano alla mente, in simbiosi con inquieti spettri delle passate rivolte e ribellioni, una ne emerge con particolare nitidezza. Collocata in una estate ormai lontana, verso la fine del luglio ‘68. Ormai in procinto di dissolversi in struggente, melanconica nostalgia. Per tutto quello che è stato ma soprattutto per tutto quello che poteva essere. E che non fu.
Alle prime luci dell’alba arrancavo sulla solita bici sotto il peso di uno zaino affardellato e stracolmo: viveri per una settimana, quota personale di scalette in alluminio (oggi come oggi veri reperti archeologici), pesantissimo elmetto in ferro (cimelio autentico della seconda guerra mondiale) con faro frontale saldato di fresco, eccetera.
I Falchi, mitico gruppo speleo veronese guidato dall’indimenticabile Mario Cargnel, avevano esteso l’invito della prossima spedizione al modesto, quasi neonato, gruppo vicentino di cui facevo parte. Alla stazione mi ritrovai con l’allora presidente del Proteo (destinato a rimanere tale senza soluzione di continuità fin quasi ai nostri giorni).
Paolo era l’unico che non se l’era sentita di declinare l’invito (a parte il giovane incosciente di allora che scrive). Dal suo sguardo assorto e preoccupato si poteva dedurre che ne avrebbe fatto volentieri a meno, ben sapendo come l’anno precedente alla “Preta” più di un vicentino fosse sopravvissuto a stento ai ritmi e alle prestazioni richiesti dal gruppo scaligero. Certo, l’idea di trascorrere parecchi giorni nelle viscere del Torrione di Vallesinella (Dolomiti di Brenta) era alquanto inquietante.
Comunque ci riunimmo tutti (vicentini, montefalconesi e veronesi) a Verona, senza registrare diserzione alcuna. Poi risalimmo con incoscienza e tracotanza le valli trentine.

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Mario Carniel, presidente dei Falchi di Verona e organizzatore della spedizione, qui nel bivacco (1968).

In cammino verso l’antro

Disceso dalla mia prima e – almeno finora – ultima seggiovia al passo del Grostè, mi incamminai con il resto del branco in direzione del Tuckett, verso il nostro incerto destino. Banchi di nebbia in continuo movimento ci consentirono una marcia quasi interamente dedicata all’introspezione. Ricordo una specie di limbo pietoso, dai contorni incerti e cangianti, che servì a non farci rimpiangere troppo la luce del sole da cui stavamo per separarci.
Quando ormai mancava solo un quarto d’ora al famoso rifugio Tuckett, abbandonammo il comodo sentiero per inerpicarci su un ghiaione alla nostra sinistra. Lo risalimmo per cinquecento metri fino a giungere sotto la “Parete Anna”, versante ovest del Torrione di Vallesinella. Ormai agghindati con caschi, lampade e accessori vari aspettammo con rassegnazione il momento di inerpicarci.
Potevamo intravedere l’imbocco, alto e largo due metri circa, che si spalancava a trenta metri sopra le nostre teste. A quel tempo era considerata la grotta più alta del Paese (2350 m di altitudine).
Ancora impregnato del sudore versato durante la marcia di avvicinamento, mi issai con una certa “palpitazione”, buttando il cuore oltre l’ostacolo. Fu l’unica occasione in cui potei approfittare del lusso di una tradizionale sicura a spalla. Per tutto il resto della spedizione mi ritrovai a scendere e risalire pozzi e pozzetti in “libera” perenne (oltreché incosciente). Giunto alla bocca dell’antro fui colto da un estremo ripensamento. Paventando (e agognando nel contempo) “il timore, il sudore e lo stupore” a venire. La citazione quasi dotta non vi lasci interdetti: è mia precisa convinzione che la speleologia sia anche una forma degradata (a “livello di massa”) di antichi riti iniziatici.
Appena varcata la soglia si veniva investiti dalle gelide raffiche di vento sotterraneo.  

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L’inizio della spedizione, alla base della parete (1968).

