Etnia contrapposta a Nazionalità?

L’affermazione di Michael Banton “che l’aggettivo etnico è ora applicato a gruppi che non cercano l’indipendenza come nazioni” introduce chiaramente il nocciolo della questione: mentre nazione è un concetto politico, gruppo etnico non lo è.
In altre parole, l’etnia è pre-politica. Sarebbe impossibile immaginare una nazione priva di una dimensione politica e di un proprio programma politico. Non altrettanto vale per un gruppo etnico. Il nazionalismo era inimmaginabile prima della nascita del moderno stato centralizzato in Europa occidentale. L’avvento di quest’ultimo ha portato alla lotta per il riconoscimento di gruppi precedentemente senza stato. La forma pre-politica del nazionalismo era l’etnocentrismo (Smith 1972, 1999), che può essere privo di un programma chiaramente formulato, ma si fonda su una serie di usi, costumi, atteggiamenti e tradizioni di antica data. Come sottolineato da Banton, nelle scienze sociali si possono adottare due approcci distinti. In sintesi, l’approccio emico è la prospettiva in prima persona del nativo, mentre quello etico è la prospettiva dello straniero, del ricercatore che, tra le altre cose, mira ad ampie e universali generalizzazioni.
Quando il linguista e missionario cristiano Kenneth Lee Pike (1967) ha coniato i neologismi emico ed etico, li ha fatti derivare da un’analogia con la distinzione fonemica/fonetica della linguistica. E la linguistica è, senza dubbio, la piu “scientifica” di tutte le scienze umane. Dal punto di vista metodologico, la distinzione di Pike è fondamentale, tanto da essere stata formulata in una varietà di modi in antropologia e altre scienze di sociali e ispirando tra l’altro il dibattito sul rapporto tra insider e outsider, che riguarda da vicino il nostro argomento.
I nazionalisti tendono a sostenere che la nazione è un’entità concreta, tangibile. Ma, dal punto di vista di un osservatore esterno, la nazione potrebbe essere più modestamente concepita come la manifestazione soggettiva di un’idea politica, come un tipo di coscienza collettiva. La ben nota definizione di nazione secondo Walker Connor quale “gruppo etnico cosciente di sé” descrive precisamente questa dimensione. La consapevolezza di sé si riferisce a un nuovo modo di vedere il mondo e il proprio gruppo. Questo nuovo modo è necessariamente inserito in un programma politico, il cui obiettivo finale è la conquista del potere nel suo “avatar” contemporaneo, lo stato moderno… anche se una valida riorganizzazione federale riesce di solito a soddisfare la maggior parte delle aspirazioni nazionaliste (Coakley 2003).
Naturalmente, la centralità di questa dimensione estremamente personalistica e soggettiva solleva problemi metodologici per l’osservatore esterno. Il principale è di tipo concettuale: la nazione non può essere definita, in quanto definisce. Più precisamente, sfugge alla definizione poiché è essa stessa uno strumento di definizione (Conversi 1995). Definire significa, in primo luogo, tracciare un confine intorno all’entità da definire, cioè una distinzione tra insider e outsider. Sia la formazione del gruppo (la dimensione emica), per quanto “aperto” o accogliente un gruppo possa essere o pretendere di essere, sia l’uso da parte degli scienziati sociali di tassonomie, terminologie e categorizzazioni (la dimensione etica), hanno un esito inevitabile: l’inclusione tramite l’esclusione. Da qualunque angolazione ci si approcci al nazionalismo, finiamo per costruire categorie “escludenti” mentre disegniamo i nostri confini.
Tuttavia, sarebbe altrettanto difficile sostenere che il concetto di gruppo etnico è esente dai medesimi problemi concettuali. In passato, gli antropologi erano convinti di poter categorizzare intere società e culture dall’esterno sulla base di tratti oggettivi. L’antica tradizione di identificare l’osservato con la realtà tout court, senza tener conto dei gusti, delle percezioni e dei pregiudizi dell’osservatore, è ora bandita come la peste da antropologi e altri scienziati sociali. Almeno a partire da Edmund Leach (1986), gli antropologi hanno lentamente cambiato rotta, preferendo enfatizzare i processi sociali piuttosto che i tratti culturali. Max Gluckman (1956) ha identificato il carattere relazionale delle identità etniche, mentre Evans-Pritchard (1951) si è concentrato sull’autopercezione dei gruppi.
Ma è stato probabilmente il lavoro di Frederick Barth (1969) sui confini etici che ha maggiormente contribuito a questo “cambiamento di paradigma”. Una volta che i confini etnici diventano concettualmente distinti dal contenuto etnico, ci troviamo a un passo dal sostenere che l’approccio soggettivo o emico è fondamentale nello strutturare l’organizzazione sociale, e in particolare i confini di autodefinizione. Pensiamo, quindi siamo. We ci consideriamo us, quindi we siamo us. Forse gli altri non ci vedono come un’entità collettiva, ma noi sì.
