Risalendo il torrente Afra, nel comune di Sansepolcro, a 865 metri di altitudine, appare l’austero villaggio denominato La Villa Montagna (o semplicemente La Montagna), in passato La Villa, con una chiesa dedicata a San Michele Arcangelo, e una torre risalente al XIII o XIV secolo. 1 Ercole Agnoletti annota: “La Montagna, anticamente meglio conosciuta coll’appellativo di Battuta, è ricordata in una donazione, rogata nel mese di aprile del 1078. In essa, un certo D. Giovanni da Peretolo offriva al monastero del Santo Sepolcro la terra che egli possedeva nella pieve di S. Giustino, in località Peretolo e al Prato et a la Battuta”. 2
Secondo la documentazione riportata dall’Agnoletti, nel 1347 “la chiesa di S. Michele Arcangelo, nel distretto del Borgo, apparteneva al monastero del Santo Sepolcro”, e passò all’ordinario diocesano soltanto il 19 dicembre 1564. 3 Nell’elenco delle decime del 1349 è riportata la chiesa di S. Angeli de Torre, come suffraganea della Plebes S. Marie de Burgo, in Pleberio Burgi. 4 Non sappiamo con certezza se essa sia la stessa che si trova alla Battuta, dove nelle vicinanze esiste tutt’oggi la sopraccitata torre medievale.
Dalla visita pastorale del 1583 di mons. Angelo Peruzzi, vescovo di Sarsina, risulta che la chiesa di S. Michele Arcangelo della Battuta alla Montagna ha la Confraternita del Corpo di Cristo, istituita nel 1582, la quale provvede all’olio del SS. Sacramento nell’altare maggiore. Nella chiesa vi è pure una cappella con altare della Madonna di cui si prende cura una confraternita laicale femminile intitolata pure alla “Gloriosa Vergine”, la quale vi fa celebrare la Messa ogni sabato. 5

culti protostoria sansepolcroA circa trecento metri di distanza dall’abitato della Villa Montagna, lungo il ramo principale del torrente Afra, si trova un altro piccolo nucleo abitativo denominato Prato, all’interno del quale vi è la cappella del beato Ranieri del XVIII sec. e, nel punto dominante, una casa-torre con delle aggiunte più recenti, conosciuta come il Palazzo del Betti. In un angolo della parete ovest di questo edificio è ricavata, a piano terra, una cappella, con altare e immagine della Vergine Maria, chiusa da una porta a vetri e un cancello e ben visibile dall’esterno. Nella capanna di un’abitazione privata, 6 nelle adiacenze del Palazzo del Betti, ho rinvenuto una lapide con la seguente iscrizione: Sacra hæc ædes in honorem deiparæ ac sanctorum raynerii benedicti, marini extit erecta. mdccviii (questo sacro tempio in onore della Madre di Dio e dei santi Ranieri e Benedetto, da Marini è stato eretto, 1708).

culti protostoria sansepolcroDal catasto lorenese della Comunità di Sansepolcro, sezione A, foglio 2 (conservato presso l’Archivio di Stato di Arezzo), risulta che la particella 206 corrispondente al Palazzo del Betti era di proprietà, all’epoca della stesura del catasto (1825), di Marini Francesco Giuseppe d’Attilio. Il medesimo possedeva anche la torre medievale sopra citata che si trova a La Villa, contrassegnata con la particella 426, e inoltre vari terreni lavorativi e a orto, nella zona. Dunque, un antenato di Marini Francesco Giuseppe, nel 1708, ha ricavato e fatto erigere, nella parete ovest del suo palazzo, la cappella sopra menzionata, in onore della Vergine Maria, del “beato” Ranieri e di san Benedetto.
È chiaro che lui intendeva con questo gesto recuperare delle devozioni che in passato erano vive in quel luogo, destinando la cappella della famiglia a tal memoria. Ora, si capisce bene come alla Montagna ci sia stata una qualche forma di devozione mariana, dal momento che nel 1583 era presente un altare dedicato alla Madonna nella chiesa del paese, e una confraternita mariana femminile, come si è detto.

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La chiesa di San Michele Arcangelo.