Bivacco infernale

Per una ben calcolata quanto cinica manovra, la distribuzione dei “campi-base” era già avvenuta e stabilita. Il sottoscritto capitò insieme ad altri 4-5 disgraziati in quello più avanzato; apparentemente era il più comodo per partire quotidianamente in esplorazione dei misteriosi sconosciuti recessi. In realtà era l’unico da cui non fosse ragionevolmente possibile concedersi di tanto in tanto una sortita fino all’imbocco, per godere dei raggi del sole.  
Ricordo in modo particolare l’istinto omicida che ci invadeva ascoltando i resoconti altrui. Ci raccontavano, le carogne, di come quotidianamente assistessero dall’alto al passaggio di camosci e marmotte, beatamente distesi sulla cengia esterna.
Tra l’altro questa collocazione decentrata rispetto all’uscita comportò una ulteriore, gelida e noiosa permanenza al momento della risalita. Dovemmo infatti attendere che tutti avessero traslocato e uscire per ultimi. I risultati non si fecero attendere. In quella gelida e forzata convivenza, addossati all’umida parete o rannicchiati attorno a un fuocherello di meta, si alimentarono sordi rancori, innescati da conflitti ideologici e faide campanilistiche.
Bastava un pretesto: ricordo che stavo per venire alle mani con un irriverente reazionario che si ostinava a parlare del “Che”  (Ernesto Guevara de la Serna, morto neanche un anno prima, nell’ottobre 1967) come di un “delinquente comune”.
Eravamo quasi sul punto di scaraventarci reciprocamente giù per un pozzo, quando ci comunicarono di tenerci pronti per aggregarci alla nostra squadra. Dopodiché ognuno seguì il corso del meandro assegnatogli e quello dei propri pensieri…  
Comunque l’esplorazione del vasto complesso carsico fu tutt’altro che infruttuosa. Vennero tra l’altro “scoperti” (uso il termine, dal sapore vagamente coloniale, con riserva) tre immensi saloni. Denotando una certa mancanza di fantasia vennero reciprocamente dedicati alle tre città dei partecipanti.

esplorazione grotta del torrione di vallesinella Se non ricordo male la stampa triveneta riportò per esteso fatti, fasti e nefasti dell’avventurosa impresa (a quell’epoca universalmente considerata di livello europeo e come tale riportata negli annali della speleologia).
Era in programma persino una visita della TV di Stato. Poi la cosa saltò per mancanza di esperienza sotterranea da parte degli operatori; con grande rammarico degli organizzatori che nell’impresa avevano investito sforzi e prestigio. Da parte mia avevo già maturato precise opinioni in merito alla “Società dello Spettacolo” e ringraziai sentitamente gli Dèi Inferi per aver scoraggiato la troupe.
Ormai, dopo tanti anni e tanto travagliati, nei ricordi prevale la sensazione di un vagare indistinto e sonnambulesco; come di zombie malridotti e maleodoranti, in fila indiana come bruchi tra i vapori dell’acetilene. Ognuno al seguito dei quarti posteriori di uno sconosciuto, anonimo e indistinto compagno di spedizione. Rigorosamente carponi.
Nel dormiveglia silenziose processioni di gnomi si alternano ai ricordi elettrizzanti di illusorie “scoperte”. Ancora capaci di restituire la sensazione di essere a una spanna dal Segreto primordiale che alberga nelle viscere della Madre Terra.  
Si procedeva con lo sguardo fisso al suolo (potenzialmente infido), sperando inconsciamente di trovare qualche misterioso reperto, prova tangibile dell’esistenza di antiche civiltà sotterranee. Quello che altri cercano tra le pagine di Lovercraft, per intenderci.

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I presidenti dei tre gruppi speleologici partecipanti alla spedizione del 1968. Da sinistra: Vicenza (Proteo), Verona (Falchi) e Monfalcone.