Questo può applicarsi sia alle società nazionali sia alle società pre-nazionali. La porosità dei confini etnici rende l’appartenenza etnica non meno inidentificabile di quella nazionale, anzi molto di più. La motivazione più importante per giustificare l’indagine congiunta su etnia e nazionalismo si trova nelle comuni radici dei due termini. Gli studiosi di nazionalismo sono ormai ben consapevoli della discendenza di “nazione” dal verbo latino nasci, nascere (Connor 2002: 25; Fenton 2003: 13-24). Il verbo è alla base di altri vocaboli come nativo, natura, cognato, innato, natale, rinascimento, eccetera. Allo stesso modo, etnico deriva dal greco ethnos, già associato in origine all’idea di discendenza e lignaggio comuni. Gli autori classici lo usavano per riferirsi ai popoli contigui, e nella versione 1998 del New Oxford Dictionary of English appare come sinonimo di “nazione” (vedi anche Fenton 2003: 14). È stato utilizzato nella versione dei Settanta per rendere il goyim ebraico (pl. di goy) come “nazione”, in particolare di non-israeliti. Durante il medioevo il termine venne a indicare pagani e infedeli, più in genere “l’altro” in accordo con la traduzione biblica. Dalla versione greca dei Settanta è arrivata il latinizzato ethnicus per “pagano”. Il termine è stato ripreso nel suo originale significato non religioso soltanto dalla metà del XIX secolo. In linea di massima, il greco ethnos stava per popolo, nazione, anche razza e classe, ma sempre in relazione al lignaggio, all’origine, alla genealogia. Così, l’elemento centrale sia per nazionalità che per etnia è la comune discendenza. Vista la condivisione di questo patrimonio etimologico, va sottolineata la necessità di una sinergia tra gli studi etno-razziali e quelli sul nazionalismo. E possibilmente un accordo sull’utilizzo di concetti e terminologia. Credo sia una via già intrapresa da alcuni dei padri fondatori degli studi etno-razziali, in particolare John Stone (1998) e John Rex (1993, 1996). Ma è ancora avversata da altri che, spesso su basi ideologiche fasulle, persistono nella convinzione che gli studi sul nazionalismo promuovano, apertamente o velatamente, il nazionalismo stesso, e quindi la xenofobia. Questo è quasi sempre un mito, e le poche inevitabili eccezioni dovrebbero essere agevolmente identificate. Metodologicamente, vi è una evidente necessità di collaborazione, dal momento che i soggetti e le materie d’indagine delle due aree sono comuni. Vorrei però sottolineare una contrapposizione ancora più sostanziale, quella tra etnia e cultura.

Etnia contrapposta a Cultura?

Pochi o punti studiosi hanno notato che nazione condivide una radice etimologica con natura. Nel medio inglese, nature denotava la “potenza fisica” di una persona, significato giunto attraverso il francese antico dal latino natura, “nascita, natura, qualità”. Come nazione, la radice fondamentale era nat- (nato) e il suo verbo di accompagnamento nasci. D’altra parte, conosciamo bene la classica contrapposizione tra nature e nurture, cioè tra genetica e ambiente o tra determinismo e libero arbitrio. È stato il cugino di Darwin, Francis Galton, fondatore dell’eugenetica, a chiarire per primo, nel 1874, questo contrasto in termini quasi inconciliabili. L’inglese nurture significa curare e dare supporto per la crescita e deriva dal latino nutrire attraverso il francese antico noureture (nutrimento): la stessa radice di vocaboli come nurse e nursery (francese antico nourice).
Ma nurture o nutrimento non si potrebbero ottenere senza una fondamentale attività umana: la coltivazione. Il termine latino cultura originariamente stava per “coltivazione della terra”, derivato da colere (badare, coltivare). L’obiettivo della coltivazione era ovviamente il nutrimento. Quindi la cultura serviva per nutrire il corpo e, per estensione metafisica, l’anima e l’intelletto: intorno al XIX secolo, la cultura cominciò a vivere in simbiosi con il concetto di “coltivare” lo spirito, la mente e, assai importante, le buone maniere e l’urbanità. Mente, corpo e spirito, richiedevano impegno culturale ed esercizio per mantenere un livello ottimale. Trascurare la cultura avrebbe inevitabilmente portato a privazioni, fame e infine all’estinzione.
La cultura è un concetto aperto. L’eredità aperta offerta dalla cultura può essere opposta al retaggio chiuso e deterministico associato a etnia e nazionalismo: se la cultura è una scelta e la natura un destino, allora dobbiamo semplicemente decidere tra un concetto aperto e uno chiuso; insomma, scegliere tra una scelta e una non-scelta. Le moderne teorie del comportamento umano hanno a lungo dibattuto se attribuire il primato all’uno o all’altro elemento. Queste visioni del mondo contrastanti, una fermamente convinta del potere dell’ereditarietà, l’altra del potere della conoscenza, si sono confrontate per secoli. I filosofi illuministi credevano nel potere dell’educazione. David Hume, che era probabilmente la maggiore musa filosofica di Ernest Gellner, pensava che tutta la conoscenza derivasse dall’esperienza. A partire da Darwin, il pendolo ha cominciato a oscillare verso una riaffermazione della nature a spese della nurture, fino agli estremi deterministici del darwinismo sociale. Nella linguistica contemporanea, Noam Chomsky ha sostenuto che ci sono caratteristiche innate, e quindi universali, nel modo in cui vediamo il mondo e, persino, generiamo le nostre regole grammaticali e linguistiche (innatismo); anche se potranno poi essere modificate dall’interazione con la famiglia, l’educazione, i media e la società.
