Guardare ai tempi più recenti in relazione all’immagine che i Sardi danno di se stessi, significa rendersi conto che si è usciti da uno stereotipo a lungo durato: da una prospettiva di esotismo tanto interno quanto esterno; e che molte polemiche ha generato. Quello di una Sardegna antica arcaica appartata quasi residuale, miracolo della storia da cui non sarebbe neppure stata toccata, e pertanto fascinosa affascinante. Una sorta di mondo distaccato, primitivo, resistente.
Anche se questa impostazione – alla base della quale ci sono stati in buona misura, forse, i sardi stessi, e da tempo – continua comunque a permanere entro un immaginario diffuso, ancora, tanto fra noi quanto fra gli altri da noi, tuttavia qualcosa da un po’ d’anni si muove, parrebbe, a invertire la tendenza stereotipa. Troppo spesso e troppo a lungo si è opposta una Sardegna vera e genuina a una Sardegna più compromessa con l’altro da sé e quindi in parte sfigurata e svisata. Su questo nucleo a lungo si è costruita l’identità della Sardegna, che andava cioè distinta e delineata con nettezza rispetto al resto del mondo, tratteggiata a colori forti, alterizzata quanto più fosse possibile.
Ci sono cascati pure linguisti come Wagner che individuavano nella Sardegna interna la variante più genuina del sardo, meno compromessa e realmente autoctona. Dunque i paradigmi cambiano, finalmente e se Dio vuole, e la (auto)osservazione dei sardi profitta dei tempi nuovi cercando un’altra rappresentazione di sé. Anche perché la questione e il problema identitario pare ora toccare e interessare i ceti urbani e non solo quelli più legati al mondo rurale, quasi ridefinendo o riunificando in una problematica comune, sia pure sfaccettata, il problema identitario. Ciò è dovuto in parte a una presa di coscienza del ceto urbano sul ruolo che esso in quanto sardo deve giocare, ma anche a una accresciuta urbanizzazione e a quel processo, che ne è la causa, che svuota progressivamente i centri dell’interno, ma che al contempo porta in città elementi del ceto rurale.
La contrapposizione città campagna viene così attenuandosi, in un rimescolamento reciproco, e si fa strada l’idea e la pratica di un destino maggiormente condiviso e non spartito, anche perché i centri minori che peraltro decrescono, sono in maggior misura legati, a causa di un processo di omogeneizzazione economica e sociale, ai centri urbani e alle loro aspettative. D’altra parte gli stessi centri urbani, da parte loro sono stati largamente compenetrati dall’elemento altro e rurale per i diversi processi di inurbamento che ha determinato una maggiore dialettica fra città e campagna. È da questo processo, a partire dagli anni Settanta, che sono nate o rinate istanze identitarie; soprattutto, per quanto qui ci interessa, a livello di rivendicazione del diritto alla lingua (sarda) da recuperare e da riutilizzare per ridarle capacità d’uso, e per riscoprire in essa e con essa una virtualità inattuata e da attuare. Il tutto catalizzato da, almeno, alcuni dei movimenti politici attivi in quegli anni in una sorta di crogiuolo magmatico, che raffreddatosi poi, ha prodotto nuove istanze pur sul filo di una continuità, forse interrotta e latente, che si può far partire dai decenni/secolo postunitari(o).
Se infatti la questione della lingua in Sardegna aveva assunto una dimensione politica nel clima agitato, in tutta l’Europa, dello scorcio del XVIII secolo e nei primi decenni del XIX, tale questione assume, per gran parte dell’Ottocento, dei contenuti meno urgenti, spesso più scientifici che non militanti, entro un clima politico che in parte censurava ogni velleità di turbare l’ordine politico ricostituito nella Restaurazione, in parte andava costruendo la nuova unitaria nazione. Una nazione nuova cui le sue diverse componenti avrebbero dovuto portare il loro contributo, al contempo serbando la memoria della piccola patria, e diluendosi nella costituenda e poi costituita unità. Segno paradossale e sintomatico di ciò, di questa contraddizione, furono in Sardegna i cosiddetti Falsi d’Arborea, un’operazione allo stesso tempo fraudolenta e geniale, che accarezzava il desiderio di una velleità che non può altrimenti essere soddisfatta se non appunto nel falso, il quale vive in prossimità dell’illusione: una velleità di tenere insieme la doppia “nazionale” appartenenza, sarda e italiana.