Sopra una lanterna ritrovata

E in effetti qualcosina da conservare per gli eredi riuscii anche a trovarlo. Ancora adesso non riesco a capacitarmi di come abbia potuto scorgere quell’oggetto opaco, ricoperto dal fango, del tutto identico alle pietre trasportate periodicamente dalle piene sotterranee. Ma forse così era scritto.
Fatto sta che mi ritrovai tra le mani una vecchia lampada a carburo. Niente di particolare; “desain” di quelle che avevamo in dotazione. Soltanto un banale souvenir, ma conservato poi con l’affetto che si riserva ai ricordi più cari.  
Ma la storia della lampada a carburo inaspettatamente rinvenuta nella parte inesplorata di Vallesinella ha un seguito.
A dieci anni di distanza (primavera avanzata del ‘78) ritornavo a Madonna di Campiglio su una vecchia vespa sovraccarica di zaini, piccozze, corde, ramponi, eccetera. La stagione invernale era finita e quella estiva non dava segni di vita. Aggiungete a questo interregno un’atmosfera piovigginosa, il cielo plumbeo, la neve sfatta, fradicia. Da affondarci almeno fino alle ascelle, visto che non avendo mai imparato a sciare mi ostino a “pestare” neve con un paio di racchette primordiali (quelle militari di una volta, in legno). Insomma: era il momento migliore per andarsene in giro per le Dolomiti di Brenta senza fare incontri di nessun genere. E celebrare degnamente il decimo anniversario, in completa solitudine.

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Foto di gruppo dei partecipanti alla spedizione (1968).

Gilio Alimonta

Infatti girai per una settimana senza incontrare nessuno. Con un’unica eccezione. Una sera, mentre la notte si apprestava a divorare un pallido sole avvolto da miasmi luminescenti, intravidi un’ombra staccarsi dalle ombre del bosco e venire nella mia direzione trasportata da un paio di corti sci. Un incontro che solo dei materialisti volgari potrebbero considerare casuale. Dopo lo scontato “scambio di battute”, ci incamminammo verso un’osteria in servizio anche fuori stagione. Si trattava nientemeno che di Alimonta Gilio (padre e nonno dei degni discendenti).  
Costui, oltre che lo scopritore della grotta del Torrione di Vallesinella, era stato il proprietario della lampada. Mi raccontò di come gli fosse sfuggita dalle mani, scomparendo in una fessura, mentre percorreva (verso la metà degli anni ‘50) uno stretto budello del complesso sistema di pozzi, faglie e fessure denominato “dell’Acheronte”. In quel punto una serie di diramazioni a vario livello rendono quanto mai complicata la planimetria della cavità. Come impararono a proprie spese i rilevatori.
Durante l’esplorazione del ‘68 mi ero trovato ad aggirarmi per un “ramo” inesplorato, posto evidentemente sotto quello principale percorso a suo tempo da Alimonta. Come poi mi raccontò il Genio incorporato una sera che era in vena di confidenze, la lampada se ne era rimasta in attesa per tutti quegli anni. Finché non ero giunto a liberarli entrambi – Genio e lampada – dal fango, dal gelo, dal buio e dagli incubi tenebrosi del sottosuolo.
Quanto alla grande guida alpina Gilio Alimonta, una volta rassicurato sulla sorte della sua vecchia lampada, mi tracciò una esauriente cronaca delle varie spedizioni esplorative succedutesi al Torrione Vallesinella, prima di quella epocale del ‘68.
Era stato lui il primo a intravedere la cavità, posta sulla parete di fronte, mentre con il compagno di cordata Serafino Serafini si stava allenando sul versante settentrionale del Castelletto Inferiore. Intrapresero la prima esplorazione (in “stile alpino”: senza scale ma con corde, chiodi e moschettoni) il 12 agosto 1949, raggiungendo e discendendo il pozzo, profondo una quindicina di metri, che oggi porta il suo nome (Pozzo Alimonta).
Ritornarono sei giorni dopo con Giancarlo Gallarati Scotti, Lapo Niccolini e Azzolino Carrega (un tipico cognome veneto-trentino italianizzato in omaggio al tricolore). Il gruppo faceva degnamente parte del Gotha alpinistico dell’epoca. Raccontò Gilio: “Discendemmo facilmente, in libera, lungo il ‘Pozzo Alimonta’ e restammo sorpresi vedendo come sul fondo si fossero formate larghe chiazze di ghiaccio, derivate dallo stillicidio”.
Ricordo infatti che anche in piena estate la temperatura si manteneva costantemente attorno allo zero.
Poi continuò: “Percorso un breve, sinuoso cunicolo arrivammo a un secondo pozzo [quello poi denominato “Azzolino”] dalla modesta profondità di quattro o cinque metri ma relativamente impegnativo in quanto a strapiombo.”
La parte successiva del percorso, Alimonta se l’era un po’ scordata. Posso comunque rimediare dato che conservo un ricordo vivido (anche viscido) e preciso di quei venti-trenta metri prima dello “slargo” pomposamente denominato “Sala da Pranzo”.