Tuttavia, i recenti sviluppi della ricerca in un altro campo, la genetica, hanno dimostrato che abbiamo assai meno geni del previsto: questi risultati suggeriscono che l’influenza ambientale giochi un ruolo più importante nel nostro sviluppo di quanto si sia creduto in precedenza. Pochi scienziati sociali opterebbero per un approccio puramente biogenetico, essendo consapevoli delle interazioni che avvengono tra natura e cultura. D’altra parte, c’è ancora chi vuole vedere gli esseri umani come “una tabula rasa, una lavagna vuota scritta dall’esperienza” (Steen 1996: 21).
Per riassumere, il concetto di nurture è inevitabilmente legato alla cultura. Un’ulteriore dicotomia, dunque? Nella sua recensione su Nature via Nurture di Matt Ridley (2003), Steven Rose lamenta che “per almeno 20 anni, alcuni di noi hanno cercato pazientemente di spiegare perché è giunto il momento di seppellire la cosiddetta dicotomia tra genetica e ambiente, un fardello che ci arriva da una fase obsoleta della scienza; laddove bisognerebbe affermare che gli organismi viventi si costruiscono a partire dal materiale messo a disposizione sia dal genoma sia dal contesto ambientale”.
Eppure, la cultura sta di nuovo cambiando significato, con una mutazione semiotica che lo rende difficilmente assimilabile o congruente con i significati precedenti. Nonostante una proliferazione di scritti sulla cultura, essa rimane uno dei concetti più difficoltosi da cogliere e definire nelle scienze sociali. Già negli anni ‘50 gli antropologi americani Alfred Louis Kroeber e Clyde Kluckhohn erano riusciti a identificare oltre 100 definizioni alternative di “cultura” (Kroeber e Kluckhohn 1952). L’ascesa degli studi culturali quale disciplina a sé stante negli anni ‘60 dovrebbe avere in linea di principio contribuito a chiarire questo enigma, avendolo eletto a tema di base su cui indagare. Purtroppo è vero il contrario. Nonostante i promettenti inizi sotto la brillante gestione di Richard Hoggart e altri (Sardar e Van Loon 1998), il disordine è cresciuto progressivamente, degenerando in caos concettuale e trasformando gli studi culturali in una delle più confuse discipline del creato. Invece di essere rigorosamente definito, il concetto di cultura è diventato talmente flessibile e fumoso da includere praticamente ogni aspetto e manifestazione del comportamento umano. Il termine “cultura” si è quindi frammentato nella sue parti componenti, un amalgama di infinite particelle che si stanno dissolvendo in un caos totale.
Ora come ora tutto può diventare cultura: da cultura giovanile alla cultura della droga, dalla cultura del consumismo a quella pop, dalla cultura calcistica a quella dell’accoglienza. Eppure, a tutte queste “culture” fa difetto il principale criterio di distinzione, la continuità intergenerazionale. C’è un bisogno urgente di tornare al suo significato originario di coltivare e quindi di nutrire. La cultura dovrebbe essere collegata all’eredità materiale piuttosto che biologica. In sostanza, un senso di continuità è inseparabile dalla cultura, che può esistere soltanto se viene trasmessa attraverso le generazioni.
Interessante notare che è proprio questo a renderla così facilmente confondibile con l’etnia. Etnia e cultura si considerano spesso intrinsecamente legate, una che rafforza l’altra (Fenton 2003 20-3). In casi estremi, etnia e cultura si fondono a mo’ di sinonimo o quasi, come dimostra l’uso del termine etno-culturale. Questo può portare a enormi distorsioni della realtà, allorché i conflitti politici vengono descritti prima come fondamentalmente etnici e poi come culturali. Una volta che il conflitto diventa etno-culturale, si è a un passo dal parlare di “scontri di culture”, come fanno i media e gli accademici americani più sciovinisti. E se conflitti fondamentalmente politici vengono spiegati in termini etno-culturali, allora nessuno di essi potrà essere risolto senza estirpare la “cultura” importuna e responsabile della crisi, dando luogo a progetti di assimilazione.
Per eliminare la confusione tra etnia e cultura, la continuità (che è comune a entrambe) deve essere abbinata alla creatività. La cultura si manifesta nella sinergia tra continuità e creatività. Non basta passare un elemento culturale da una generazione all’altra, questo deve essere arricchito e adattato al cambiamento delle condizioni mediante la creatività e l’adeguamento.