Né buona parte del Novecento ha richiamato al dibattito culturale la funzione politica e culturale della lingua, che è rimasta, a un contempo, oggetto di interesse e di indagine scientifica da un lato, e dall’altro deposito di una cultura popolare, magari sostrato della cultura alta, ma non più. Lo stesso sardismo inizialmente, nelle sue rivendicazioni, non ha percepito nella lingua un diritto da rivendicare. Questi gruppi radicali, che spesso o quasi sempre agivano fuori dai canali istituzionali, o accademici, anche da quelli propri delle forze e delle istanze politiche progressiste, in un quadro di messa in discussione generale, talvolta disordinata, degli assetti di giudizio e di interpretazione consolidati, tali gruppi, dico, proiettavano l’esperienza sarda fuori dagli schemi storiografici della storia nazionale e regionale, e consideravano la Sardegna e la sua storia quale storia coloniale, con un’attenzione maggiormente rivolta ai rapporti economici e alle connotazioni antropologiche che non alle dinamiche storiche interne, riportavano in primo piano il discorso identitario anche attraverso la rivendicazione linguistica e puntando assai sulle specificità antropologiche e demologiche dell’Isola.
Al di là della “correttezza” delle loro analisi, l’effetto di queste riflessioni e proposizioni fu quello di liberare energie interpretative nei riguardi della cultura sarda, sia pur sul filo di un discorso e di una questione al fondo mai sopiti, e sul filo, spesso, di una dualità, anch’essa di lunga durata, fra cultura urbana e cultura rurale. Il tutto su un contesto di dibattito e di azione internazionale, anch’esso tanto spesso disordinato ma tenace, relativo alle lotte di liberazione terzomondiste, sulle quali una certa intellettualità e un certo attivismo politico isolano proiettavano la considerazione e l’analisi dei problemi politico-culturali della Sardegna.
Placatisi i furori, qualcosa, e forse ancor più, è decantato e permane tuttora, pur ovviamente distaccato e autonomizzato ormai da quella temperie. Si è innescato il dibattito dunque su un doppio fronte, quello linguistico e quello letterario: fronti, per alcuni tratti almeno, convergenti. Su quello linguistico hanno giocato due almeno fattori diversi: la antica, almeno bisecolare ma forse più, e mai del tutto sopita questione della lingua, la scoperta a livello scientifico della regionalità dei diversi italiani, tra cui ovviamente quello di Sardegna, in un’aura in cui si esce fuori da una concezione della lingua come pura normatività, e si scopre la variazione come dato consustanziale del fenomeno lingua.
Ma questa scoperta si innestava, su un orizzonte più ampio rispetto a quello dell’indagine scientifica, sulla lunghissima questione, letteraria soprattutto, della lingua italiana, nata quale codice collocato sul polo alto di una situazione diglottica, e non fondamentalmente parlato; si innestava insomma sulla messa in questione della capacità rappresentativa e funzionale e finzionale che la lingua italiana poteva/doveva avere in una società moderna. La lingua, essa stessa, diventava così oggetto, o parte almeno dell’oggetto della rappresentazione svincolandosi dal ruolo puramente mimetico e comunicativo.
La questione della lingua in Sardegna mi pare porsi oggigiorno su due piani diversi: uno più propriamente e strettamente linguistico, l’altro letterario. Sul primo di questi due piani, il discorso e il dibattito pongono la questione se il sardo possa e/o debba salvarsi, se si possa invertire la tendenza che lo trascina per molteplici vie verso l’esaurimento intrinseco, tendenza che si manifesta sotto due diversi aspetti, pur convergenti e in parte sovrapponibili: l’uno quella dell’abbandono per progressiva mancata trasmissione alle generazioni più giovani; l’altro consistente nella rilessificazione in senso italiano del patrimonio lessicale sardo. Cosa, quest’ultima che in apparenza, detta così, può sembrare fisima da puristi, ma che è allo stesso tempo il sintomo e la causa di una pre-agonia che sottomette maggiormente la lingua subordinata a quella sovraordinata, fino a farla defluire in essa, e a tale fenomeno si può aggiungere la perdita degli idiomatismi e della capacità metaforica.