Si capisce anche la venerazione per quel “beato” Ranieri, frate cappuccino originario della Montagna, il quale in realtà non è proprio beato, essendo tuttora in corso la sua causa di beatificazione. Degna di riflessione è, invece, la menzione di san Benedetto, fondatore dell’Ordine monastico benedettino. La documentazione che possediamo ci dice che fino al 1564 la chiesa della Montagna apparteneva al monastero benedettino del Santo Sepolcro, e che detto monastero aveva, nella zona, dei possedimenti (si veda la già menzionata donazione del 1078). Ciò fa pensare che i benedettini avessero lasciato negli abitanti della Montagna una forte impronta, tale da meritare un luogo sacro in loro onore.
Nessun monastero è tuttavia documentato alla Montagna; dobbiamo allora ipotizzare che nel luogo potesse esserci un priorato con relativa chiesa, dipendenti dall’abbazia benedettina-camaldolese di Sansepolcro, nel quale priorato erano uno o due monaci e due o più conversi, per gestire le proprietà, riscuotere gli affitti, coordinare i lavori agricoli. Un’altra funzione, non marginale, di questo priorato, poteva essere quella di sicurezza e di controllo delle strade a monte del monastero del Santo Sepolcro. Non dimentichiamo l’importanza dell’abbazia benedettina di Sansepolcro, “notevole come attestano alcuni capitelli, grandiosa dal XIII, come mostrano le proporzioni del Duomo, il ruolo che essa assunse con l’istituzione della diocesi nel 1520”. 7
Alberto Fatucchi sottolinea anche il progresso tecnico dell’utilizzo agricolo del suolo che i monaci – eredi delle tecniche agricole della civiltà antica – seppero apportare al territorio di Sansepolcro. 8
Visitando la località Villa Montagna con i suoi dintorni, si ha l’impressione che il torrente Afra abbia la signoria su tutto quel territorio, tanti sono l’impeto e il fragore con cui le sue acque scendono a valle. Alcuni tratti del torrente, infatti, sono particolarmente ripidi e rocciosi.