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Alcuni speleologi in procinto di salire sulla funivia (Dolomiti di Brenta, 1968) per poi raggiungere la grotta.

Striscia ragazzo, striscia

Si tratta quasi sicuramente dei più luridi, stretti e disagevoli metri di cunicolo che il Padre Eterno abbia mai posto sulla terra a espiazione dei nostri peccati. Per transitarvi bisogna strisciare sul fianco, in qualche tratto in discesa. E ogni tanto una svolta brusca, il tutto trascinando e spingendo le sacche con il materiale.
Comunque in quella occasione i pionieri, Alimonta & C., giunsero fino al Pozzo Acheronte, emblematico punto d’accesso alla parte centrale del sistema sotterraneo.
Realizzarono una nuova spedizione nel 1950, verso la fine di agosto. Stavolta superarono sia l’Acheronte (con una variante rispetto al percorso adottato dalle spedizioni successive) sia il “Gericke”, un pozzo profondo una decina di metri così chiamato in onore di un nuovo partecipante.
E dunque, pozzo dopo pozzo, giunsero, ormai senza più un solo metro di corda disponibile, davanti al “Gallarati Scotti” (il pozzo, non il Giancarlo). Così venne battezzato soltanto l’anno dopo, in occasione di un ennesimo sopralluogo organizzato dal Gruppo Grotte della SAT (Società Alpinisti Trentini). Naturalmente Alimonta, Serafini e Gallarati Scotti furono della partita.
Disceso finalmente il “Pozzo Gallarati Scotti” (9 metri), la spedizione si arrestò dopo neanche venti metri, bloccata da una frana che ostruiva il percorso. Anche a questo dovemmo pensarci noi nel 1968.
Sempre nel 1951 si appurò che dall’Acheronte parte un’altra galleria, con il fondo ricoperto da una caratteristica argilla. Questa galleria, dopo la “Sala delle Sorprese”, presenta una variante d’accesso alla base del Gericke (previa discesa lungo un pozzo di circa quindici metri).

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Foto storica: in piedi Franco Dalle Carbonare (recentemente scomparso, uno dei più forti speleologi vicentini e valido alpinista), Paolo Mietto (fondatore e presidente del Club Speleologico Proteo nel 1962), altro speleologo vicentino (anonimo), e sulla destra un altro dei tre fondatori del Proteo, Leandro Gregori (scomparso qualche anno fa dopo essersi ritirato per anni in una contrada isolata sul Monte Pasubio).