Al fine di riappropriarci del significato primigenio della cultura, dovremmo innanzi tutto liberarla dalle catene dei rituali post-modernisti tanto di moda. In un perfetto spirito consumistico, la conventicola degli studi culturali ha prosperato su una mutevole ambiguità, un’imprecisione e vaghezza, abdicando – nella pratica se non nella teoria – alle proprie capacità critiche. Ernest Gellner, forse il più grande nostalgico della modernità, sosteneva che per i post-modernisti “tutto fa brodo” (Gellner 1995). Tuttavia, il post-modernismo che pervade gli studi culturali potrebbe essere parte di un più ampio cambiamento di paradigma verso qualcos’altro, che non siamo ancora in grado di identificare. Esso indica una saturazione con i rigidi schemi della modernità e il monolitismo delle procedure classiche di analisi. Ma la sua oscurità concettuale non è finora riuscita a dirigerci verso un impegno più costruttivo con la realtà sociale.
Il concetto di cultura è stato molto più rigorosamente circoscritto e applicato dai filosofi politici, in particolare i rappresentanti della “scuola multiculturalista” (Kymlicka 1995; Patten e Kymlicka 2003). Il droit a la difference culturale è ora teorizzato e accettato, in quanto pienamente in linea con il pensiero liberale, presupposto per qualsiasi stato liberal-democratico.
Avendo già ammesso che il concetto di cultura è tra i più difficile da definire, dobbiamo però cercare di introdurre una definizione operativa, almeno in opposizione all’etnia. Questo consente di operare all’interno di un quadro meglio definito che potrebbe essere facilmente utilizzato in studi comparativi.
Come ho sottolineato (Conversi 2002b: 273), l’etnia può essere più facilmente definita come la fede condivisa e soggettiva in una presunta discendenza, mentre la cultura va identificata nell’esistenza oggettiva di un gruppo intimamente omogeneo, benché complesso, e in una serie di prodotti tangibili (manufatti compresi) la cui corretta lavorazione viene trasmessa di generazione in generazione (e rinnovata da ciascuna di esse) all’interno di un sistema di valori e codici. Naturalmente, la cultura ha bisogno di riproduzione e trasmissione intergenerazionale al fine di sopravvivere e quindi è permeata di etnia. Ma, sebbene la cultura sia collegata alla continuità etnica, i due concetti andrebbero sempre distinti.
Tornando al lato “natura” dell’opposizione, l’impiego di termini imparentati – come “nativo” – nasconde un atteggiamento di esclusione e di chiusura. Perché alcuni accademici anglofoni dicono che una persona “goes native” – per intendere che ha adottato i costumi locali di un popolo – in termini sprezzanti o ironici? Un inglese che viaggia nella Costa del Sol e viene colto dalla passione per il flamenco o il cante hondo può essere definito “going native”. Un comportamento così poco inglese viene biasimato in base al presupposto che il cittadino britannico medio dovrebbe viaggiare con una valigia piena di birra e frequentare i pub “inglesi” del posto, senza mischiarsi più di tanto con i nativi.
In inglese, naïve e naïveté (ingenuo, ingenuità) sono anche etimologicamente collegati a “nativo”, per la precisione al latino nativus, “locale, nato nel posto, autoctono, rustico”, la stessa radice di nazionalismo. Il sottofondo talvolta ironico dell’espressione “going native” è associato a una presunzione di superiorità etnica (o altro), come se i “nativi” potessero mettere a rischio la nostra purezza.
Si ha quindi l’impressione che uno si porti sempre appresso la propria cultura ovunque vada. Il che può facilmente spingerci a considerare la cultura come un’entità rigida, appiccicandola a un determinato individuo come se fosse parte del suo corpo. Ci si aspetta che la cultura dominante non venga semplicemente trasmessa alle prossime generazioni (che è appunto la sua caratteristica), ma anche che la singola persona la indossi per sempre. L’individuo “etno-culturale” così concepito non può appartenere ad altre culture se non come loro consumatore. Ma consumare particolari manifestazioni di un’altra cultura, dal cibo etnico agli abiti etnici, equivale a “prendere in prestito” temporaneamente da essa, piuttosto che appartenervi, fondersi o prendervi parte.
Insomma, la cultura viene legata a filo doppio all’etnia con il rischio di cancellare la creatività e l’ adattamento. Senza dubbio la continuità è fondamentale. Ma la cultura dovrebbe altresì mettere in rilievo l’aspetto volontaristico della propria identità contemporaneamente alla trasmissione inter-generazionale.