culti protostoria sansepolcroNei pressi della località in esame si trovano i resti di tre mulini; uno sulla riva destra dell’Afra all’altezza del toponimo Il Podere; uno subito sotto l’abitato di Prato sempre sulla riva destra dell’Afra, e l’altro più a valle, lungo la strada asfaltata presso il ponte sull’Afra e sulla sua riva sinistra, non lontano dalla confluenza dell’Afra con il torrente Gorgone.
Ancora più a valle, sulla riva destra dell’Afra, si trova un vecchio edificio fatiscente denominato nelle carte topografiche La Valchiria. Nel catasto lorenese esso risulta con il nome La Valchiera, e quindi l’attuale nome è semplicemente la corruzione di quest’ultimo. Il toponimo rimanda alla gualchiera, cioè stabilimento in cui si cardava la lana attraverso macchinari che sfruttavano l’energia idrica. Dunque, lungo il nostro torrente vi era tutta un’attività lavorativa che sfruttava la forza dell’acqua. Per inciso, lungo la strada bianca che dalla Montagna conduce alla Spinella, nelle vicinanze del casolare denominato Il Condotto, si trova una grossa macina in pietra, in parte sgretolata, abbandonata nel bosco. Un’altra è stata inglobata in un muro di sostegno lungo la strada asfaltata che dalla Villa conduce alla torre medievale. Quest’ultima reca, nella parte grande a vista, delle incisioni che partono a raggiera dal centro, in cui la superficie si rialza attorno a un foro passante quadrato, ed è pertanto molto simile a quella del podere La Rota presso Foiano della Chiana, scoperta da Alberto Fatucchi e analizzata da Armando Cherici, il quale afferma essere una macina adibita alla macinatura del guado, da cui si estraeva, già in epoca medievale, il colore per i tessuti. 9
Oltre che nel Chianti e in Valdichiana, il guado veniva coltivato nell’Alta Valle del Tevere, a Cortona e Castiglion Fiorentino. Il suo commercio era redditizio per la città di Sansepolcro che ne produceva grandi quantità; dopo il 1441 il guado fu richiesto soprattutto dall’arte della lana fiorentina. 10 L’estrazione del colore dal guado avveniva mediante la macinatura delle foglie della pianta nei vari mulini della zona. L’operazione richiedeva l’impiego di macine di pietra che lavoravano per taglio similmente alla molitura delle olive. È comprensibile che lungo il torrente Afra, accanto alle altre attività lavorative, vi siano stati anche mulini per la macinatura del guado.
Riguardo al sito in esame, il Repetti riporta: “S. Michele alla Battuta alla Montagna, in Val-Tiberina. Cas[eggiato] da cui prende il distintivo la sua chiesa parrocchiale nel monte sopra Sansepolcro”. 12 Il toponimo Battuta indica palesemente “terra battuta” o “via battuta”. 13 Infatti, per la Villa passava un’importante strada che attraversava il Passo delle Vacche, con il seguente itinerario: Sansepolcro, La Villa, Pischiano (dove c’era anche il bivio per Monte Casale), Schiggioni, Passo delle Vacche, Tre Termini, Val di Rupino, Lamoli. Era una via “battuta”, sia per gli spostamenti di transumanza 14 sia per portare il bestiame al mercato di Lamoli, dove si teneva una grande fiera annuale nei giorni 8 e 9 settembre. 15
Dunque, per la Montagna passava un’importante strada che metteva in comunicazione Sansepolcro con la valle del Metauro, Urbino e Fano. Alberto Fatucchi, che ha studiato il percorso, ne sottolinea l’importanza in quanto percorso trasversale di passaggio “tra il versante tirrenico e quello adriatico. Ancora più specificamente in modo diretto tra due centri che avevano il ruolo di civitas: Arretium e Tifernum Metaurensis (attuale Sant’Angelo in Vado)”. 16 Significativo a questo proposito è il toponimo Basilica, che si ritrova più volte a indicare una vasta zona, uscendo da Sansepolcro e imboccando la strada che conduce alla Montagna. Il toponimo indica chiaramente la via regia (Basiliké odòs) o via maestra, come deducono Ermanno Bianconi e Alberto Fatucchi. 17
Andrea Czortek fa notare che per lo stesso Passo delle Vacche passava un’importante via di comunicazione con l’Adriatico con il seguente percorso: Sansepolcro-Passo delle Vacche-Carpegna-Rimini. 18
Inoltre un attraversamento naturale, dalla Villa Montagna, era assicurato dalla via che scorreva parallela all’Afra e passava per la Spinella ricongiungendosi alla Via Ariminensis presso Badia Tedalda. Queste varie strade che si incontravano alla Montagna – quest’ultima proveniente da Badia Tedalda per la Spinella, quella da Sansepolcro, quella da Monte Casale-Pischiano e quella dalla valle del Metauro per il Passo delle Vacche – facevano della Montagna un nodo viario, giustificando per essa l’appellativo La Battuta.
Vale la pena menzionare un’altra particolarità del territorio che stiamo esaminando: questo e i suoi abitanti hanno ricevuto una forte impronta longobarda nel periodo delle invasioni barbariche. Sappiamo che, sia nell’aretino sia nell’Alta Valle del Tevere, i Longobardi si sono insediati in maniera massiccia e hanno fatto resistenza ai Bizantini appartenenti all’esarcato di Ravenna, i quali tentavano la conquista su questo fronte. 19
Angiolo Mariucci, negli anni ‘30 del secolo scorso, così descrive la frazione Montagna: “Per la sua ubicazione, alla periferia del territorio comunale, in regione alpestre, ove hanno termine tutte le strade rotabili per dar luogo a quelle pedestri di alta montagna; per la povertà della sua economia agraria, costituita da pochi pascoli, e scarso bosco intermezzato da piccole superfici a semina; per i miseri abituri che formano tutto il nucleo abitato della frazione, la Montagna è rimasta chiusa nei secoli a quello che di solito è il flusso incessante della vita, dal cuore alla periferia. La stessa costituzione fisica degli abitanti, tra i quali prevale il tipo biondo, così diversa da quella degli altri abitanti del territorio comunale, il linguaggio primitivo di una musicalità tutta particolare e la resistenza ai più duri sacrifici e privazioni che impone la vita in quella zona alpestre, hanno contribuito ad accreditare la leggenda che quelle genti, altro non siano che un reliquato di un antichissimo popolo sorto dal connubio di autoctoni con i barbari del settentrione, che dopo la disfatta di Totila, re degli Ostrogoti, avvenuta nella valle del Metauro presso Pesaro nel 550, risalirono il corso del fiume, stabilendosi nella regione alpestre altotiberina”. 20

