foto di Giuseppe Russo

Il 20 giugno 1545, l’esploratore spagnolo Iñigo Ortiz de Retes sbarcò, primo europeo, su una grande isola posta ai confini tra Estremo Oriente e Oceania. Preso possesso del territorio in nome della Corona spagnola, il navigatore la battezzò Nuova Guinea perché gli autoctoni – i papua, melanesiani dalla pelle scura – gli parvero simili agli abitanti della Guinea africana. Il termine papuah è malese e indica la caratteristica capigliatura cespugliosa del principale ceppo etnico isolano.papua-nuova-guineaLa Papua Nuova Guinea, che fino a qualche tempo fa ospitava gli ultimi cannibali, è una terra remota e per molti versi ancora immersa nella preistoria. È un caleidoscopio etnico, un mosaico linguistico e culturale che offre agli antropologi l’opportunità di entrare in contatto con antichissime popolazioni, sparse in villaggi piccolissimi tra la giungla delle montagne, di cui fino alla seconda metà del ventesimo secolo si ignorava l’esistenza. Ancora oggi molte tribù, pur avendo contatti con la civiltà moderna, continuano a vivere come i loro antenati cacciatori-raccoglitori dell’età della pietra.

Il Festival di Mount Hagen

Il turismo è giunto in tempi recenti, ma la sorpresa di trovare tradizioni e usi autentici, natura incontaminata e contatti ancora genuini motiva sempre più visitatori occidentali a visitarla. La stagione migliore per andare in Papua Nuova Guinea è l’estate, soprattutto in occasione del Mt. Hagen Festival, il principale sing sing (raduno intertribale), fortemente voluto dal governo negli anni ‘60 quando accesi scontri tribali mettevano a repentaglio la neonata unità della nazione. Da allora, a metà agosto le tribù si riuniscono sul monte Hagen, oppure nella prima decade di settembre a Goroka nelle Eastern Highlands, per le celebrazioni del Sing Sing Festival.
È un evento catartico in cui si dà sfogo all’innata bellicosità mediante una sfida simbolica fatta di danze e rituali tradizionali.
Vari gruppi etnici – Kunai, Tepi, Polga, Keps, Ambe, Mukabw, Baiyer, Kaula – in rappresentanza della maggior parte dei villaggi della provincia e, in parte, della nazione sfilano sfoggiando costumi e acconciature, con originalità e bizzarria di forme e colori policromi carpiti alla natura vegetale e animale, cui solo il carnevale brasiliano può avere paragone, esibendosi in canti e danze tribali a dir poco straordinari. Singolarmente o in gruppo, in un tripudio di suoni e di colori, tutti cercano di essere immortalati per soddisfare anche la propria vanità; l’unica ricompensa, l’unico piacere è infatti quello di vedere la propria immagine sullo schermo della fotocamera.

Tra gli “uomini parrucca”