Etnie, nazioni, “natura”, tutte sembrano implicare l’assenza del libero arbitrio. D’altra parte, spesso costituiscono la base su cui gli individui sono segregati (sia etero-segregati sia auto-segregati, per parafrasare Walker Connor). Questa percezione, ovvio, è l’esatto opposto del concetto di autodeterminazione, così spesso messo in relazione al libero arbitrio e all’esercizio dei diritti democratici. Il problema sta nel rapporto tra l’individuo e la società o collettività, cioè il “sé” che deve essere determinato. Questa relazione può fondarsi su un contratto (cittadinanza) o su diritti innati (legati all’etnia e alla nazionalità). In entrambi i casi il rapporto è vincolante, ma nel secondo manca ogni clausola di ripensamento: una volta dentro, non se ne esce più; una volta membri, si è membri per sempre…
Questo ci porta al capitolo successivo, dove illustrerò la necessità di riconsiderare la connessione tra etnia, nazionalismo e – ultimo termine della triade – patriottismo.

(Etno)nazionalismo contrapposto a Patriottismo?

Il patriottismo può essere separato dal nazionalismo? Walker Connor (2002) fa una netta distinzione, usando il termine stato-nazionalismo o patriottismo per indicare la lealtà verso lo Stato, ed etno-nazionalismo come fedeltà alla nazione (Connor 2002: 24) 9). Per lui, “ogni nazionalismo ha base etnica, e chi lo usa per riferirsi a una identità o devozione civica sta confondendo il patriottismo con il nazionalismo. Ethnos e nazione sono equivalenti: il primo deriva dal greco antico, il secondo dal latino. Ne consegue che il termine etno-nazionalismo è in buona misura tautologico, poiché il nazionalismo è permeato di etnicità” (Conversi 2002a: 3).
Nella sua critica di Connor, Anthony D. Smith cita la suddetta distinzione a somiglianza di quella che intercorre tra “patriottismo, l’amore per il territorio statale, e nazionalismo, l’amore per la nazione etnica. Si può quindi parlare di patriottismo britannico, ma soltanto di nazionalismo inglese (o scozzese o gallese o irlandese)” (Smith 2002: 55).
Tuttavia, i due concetti hanno radici semantiche comuni. La patria ha evidenti connotazioni familiari e di stirpe. Gli aspetti parentali del patriottismo si manifestano in altri vocaboli etimologicamente collegati: patriarcato, patrono, patrocinio, patrimonio, patrizio, eccetera, con padre come denominatore comune.
È lo stato a essere solitamente ammantato di forza, virilità, imperio, mentre alla nazione tocca un’aura di femminilità materna. I termini neolatini come l’italiano e lo spagnolo patria o il francese patrie, entrambi femminili, sembrano coniugare femminilità e virilità, nel tentativo di riportare sulla terra le divine fattezze di cui lo Stato si adorna per ottenere l’ossequio dei suoi cittadini. Come dire che cieca devozione è dovuta allo stato (maschile) in virtù del suo incorporarsi nella nazione (femminile). Sia la patria sia la nazione non sono solo soltanto un Giano bifronte (Nairn 1997) ma, come le moderne divinità, sono anche androgine.
Il patriottismo mette ulteriormente in luce gli aspetti maschili del nazionalismo. Se è così, può il patriottismo essere davvero “civile”? I pensatori universalisti, da Leone Tolstoj a Marta Nussbaum, hanno condannato il patriottismo per le sue promesse non mantenute e le conseguenze tragiche.
Nei suoi effetti pratici, il patriottismo è difficilmente distinguibile dal nazionalismo o dall’etno-nazionalismo. Infatti, se la caratteristica distintiva del fervore patriottico, al contrario delle passioni nazionaliste, è la fedeltà allo stato, il patriottismo è anche in grado di mettere in piedi un apparato oppressivo che le nazioni senza stato possono soltanto sognare. Pertanto le conseguenze del patriottismo possono essere ben più funeste e devastanti di quelle dell’etno-nazionalismo.
La presa di posizione di Leone Tolstoj (1828-1910) contro il patriottismo nel 1900 ha riconosciuto questo limite insormontabile, definendolo “una tradizione crudele sopravvissuta a un passato estinto” (Tolstoj 1969) . Più recentemente, l’espressione di Michael Billig (1995) “banal nationalism” si riferisce chiaramente ai pericoli di un patriottismo inconsapevole, irriflessivo, tipicamente anglo-americano. Anche Andrew Vincent (2002) ha sottolineato le affinità tra nazionalismo e patriottismo. Infine, Billig ha osservato che “alla luce delle recenti svolte della politica americana, la distinzione sta diventando sempre più incerta”.
Il prototipo del Paese patriottico sono senza dubbio gli Stati Uniti d’America. Già nella prima metà dell’Ottocento Alexis de Tocqueville (1805-1859) rilevava l’ethos collettivo che stava alla base di gran parte delle attività sociali e politiche in America. Questa visione “collettivista” si è protratta e ha persino prosperato in una società manipolata dai media.
Tuttavia, l’ideale “comunitario”, più recentemente difeso da studiosi americani mainstream come Amitai Etzioni e Robert D. Putnam, nasconde una pratica omnipervasiva di controllo sociale. La mancanza di libertà individuale che ne risulta, resta celata dietro il mito secondo cui l’America è una società “individualistica”, dove il singolo viene apprezzato e stimato sopra ogni altra cosa (Shain 1996).