Inquieti e inquietanti spettri

Ma la “Sala delle Sorprese” ne aveva in serbo altre di maggior portata. Seguendo all’inverso la direzione di una forte corrente d’aria vennero individuate le cosiddette “Nuove Diramazioni”.
Nel ‘68, raccogliendo l’eredità morale e le precise indicazioni in proposito dei nostri predecessori illustri, esplorammo quest’area con particolare dedizione. Giungemmo a scoprire e rilevare la “Sala del Cordino”, il “Corridoio delle Scaglie” e un ramo poi denominato “Attivo”. Non a caso.
Conservo ricordi piuttosto vaghi di tutti quei budelli, vene, orifizi… brulicanti di puntolini luminosi (le luci frontali) e ombre ectoplasmatiche.
Il “Ramo Attivo” tra l’altro era particolarmente inquietante. Tutto ricoperto da una inconfondibile mota; quella depositata dalle piene e relativi allagamenti. Uniformemente spalmata sul fondo, sulle pareti e, almeno in certi tratti, anche sulla volta, suscitava una comprensibile apprensione.
Cosa sarebbe accaduto se fuori fosse scoppiato un nubifragio?  
Tra il fango affioravano piccole ossa, minuscoli crani, brandelli mummificati di qualche patagio… Reliquie degli ignari chirotteri che qualche piena primaverile aveva anticipatamente strappato ai sogni del letargo. Tutto contribuiva a suggestionarci evocando gli inquieti spettri che si aggirano per l’inconscio (collettivo e individuale): forse a causa della stanchezza, qualcuno asserì di aver intravisto un minuscolo ominide dal buffo copricapo rosso fiammante recitare il monologo di Amleto tenendo in mano un teschio di pipistrello; altri si videro inseguiti (o meglio pedinati) da gnomi e troll in bicicletta.
Freddo, umidità, mancanza di sonno, eccetera, non bastano a spiegare le straordinarie, ricorrenti coincidenze con le “allucinazioni” descritte da altri speleisti.
Quanto alla reale portata delle piene in questi meandri, chiunque abbia percorso la valle sottostante (Vallesinella per l’appunto) in periodo di disgelo ha potuto farsi un’idea ben precisa di quanta “sorella acqua” fuoriesca dai poderosi strati soprastanti di Dolomia (“principale del Norico” per la precisione).
Non mancavano nemmeno le leggende locali, sapientemente spacciate ai turisti creduloni, in merito a un misterioso lago sotterraneo. Non si può nemmeno escludere che il suo rinvenimento fosse nelle segrete e riposte speranze di qualcuno degli organizzatori della spedizione “sessantottina”. Anche se non se ne parlò mai esplicitamente, per tutta la durata della nostra spedizione si accennò a un misterioso involucro compreso tra i “bagagli” faticosamente issati e trasportati su e giù per la caverna. Sembra confermato che contenesse proprio un canotto. Per ogni evenienza.
Comunque non era la paura di dover sentire il rumore sordo dell’onda di piena riversarsi lungo i meandri oscuri, quello che turbava e rendeva inquieti i nostri meritati riposi. Piuttosto l’implacabile stillicidio che al “mattino” (come chiamavamo per convenzione il momento di rialzarci) ci faceva uscire fradici da un sacco a pelo altrettanto fradicio.  
Quanto al telo di “nailon” che mi ero portato appresso per ripararmi dal gocciolio perenne, preferii utilizzarlo come protezione, almeno simbolica, contro l’umidità gelida e malsana che trasudava dal giaciglio di sassi ammucchiati sopra la solita coltre sottile di ghiaccio. Nessuna velleità di imitare il Poverello d’Assisi: quella era l’attrezzatura in dotazione, roba rimediata nei mercatini dell’usato.
Solo alcuni vecchi volponi, già esperti, si erano procurati la provvidenziale amaca.  

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G. Sartori su scalette in una voragine dei Colli Berici (1968).