Da parte opposta si può assistere a nuove forme di italianità più o meno fortemente regionalizzata in senso sardo, certo con realizzazioni distinte a livello diastatico e diafasico, sulle quali spesso va a ricollocarsi il senso della specificità identitaria, ancora ovviamente a livello confuso, ma con punte che su di esso vanno a poggiarsi coscientemente, come mezzo espressivo, che la letteratura, vedremo poi, ha in certa misura fatto proprio.
Il discorso sulla lingua ha comunque preso una dimensione pubblica e politica, non è più un discorso da setta: anche se sono diverse, è vero, le ricadute sull’opinione pubblica e su chi la interpreta. Si può comunque dire che il valore culturale e simbolico di essa va aumentando, pur se a ciò non fa seguito un reale recupero, e ai più manca la cognizione delle sue reali potenzialità, che invece le scritture recenti mettono in opera e in evidenza, anche con l’invenzione tutta moderna della prosa narrativa. Quasi una contraddizione che mostra la maturità acquisita della lingua in se stessa mentre essa va progressivamente perdendo parlanti e quindi capacità rappresentativa anche identitaria.
Una situazione variegata dunque, in cui l’elemento lingua si sfaccetta variamente in aspetti diversi, concorrenti spesso, e spesso pure contraddittori, in cui la lingua se non è (ancora?) un valore simbolico condiviso, resta comunque un punto di fuga consolidato di molte linee proiettive dell’autoriconoscimento: sia che si tratti della lingua tradizionale; sia che si tratti delle sue virtualità più o meno, parzialmente, attuate; sia che essa rappresenti il riferimento simbolico a qualcosa che non ben si possiede o si crede di possedere, o che sia il suo contributo più o meno, anch’esso, cosciente, al mutamento molecolare dell’italiano in dimensione sarda. E spesso più di uno di questi fattori coesistono.
Questa miscela di fattori ha generato e genera, in un processo tuttora in corso, risultati plurivoci e interrogativi diversi: quale Sardegna? quale sardità? quale (varietà di) lingua? Credo che il processo inevitabilmente innescato in quegli anni, abbia aperto la strada a una dinamica di considerazioni diverse. Per esempio, e lo dicevo in principio di questa comunicazione, la considerazione e la consapevolezza, presso gli ambienti urbani, che Sardegna non significa solo Sardegna interna, né che gli unici valori sardi siano solo quelli ereditati dalla tradizione che si vorrebbe immota nel tempo e semmai in contraddizione vittimistica con la realtà. Si scopre, o meglio si viene a creare un’immagine dell’Isola più composita e meno monolitica, più duttile rispetto alla realtà odierna e soprattutto meno imperniata sulla contrapposizione fra una sardità “vera”, nei fatti forse mai posseduta e praticamente inesistente, e una sardità “alterata” o peggio alienata.
La nuova letteratura scopre che anche le realtà urbane sono Sardegna. E che v’è una condizione anche urbana dell’esser Sardi, più assimilata forse a un mondo più vasto, più simile e compartecipe di esso, ma una condizione che ciò nondimeno ha una sua specificità, una sua riconoscibilità, magari non gridata, della differenza e della specificità: che vorrebbe non ridursi, e che trova le sue particolarità, oltre che l’ancoraggio, nelle radici del passato e della storia. Ma si tratta spesso di una storia rivisitata, in maniera magari diversa nei diversi autori: può essere la storia straniata di Sergio Atzeni in Passavamo sulla terra leggeri che non tanto riscrive o reinterpreta il passato sardo, quanto lo reinventa in forme mitopoietiche, riproducendo il processo medesimo che ri-genera la storia non come indagine documentaria ma come sintesi collettiva e mitica che si tramanda nel tempo di generazione in generazione, attraverso una figura che si reincarna continuamente, ma che ricopre sempre la medesima funzione: quella del “custode del tempo”, narratore non casualmente orale che trasmette la storia-mito serbandone la memoria.