Nella zona più remota delle Southern Highlands, invece, Tari consente un approccio genuino con la sua gente grazie alle particolari consuetudini degli Huli Wigmen (gli “uomini parrucca”), che non sono contemplate nei programmi dei sing sing nazionali. Piccoli di statura (raggiungono a stento il metro e sessanta) ma ben proporzionati e muscolosi, hanno uno spiccato culto della bellezza e severi canonici estetici, che esprimono soprattutto durante i sing sing. Si adornano il corpo in modo spettacolare, indossando bracciali di fibre vegetali decorati con piume di uccelli, e collane composte da semi vegetali, conchiglie e ossa di animali; dipingendosi il viso con colori vegetali fino a renderlo una maschera sgargiante; praticando un piercing nel naso con sottili ossa di animali o di bambù, e vestendo un gonnellino di foglie.
Nei villaggi sparsi nella giungla intorno a Tari, gli uomini mostrano volentieri ai visitatori le loro “stravaganti” tradizioni, come quella di indossare grandi parrucche a forma di cappella di fungo, adornate con festoni, piume di uccelli del paradiso o di casuario intrecciate con tessuti, erbe, ramoscelli, fiori e conchiglie, in modo più o meno elaborato a seconda che si tratti di un uso quotidiano o cerimoniale.
Nel villaggio, lo sciamano addetto al compito di maestro cerimoniere spiega al visitatore le varie fasi di fabbricazione delle parrucche con i capelli di giovani novizi, i quali con il loro possesso compiranno il passaggio sociale dall’età puberale a quella adulta. I capelli rasati “a cespuglio” dal cuoio capelluto del soggetto vengono impalcati su una sottile intelaiatura anatomicamente compatibile con la testa del soggetto stesso, che avrà così la sua parrucca personale. La creazione di questo ornamento richiede parecchio tempo, denaro e sacrificio, poiché la fase della preparazione contempla una sorta di “ritiro spirituale” di circa un anno e mezzo lontano dalla famiglia e dal luogo abituale di lavoro: il possesso di una parrucca, quindi, è destinato ai giovani di famiglie agiate o agli adulti che, grazie ad anni di lavoro, hanno potuto raggiungere la condizione sociale di “uomo-parrucca”.
La società huli è poligama: gli uomini possono prendere più mogli, ma le donne possono avere un solo marito alla volta, mentre per tutti vigono le regole dell’esogamia, secondo cui il matrimonio è consentito soltanto al di fuori di un gruppo sociale e mai tra parenti stretti. I matrimoni sono talvolta combinati, ma le coppie possono anche scegliersi autonomamente. L’uomo paga un “bride price” per la sposa e la sua famiglia, di solito in maiali o altri animali; ed è responsabile per la costruzione di una casa per la sua sposa. Dopo il matrimonio, il ruolo della moglie è di crescere i figli e prendersi cura di loro, coltivare la terra e trasformarne i frutti per l’alimentazione, cucire i vestiti ed aumentare la produzione dei maiali, principale voce d’allevamento.
I ragazzi di solito lasciano la casa materna all’età di 10 anni circa per vivere con il padre, aiutandolo nel suo lavoro. Per i ragazzi, i riti di passaggio associati con la pubertà sono la caccia e il tempo trascorso sugli altipiani.

Il rito della Compensazione

Il divorzio non è raro; la sua causa più frequente è la sterilità femminile. Dopo il divorzio, il marito tenterà di riappropriarsi dei maiali pagati alla famiglia della moglie al momento del matrimonio. Nei dintorni di Tari, mischiandosi tra la gente comune delle campagne, è a volte possibile assistere al rito della Compensazione. Si tratta di una pratica che consente ai familiari di uno dei coniugi di rivalersi economicamente sulla famiglia dell’altro per “compensare” una perdita subita. (Cito l’esempio di una donna che si era suicidata per i maltrattamenti del marito.)
Le divergenze tra i due gruppi familiari vengono dapprima verbalizzate in uno spiazzo in aperta campagna, in territorio neutrale, con la mediazione di un particolare “giudice di pace” preposto ad hoc dal governo centrale, in attesa che vengano successivamente definiti i termini compensativi per i danneggiati. Dopo un preaccordo e il trasferimento fisico della lunga diatriba presso un terreno appartenente alla famiglia lesa, vengono portati i primi compensi tangibili, di solito alcuni maiali, bovini, capre o altri animali domestici, con un’integrazione in kina, la moneta locale.
Se la compensazione viene ritenuta sufficiente, si chiude la divergenza tra le parti; ma, essendo la società huli strutturata in clan (hamigini) e sottoclan (emene hamigini), spesso l’accordo diretto è difficile o lungo e le trattative proseguono a oltranza fino all’accomodamento finale, tra arringhe sempre più concitate tra le parti, assiepate attorno al giudice e circondate da un variopinto pubblico che osserva, commenta e gironzola come se si trovasse al mercato.

 

 
Giuseppe Russo è un viaggiatore, fotografo, blogger e reporter con oltre 20 anni di esperienze e collaborazioni di viaggio per il mondo come tour leader. I suoi reportage sono pubblicati, oltre che su “Etnie”, anche sul suo blog Zoom, Andata & Ritorno.