Quanto è falso questo ideale? Molti autori hanno sostenuto che l’individuo come soggetto autonomo e libero pensatore ha subito un colpo fatale dopo le Torri Gemelle e l’isteria di massa che ne è seguita su istigazione dei media. I popolari show televisivi strappalacrime mostrano quotidianamente la bramosia di vendetta e punizione dell’americano medio, condita di fervore patriottico e discorsi al vetriolo.
Il processo di John Walker Lindh, detto ”Johnny il Talebano”, un cittadino americano convertitosi all’Islam e casualmente catturato dalle forze Usa durante l’invasione dell’Afghanistan, è stato un esempio lampante della tendenza anti-individualista che sta emergendo nella società americana contemporanea. Esposto come un fenomeno da baraccone al cospetto di un’opinione pubblica ostile, malgrado il sospetto di torture, il dramma di Lindh ha avuto un’evidente funzione di “controllo del pensiero” (Chomsky 1989; Herman e Chomsky 1988; Lukes 1974, 1986).
Per oltre un anno è andata avanti, questa efficiente rappresentazione, come se l’intero Paese si fosse trasformato in un grande confessionale, con un processo pubblico analogo a quelli stalinisti in cui gli accusati ammettevano di aver deviato dalla “linea del partito”.
Una società democratica matura dovrebbe sapere che qualsiasi “verità” ottenuta con una confessione pubblica può svolgersi soltanto all’interno di relazioni di potere polarizzate e non democratiche, mentre la verità estorta tramite la tortura non ha praticamente alcuna validità legale. Tuttavia l’onnipresente richiamo al patriottismo, insieme con il terrore indotto dai media, ha il potere di cancellare le normali reazioni e relazioni umane.
La xenofobia è al centro di questa varietà di patriottismo, ma le sue vittime sono contemporaneamente le altre etnie e le altre ideologie. Detto altrimenti, i nemici della patria non sono soltanto gli stranieri, ma anche le persone che hanno il coraggio di pensare in modo diverso deviando dall’ortodossia (o dalla “linea di partito”, volendo descrivere gli Stati Uniti come uno stato de facto a partito unico). “Johnny il Talebano” è stato oggetto di entrambe le accuse in virtù del suo atto estremo di sfida, l’essere gone native. Aver osato abiurare le prische virtù dell’America per mischiarsi a una cultura centro-asiatica. Un peccato mortale per un regime patriottico che ha fatto dell’antirelativismo il suo grido di battaglia. Nessuna considerazione è stata concessa al pensiero che Lindh potrebbe aver elaborato, proprio perché credeva in quelle fondamentali libertà individuali e religiose tanto invocate dai patrioti americani, almeno quando vien comodo.
Laddove il tanto decantato sistema dei “controlli e contrappesi” della Costituzione americana è stato concepito per sostenere il diritto di tutti i cittadini, indipendentemente dalle loro convinzioni e dalle loro origini etniche, il malumore etno-patriottico che attanaglia il Paese dopo l’11 settembre sembra aver cancellato la sua componente civile (Swain 2002).
Il nucleo “etnico” del patriottismo americano salta fuori dalle tesi su una discendenza comune sottolineate dai continui riferimenti alla Mayflower e ai Padri Pellegrini, con gli Usa sempre ritratti in termini escatologici come la Terra Promessa, un paradiso terrestre di giustizia e di pace. E, a braccetto, il mito religioso della “elezione” contribuisce a infondere un senso di onnipotenza e di primazia ideologica, anche se non ufficialmente concepita in termini “etnici”.
Sulle orme di Adrian Hastings (1997), lo scrittore e giornalista britannico Clifford Longley ha sostenuto che, ancor più degli inglesi, gli americani si sono sempre considerati il Popolo Eletto da Dio (Longley 2003)14). Quest’ultimo mito viene facilmente trasmesso a ondate successive di immigrati di diversa provenienza, rendendo la dimensione religiosa apparentemente più importante di quella etnica. Infatti, nell’uso comune il riferimento all’“etnia” è limitato al background dell’immigrato prima del suo arrivo.
Ma, per quanto radicato, questo rimane un artificio retorico basato in gran parte su un mito dedicato alla cittadinanza anagrafica: la favola parallela di una discendenza comune, anche se solo ideologica, si può individuare nei continui riferimenti ai primi coloni e agli “antenati” comuni. Al centro si trova l’etnia WASP (White Anglo-Saxon Protestant). Più ci si sposta verso l’alto attraverso la gerarchia sociale, più questa presunta identità condivisa si rivela etnica ed esclusivista (teoria forse corroborata dal fatto che l’unico presidente non protestante, John F. Kennedy, fu assassinato).