L’Autore sfrutta assai bene l’espediente narrativo moderno (anche se è poi antico almeno quanto il medioevo) della mise en abyme, sì che è la necessità stessa della storia, o meglio del suo récit, a venire rappresentata, il riposare dell’identità in una mitopoiesi diuturnamente riproposta: fino ad essere scritta nel romanzo che stiamo leggendo: e che è la narrazione di una narrazione, che è la narrazione non identitaria, ma della necessità dell’identità e degli strumenti che la generano e la attuano. Una storia che magari si rifrange nelle attualità diverse dei tempi e dei momenti storici sul filo di una continuità e di un permanere non immobile ma costante come in Millantanni di Giulio Angioni.
In questo tanto Atzeni quanto Angioni si pongono sulla linea metaforica della ricerca e della definizione dell’identità, che possiamo ritrovare anche in Il quinto passo è l’addio, soprattutto nell’episodio finale del viaggio per mare sul traghetto che quasi riproduce lo stazionamento di Giona nel ventre della balena nella travagliata esistenziale attesa della rinascita di un’intera generazione, quella nata negli anni Cinquanta, che viveva il mito della Rinascita (sarda) per riviverlo poi in maniera disincantata come identità negata e che proprio in tale negazione si genera alla coscienza.
O metafora identitaria mi pare possa ritrovarsi nel Todde di E quale amor non cambia, dove il doppio incesto parrebbe a me metaforizzare un legame in qualche modo perverso, perché non lineare né metabolizzato o risolto, dei Sardi nei confronti della loro terra e/o identità. I modi sono i più diversi, si va dalle descrizioni d’ambiente che con la tradizione hanno praticamente nulla a che fare, ma che rappresentano una realtà ben riconoscibile a chi, a quel lettore, dico, che la frequenta, e ne ha esperienza diretta, o che ne dà conoscenza agli altri. E àncora a un luogo preciso e connotato una storia.
Sono certe narrazioni di Sergio Atzeni, così urbane nel loro contesto: penso ancora all’Atzeni del Quinto passo che ambienta l’inquieto autobiografico vagabondare del protagonista fra Cagliari, le sue periferie e il suo hinterland alla ricerca di un sé che è collocato in un irraggiungibile altrove, ma che pure di questo e da questo ambiente è irrimediabilmente costituito, benché non realizzato.
Oppure sono le narrazioni di Milena Agus, dal tono certamente diverso, meno fortemente connotate di sardità, la quale però resta come un basso continuo che perdura all’orecchio, generando, se si passa la contraddizione, un intimismo sociale, una sottigliezza di psicologia condivisa, in un lirismo sostanziale che si esprime spesso anche nel paesaggio, felicemente non insistito, urbano cagliaritano.
Oppure ancora, come è nell’Alba dei giorni bui di Giulio Angioni, possiamo ritrovare in termini quasi metafisici e/o metaforici, pur dentro una storia concretissima, una trasposizione dell’identità collettiva nel problema dell’identità singolare e personale, o al più familiare. La quale si fa specchio e appunto metafora di un’identità più generale e più ampia. La storia qui ci narra come nell’avvicendarsi delle generazioni, viene trasmessa un’eredità, ossia una certa quantità di dati e di caratteri che prescindono dalla individuale biografia del singolo individuo, il quale però a sua volta è soggetto al mutare dei tempi e della storia, da cui viene immancabilmente modificato. Ci troviamo così davanti a un conflitto fra la permanenza tenace dei caratteri trasmessi, tanto naturali che culturali, e il necessario doversi adattare di essi e al tempo che muta e ci muta. Conflitto e crisi che si specchiano e si risolvono duplicemente, tanto nel disadattamento o nel male di vivere del protagonista Carlo, quanto nel pertinace attaccamento all’eredità tradita da parte della sorella e doppio di lui, vestale della memoria. Ma soprattutto tutto ciò si riflette nel gesto di quest’ultima: la quale, nel volersi adeguare all’attualità del transeunte, finisce per sopprimerlo, in una involontaria volontà, presa in carico da una coscienza, o direi meglio metacoscienza, sospesa nel dubbio: un gesto certo più ambiguo e irrisolto di quello cui assistiamo nel drastico finale di Assandira, che si fa segno della ribellione di una Sardegna impossibilmente vera contro l’ancor meno possibile Disneyland isolana. L’identità come crisi dunque, e come sospensione insoluta e lacerante. Dato intimamente morale innanzi tutto.