Sala Monfalcone

Tra il “Corridoio delle Scaglie” e il “Ramo Attivo” iniziava una misteriosa diramazione. Con pochi altri ardimentosi mi avviai verso l’ignoto.
Percorremmo un interminabile cunicolo che sembrava dover proprio concludersi in una saletta dal fondo ricoperto d’acqua. Dopo le sorsate e abluzioni di rito, venne seduta stante battezzata “Saletta dell’Acqua Santa”. Evidentemente piogge acide e/o radioattive non avevano ancora degradato e smitizzato nell’immaginario collettivo l’archetipo acqua, casta e pura per definizione. In odore di virginale santità.
All’altezza dei miei occhi (180 cm circa) si apriva una sottile feritoia. Facendo pressione sulla parete opposta cercai di infilarmici (e qui Archetipi e Simboli si sprecano) contando sulla allora mia “magra figura”.
Stessa altezza odierna ma 20 (venti!) chili in meno.
Dopo il primo infruttuoso tentativo levai il giaccone paramilitare e poi, di seguito nell’ordine: il primo maglione, la tuta mimetica, il secondo maglione… alla fine, tra spinte e contorcimenti, riuscii a sgusciare oltre. In anfibi mutande e canottiera (infatti, contravvenendo alle direttive materne, non avevo indossato la maglia di lana per cui ora ne pago il fio a base di reumi).
Durante tutta la complicata operazione-svestizione tenevo stretta tra i denti l’indispensabile pila. Superata la strettoia e recuperati velocemente indumenti e casco (tirava ‘na bava…) strisciai ancora un po’ (mai sazio) e mi ritrovai su una specie di balcone panoramico.
Ero all’incirca a metà altezza di una parete incombente su un vasto salone dai contorni indistinti. Riconoscevo sul fondo caotico enormi massi accatastati e verso l’alto l’ampia volta immersa nelle tenebre. Senz’altro indegnamente, ero il primo essere umano che stava ammirando quella che poi venne chiamata “Sala Monfalcone” (e non “Caverna del Popolo” come timidamente suggerii).
Proseguendo per il “Ramo Attivo” si giunse invece a una sala chiamata del “Quadrivio” per una serie di interessanti diramazioni. La più promettente ci condusse fino all’ancora anonima “Sala Verona”. Il cammino sembrava voler proseguire ben oltre la poderosa muraglia di macigni che dal pavimento della sala andava verticalizzandosi addossata alla parete di fondo.
Nonostante l’equilibrio dei massi apparisse quanto mai precario, cercai di risalire l’erta frana assieme a un “anonimo compagno”.
L’episodio venne poi riportato dalla stampa vicentina. Perfino.
Ricordo che a un certo punto me ne stavo aggrappato a un masso. Proprio nel momento scelto da quest’ultimo per cambiare la scomoda posizione in cui versava da millenni, presumibilmente. Mi scansai appena in tempo: esso precipitò rovinosamente rimbalzando lungo la parete e smuovendo altri macigni.
Puntava verso il fondo della grotta dirigendosi con intelligenza demoniaca proprio verso il punto da cui partiva il cono di luce di una pila frontale.
Improvvisamente si vide il fascio luminoso scansarsi con un guizzo repentino, tra il rombo assordante (e il relativo rimbombo) del crollo.
In considerazione della mia giovane e verde età, non venni sommariamente giustiziato sul posto ma ogni mio ulteriore tentativo di risalire la frana in cerca del fatidico “passaggio a nord-ovest” venne impedito con la forza.
Comunque sono sicuro che la prosecuzione c’è. L’ho sentita e percepita. Resta a disposizione di chi vorrà cercare.

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Sartori tra alcune stalattiti – poi abbattute dai vandali – dei Covoli di Lumignano (anni settanta).

E l’amor mio non muore

Ma non vorrei dilungarmi su Vallesinella, anche se il materiale non manca. Meglio concludere dicendo che mi rendo conto benissimo di quanto siano personali e datate queste “memorie dal/del sottosuolo” annata ‘68.
A quel tempo, tra i giovani dediti all’alpinismo o alla speleologia e quelli che militavano nel “Movimento” in genere non correva buon sangue. Indifferenza reciproca nella migliore delle ipotesi. Il caso descritto è quindi abbastanza anomalo.
Ma qualcosa doveva presto cambiare: non per niente Andrea Gobetti inserì nella sua avventurosa biografia (Una frontiera da immaginare) le giornate di aprile ‘75, dopo la morte di Varalli, Zibecchi, Boschi e Miccichè (quest’ultimo amico personale di Andrea); e un alpinista al livello di Manolo (all’anagrafe Maurizio Zanolla) dedicò una nuova via di 6°+ a Franco Serantini, il giovane anarchico ucciso dalla polizia sul lungarno Gambacorti di Pisa (maggio ‘72). Controllate sulla parete sud-ovest del Dente del Rifugio in Val Canali, Pale di san Martino.
Poi tutto sembrò rifluire, ma mi conforta pensare che un fiume carsico sprofonda, scompare… e poi riemerge, d’improvviso, quando meno te lo aspetti.  
E intanto, là sotto, scava, scava, scava…

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Sartori negli anni ottanta in libera sul Monte Tormeno (Prealpi vicentine).