L’amministrazione Bush ha dovuto conciliare questo ruolo centrale dell’etnia WASP con la necessità post 11 settembre di community building (per inciso, proprio nel momento in cui l’espressione impropria nation-building veniva applicata alle invasioni di Iraq e Afghanistan). Come risultato, si è sviluppata una tacita campagna contro le minoranze etniche e persino religiose, compresi i cattolici americani. Il termine xeno-razzismo (Fekete 2001; Sivanandan 2001) riesce meglio a descrivere le nuove forme di discriminazione e pregiudizio dirette contro i vicini e i “parenti prossimi” che diventano “razzializzati” anche se (anzi, soprattutto se) sono simili.
All’interno di questa peculiare Weltanschauung etno-religiosa, l’elemento religioso prevale su quello etnico, assumendo spesso la forma di una crociata ideologica pervasa da zelo missionario. Dal momento che la società e la cultura americana dovrebbe essere universalmente buona e nel complesso superiore, il processo Lindh era visto come un esempio di ciò che potrebbe accadere ai giovani americani deviati da “fanatici” o corrotti da “costumi forestieri”. Anche se il processo è stato presentato come una questione di sicurezza nazionale, il messaggio e i suoi effetti hanno prodotto un picco immediato di intolleranza xenofoba in nome del patriottismo americano.
Ma questo patriottismo americano è davvero unico? Si differenzia dalle altre varianti storiche? Quali sono i suoi caratteri distintivi? La risposta a queste domande potrebbe essere il concetto stesso di eccezionalismo, la dottrina secondo la quale gli Stati Uniti d’America sono un fenomeno unico tra le nazioni, una credenza che conferisce loro una sorta di diritto divino a dominare il mondo come un sacro dovere.
La relativa dottrina militare dell’unilateralismo americano può operare esclusivamente in un mondo unipolare, dove può regnare un’unica forma di patriottismo. Inoltre, la sua posizione di potenza egemone globale rende l’America una forza potenzialmente letale, sia con un intervento (Chomsky 1989), sia, come sostengono altri, con un non intervento (Power 2003). Secondo un numero crescente di studiosi, il senso di intimidazione che ne risulta, amplificato dall’aggressiva diffusione e imposizione del consumismo, ha trasformato il patriottismo statunitense in una minaccia senza precedenti per il resto dell’umanità (cfr. Sardar e Davies 2002).
È in questo senso che il patriottismo americano si rivela davvero peculiare e le sue conseguenze possono essere ancor più aberranti (Billig 1995: 154-73). Essendo tradizionalmente associato all’espansione, esso oscilla tra una dottrina imperiale (abbracciata dai paladini della globalizzazione come destino ineluttabile) e una pratica di supremazia nazionale (apertamente sostenuta dai filosofi comunitari), con continue incursioni nel campo dell’etnocentrismo (Billig 1995) e della supremazia bianca (Swain 2002). Sotto tutti questi aspetti, il patriottismo americano può essere sui generis.
Tuttavia ciò non contrasta con la mia argomentazione principale, che il patriottismo in generale ha più cose in comune con l’esclusivismo etnico, la xenofobia e il razzismo, rispetto ad altre varietà o aspetti del nazionalismo. Questa non è una caratteristica unicamente americana. All’interno della “struttura delle opportunità” promossa dalla globalizzazione a guida Usa, il patriottismo americano semplicemente ha avuto una migliore possibilità di emergere con forza sotto lo sguardo intimorito dei non americani. Alla luce di queste opportunità, esso potrebbe raggiungere i suoi obiettivi sul palcoscenico globale più apertamente e con meno ostacoli delle altre varietà di patriottismo meno note e decise.
Ricapitolando la mia posizione, il patriottismo e il nazionalismo sono indissociabili. Non esiste alcuna prova che il patriottismo sia più tollerante, aperto e “civile” del nazionalismo in generale o dell’etno-nazionalismo in particolare. Semmai, visto che il patriottismo comporta la fedeltà allo stato, è potenzialmente assai più distruttivo rispetto alla media degli etno-nazionalismi antistatali.
Resta da affrontare un concetto finale, espresso da Banton nella sua lezione sull’Etno-nazionalismo nel mondo contemporaneo (Spira 2002). Nell’ultimo capitolo spiegherò perché il termine nazionalità dovrebbe essere evitato il più possibile nella teoria socio-politica, sebbene lo si possa utilizzare contestualmente.

Nazionalità: è un concetto utile?

Abbiamo parlato di etnia, cultura e patriottismo. Dove la collochiamo, la “nazionalità”? Il termine è stato spesso usato dai politici per aggirare gli ostacoli disseminati lungo il cammino verso una “coscienza” nazionale. Si tratta di una espressione in tono minore, in sordina, con la quale un particolare gruppo umano viene riconosciuto come avente diritti collettivi, ma a un livello inferiore rispetto alla nazione “titolare”.
Per esempio, la Costituzione Spagnola (1978) riconosce i diritti delle “nazionalità” che compongono la Spagna, mentre la “nazione” primaria spagnola (castigliana) rimane saldamente al centro della scena (Conversi 1997, 2002c).