Ma, lo dicevo poc’anzi, è la lingua stessa che così spesso diventa essa stessa oggetto di rappresentazione. Si tratta di una lingua costruita sulla mescidanza di codici: di un italiano più o meno fortemente connotato intriso di sardità, con inserti talvolta di sardo tout court. Oppure di una più lieve patina di sardità posata e sparsa sul dettato italiano. I risultati sono in genere di buon livello, a parer mio: ricordo fra ciò che mi pare più significativo, Bellas mariposas di Sergio Atzeni, Nulla di Marcello Fois, e tutta in pratica l’opera di Salvatore Niffoi, che conduce questa operazione con un ipertrofismo linguistico di tal modo, che genera un senso di straniamento e di specificità che dal paesaggio geografico e antropologico trapassa direttamente nel linguaggio.
Certo non si tratta di un fenomeno nuovo alla letteratura italiana: si pensi a Verga, a Gadda, a Busi, o più recentemente a Camilleri, e, sia pure su coordinate diverse, a Aldo Nove. In Sardegna resta tuttavia un fenomeno praticamente tutto nuovo, e non più solo in funzione del mimetismo rappresentativo letterario: una tale lingua, di un tale impasto, ambisce a prendere in carico un mondo intero, per quanto di piccole dimensioni, finora rimasto nascosto allo sguardo tanto esterno quanto interno.
Al di là comunque del valore letterario e delle intenzioni dei singoli autori, da un punto di vista più propriamente relativo alla politica culturale, c’è da dire che è questa l’immagine che odiernamente la Sardegna letteraria dà di sé: e ci si può chiedere se tale Sardegna è realmente proprio quella rappresentata da questo impasto linguistico che viene emergendo oppure quella, forse indotta o che si vuole far indurre, di una terra ancora a modo suo e modernamente esotica. Colonia emancipata: ma non ancora del tutto. O forse, tal altra volta, si tratta di una ricezione critica che vuole indirizzare questa recente produzione letteraria in tale direzione. Ma così finisce per travisarne più d’una volta il senso; infatti si vorrebbe che tale senso fosse quello di una creolizzazione linguistico letteraria, che almeno a me appare alquanto improbabile, mentre ritengo si tratti invece della declinazione sarda di un fenomeno panitaliano: magari, questo sì, funzionalizzato maggiormente, più che non altrove, alla rappresentazione in senso sardo di una specificità storico-attuale ed esistenziale.
Nei casi migliori si è davanti alla scoperta di una specificità attraverso i gangli espressivi più profondi. Per esempio in Niffoi l’impasto e la resa linguistica fanno tutt’uno con la rappresentazione di una psicologia collettiva pur diffratta in singole personalità. Scavate dall’interno entrambe: lingua e psicosocietà. Quasi in reciproca presa diretta. In un gioco assai raffinato, sottile e stilizzato, talvolta anche in compiaciuto eccesso, che in parte sottende il Sardo lasciandolo trasparire al di là di una struttura fondamentalmente italiana, sia pur riplasmata e proprio perché riplasmata, da strutture sintattiche e lessicali sarde; dall’altro manifesta, attraverso questo stesso processo, nuovi e aurorali codici linguistici, se non addirittura una lingua in fieri che va gradualmenteemergendo, così come si può dire per i casi migliori di Sergio Atzeni o di Fois.
Fatto questo che è ancor più evidente quando teniamo conto della morale soteriologica sottesa alla scrittura di Niffoi, che affida la salvezza alla parola, alla sua memoria e alla sua trasmissione, alla sua interpretazione e divulgazione, dati che sono a loro volta oggetto della rappresentazione narrativa, in una sorta, anche qui di mise en abyme. E così le figure tanto spesso barbariche e ancestrali di Niffoi si caricano. tramite questo processo che le scrive e le propone, di una modernità trasversale.