Eppure, a questa posizione ufficiale ne è stata opposta una periferica in cui gruppi nazionalitari non statali parlano di quattro nazioni ugualmente legittime (castigliana/spagnola, catalana, basca e galiziana), piuttosto che di tre nazionalità e un nazione. Il concetto originario è stato introdotto nel dibattito pre-costituzionale da legislatori marxisante che, partendo da concetti leninisti, speravano di affermare l’unità dello Stato e accogliere le aspirazioni della periferia in un sol colpo.
Per lo studioso internazionale, il termine “nazionalità” è un’arma a doppio taglio, il cui uso non può essere sostenuto in modo coerente. Si tratta semplicemente di un sinonimo annacquato di “nazione” legato a situazioni locali e contestuali. Per di più lo si trova stampigliato su passaporti e documenti ufficiali per indicare la cittadinanza, che è una definizione legale dei diritti e doveri in rapporto all’entità statale, alla struttura politica e al territorio in cui si vive. Più confusamente, nei paesi dove lo ius sanguinis prevale sullo ius soli, la nazionalità dichiarata sul passaporto può indicare l’origine etnica, con eventuali implicazioni legali, inclusi diritti di cittadinanza ridotti. L’unico utilizzo possibile è quindi contestuale. Poiché la nazione è già difficile da definire, il termine nazionalità aggiunge solo confusione. Lo si può usare per analizzare, ad esempio, l’impatto della Costituzione Spagnola sulle relazioni interetniche, ma sarebbe inopportuno o incongruo utilizzarlo al di fuori del contesto, cioè dove non è di uso corrente.
La pratica politica è ricca di concetti incompleti e di terminologie monche. È interessante la frase, citata da Banton, dal rapporto della commissione speciale ONU per i Diritti Umani: “Alcuni stati si oppongono a qualsiasi riferimento ai popoli indigeni, al plurale, nella convinzione che ciò potrebbe conferire loro il diritto all’autodeterminazione” (vedi anche Banton 1996). C’è una profonda analogia con la situazione delle “nazionalità” spagnole. L’idea era quella di scongiurare a ogni costo l’eventualità che si mettesse in discussione l’unità organica della Spagna come nazione, anche se la Spagna veniva ridisegnata come una “nazione di nazionalità” (Conversi 1997). Il fermo rifiuto di estendere l’uso del termine nazione ad altra nazionalità concorrenti è nato per paura che ciò implicasse un riconoscimento automatico del loro diritto di autodeterminazione.
Per riassumere, la nazionalità è un concetto ibrido, un’espressione che può veicolare significati ambigui, che può affermare una cosa e contemporaneamente il suo contrario, creando ulteriore confusione. Il problema più evidente è che ha almeno due significati: uno oggettivo, come sinonimo di cittadinanza; l’altro soggettivo, come sinonimo di nazione.

Conclusioni

In risposta al saggio di Banton, ho sostenuto che il consenso terminologico è di fondamentale importanza, in quanto può influenzare sia gli approcci metodologici sia le conclusioni teoriche. In virtù delle loro radici comuni, sarebbe giusto ammettere che etnia e nazionalità sono concetti gemelli.
Ho preferito il termine inglese nationhood a nationality come usato da Spira (2002), a causa dell’ambivalenza e dei significati equivoci del secondo.
Al quintetto di Banton (razza, colore, discendenza, origine nazionale ed etnica), ho aggiunto il concetto di patria con i suoi derivati, dando meno peso a quello di cultura. Le caratteristiche di apertura del secondo sono state opposte alla rigidezza del primo. Ho messo in luce i gravi problemi provenienti dall’uso indifferente di cultura ed etnia (soprattutto nel linguaggio dei media americani, con espressioni quali “scontro di culture” o conflitti “etno-culturali”).
D’altra parte, il patriottismo dovrebbe essere inteso come una varietà di nazionalismo, sia che lo stato cui si deve fedeltà sia concepito come una polis “civica”, sia che si tratti di uno stato-nazione “etnico”. Proprio per questo motivo, il patriottismo è potenzialmente più pericoloso di altre forme di nazionalismo, che controllano istituzioni più deboli (se non inesistenti) rispetto a uno stato centralizzato. Inoltre, poiché la “patria” ha più a che fare con la razza che con la cultura, il patriottismo ha più cose in comune con il razzismo e la xenofobia che con la continuità e la creatività della cultura.
Eppure la cultura è spesso invocata come un vincolo e come tratto distintivo di una collettività, in particolare se fondata sulla comune discendenza. Poiché la cultura ha a che fare con la tradizione, e quindi con la continuità attraverso le generazioni, c’è la convinzione radicata che sia sinonimo di etnia. Credo che l’approccio dello studioso (il punto di vista etico) dovrebbe tenersi il più possibile lontano da questa confusione.

Traduzione e adattamento di Roberto C. Sonaglia dell’originale inglese di Daniele Conversi, Can Nationalism Studies and Ethnic/Racial Studies be Brought Together?, “Journal of Ethnic and Migration Studies”, Luglio 2004.

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