Oppure v’è la descrizione del permanere del passato che resiste come sostrato ineliminabile nella modernità. Già s’è detto di Sergio Atzeni, ma posso e devo aggiungere anche Marcello Fois, sia per i suoi romanzi ambientati in epoca storica, ma con strutture sottese di modernità; penso al Sebastiano Satta protagonista di alcuni suoi romanzi, il Satta poeta avvocato nuorese che agisce, nella finzione narrativa, coi modi di un moderno detective. Ma penso pure ai romanzi, del medesimo autore, ambientati nella Nuoro contemporanea, dove i delitti di una criminalità dai connotati e dalle ragioni tutte moderne e attuali, affondano le radici in una antropologia e in meccanismi psicosociali atavici e totalmente sardi. Sì che l’identità e la sua rappresentazione scaturiscono non da una continuità ininterrotta del passato e dal permanere di caratteristiche perenni, resistenti e immutabili, ma dalle sabbie mobili dell’adattamento reciproco di istanze diverse e di dimensioni e geografie fra loro distanti che il mondo d’oggi non può non far incontrare, in modo più o meno coatto e comunque travagliato: un’identità dialettica data dall’irruzione del mondo dentro la più o meno presunta immobilità sarda. Accostamento che si era peraltro già manifestato nella rappresentazione della Sardegna postunitaria di Sebastiano Satta.
Non si può ignorare, parlando di letteratura prodotta in Sardegna, della produzione letteraria narrativa in lingua sarda. Fenomeno assolutamente nuovo e nato negli ultimi decenni, negli anni Ottanta. Ci si può chiedere, al di là, o al di qua se si vuole, delle intenzioni, del valore, delle proposte dei singoli autori o loro prodotti, quale sia l’impatto di questa produzione sul costituirsi di una identità. Se dovessimo rispondere guardando alla ricezione, magari in termini anche di marketing, dovremmo dire che quest’impatto è pressoché nullo, dato il basso o bassissimo livello quantitativo di ricezione, che conta poco più o poco meno dei ben noti venticinque manzoniani lettori, e un’attenzione pressoché nulla da parte dei media che potrebbero diffonderne quanto meno la notizia di esistenza.
Ciò che la narrativa in lingua sarda di oggi ci propone nel suo insieme, e al di là delle singole soluzioni e dei singoli autori, è quella di un prospettare la scrittura non come recupero ripropositivo di un discorso sull’antico, sulle radici, sul passato, ma la rappresentazione che, talvolta, potrebbe pure risultare straniante, di una realtà “normale”. La rappresentazione di un mondo contemporaneo, magari certo sardo, ma che non necessariamente è quello tradizionale, o quello che il lettore, anche sardo, si aspetterebbe quando in sardo si parla. E quand’anche si parla del passato o della storia lo si fa nei termini di una rappresentazione comunque riportata all’oggi, secondo le categorie di una visione conforme alla contemporaneità, magari con trasposizioni metaforiche, come in Addia, o la riproposizione della microstoria che si rappresenta in una cascata di eventi tenuti insieme più dal discorrere memoriale lirico che non da un’intenzione storiografica in Su Cuadorzu di Nanni Falconi.
Comunque, nonostante il basso impatto ricettivo per un pubblico che può dirsi di nicchia, questa non solo non è un’esperienza che si possa passar sotto silenzio. Ma è pure un prodotto che genera virtualità, se non altro: virtualità disponibile a futura memoria, se memoria vi sarà. Virtualità di cui quei venticinque poveri lettori possono essere lievito. Se vi sarà pasta. Perché il solo fatto di impiegare la lingua dandole un’elaborazione mai fin qui raggiunta, scegliendo all’interno di essa, talvolta arditamente, il lessico e piegandolo a nuove esigenze finora affidate ad altri codici, così dunque sottraendolo a un universo significabile esclusivamente pragmatico, non può, tutto ciò, non costituire un habitus identitario da eventualmente assumere. E se pasta poi non vi sarà, certo non si potrà levare alcun pretesto da parte di chi volesse dire che non si poteva, che non c’erano i mezzi. Perché sarebbe solo negligente oblio.