Il torrente Afra e l’Alpe della Luna

Vorrei partire dalla confluenza tra l’Afra e il Gorgone, poiché in quel punto, a un primo impatto, non si capisce quale sia il torrente principale e quale l’affluente, tanta è la portata d’acqua del secondo. L’idronimo Gorgone è facilmente spiegabile: si tratta di un torrente che scende con impeto su rocce scoscese e la cui acqua in alcuni punti di maggior profondità forma un gorgo, cioè un vortice, o mulinello, provocando un particolare fragore.
Afra è un idronimo molto arcaico. Parlando con Enzo Mattesini, egli ha espresso il parere – e, precisa, “da prendere con molta cautela” – che l’idronimo abbia una radice pre-indoeuropea, da ricollegare al cosiddetto “sostrato mediterraneo”, data la tipica struttura con prevalenza della a (come in arna “corrente” > Arno, e quest’ultimo idronimo lo si ritrova anche nell’Alta Valle del Tevere, in assa “corrente” > Assino, Ponte d’Assi [?], Assisi, eccetera).
In una società di questo tipo l’acqua è fondamentale perché è fonte di vita e di sussistenza. L’acqua assicura i raccolti e i pascoli, il cibo per l’uomo e per il bestiame; l’acqua significa anche “fecondità”, per la terra, per il bestiame, per la donna stessa. Fino a non molti decenni fa, era prassi, per una puerpera, recarsi alle fonti di acqua salutare per bagnarsi e bere di quell’acqua al fine di ottenere latte sufficiente per allattare il proprio neonato. Si pensi a quale importanza avesse avuto l’acqua in una società arcaica in lotta per la sussistenza, senza altri mezzi, all’infuori di quelli naturali e di ciò che offrivano il suolo e il bestiame allevato. “Sull’economia, religiosa e profana, stabilita con la terra, gli animali, la vegetazione, i raccolti e le acque, si fondano le comuni preoccupazioni che rendono ogni cultura drammaticamente sensibile alla nascita, alla morte, alla obbligazione di provvedere alla sua sussistenza”. 24
È noto come le prime comunità umane abbiano scelto di vivere lungo corsi d’acqua per risolvere facilmente le crisi dell’esistenza in tempi di siccità. È quindi molto probabile che nella valle dell’Afra ci siano stati degli insediamenti umani in tempi arcaici. Il torrente è la vita della comunità. Il torrente è “sacro” proprio per l’importanza che riveste e per la forza fecondante, specie se le sue acque sono abbondanti e prepotenti come quelle dell’Afra, per i dislivelli naturali che essa deve percorrere. “E così la corrente dei fiumi veniva vista come la carica travolgente di un toro in corsa: l’archetipo è costituito dalla personificazione divina del fiume Acheloo, in Grecia, come toro dal volto umano. Lo schema si ritrova del tutto analogo nelle monete coniate da Gela, nella Sicilia meridionale […] Come già detto, la potenza dello scorrere del fiume è personificata dalla carica del toro: e, per tutto il suo insieme, dalle corna. A Locri si conoscono numerose erme fittili decorate da un toro androcefalo: che l’iscrizione sottostante identifica con il nome di Eutimo. E tali ritrovamenti ci assicurano della deificazione del nostro atleta”. 25
Nell’antichità l’insieme del fiume veniva assimilato alle “corna di un toro”. Il poeta latino Publio Virgilio Marone, nelle Georgiche, narra che il fiume Po nel punto della confluenza con la Dora, apparve ai primi abitanti come un toro dalle corna dorate: et gemina auratus taurino cornua vultu Eridanus (e con due corna sul capo taurino l’Eridano dorato: 26 l’affluente si chiama, appunto, Dora). Da ricordare che presso questa confluenza sorge la città di Torino, la romana Augusta Taurinorum. 27 A Torino e alla confluenza del Po con la Dora, è legata la civiltà celto-ligure dei Taurini il cui simbolo era il “Toro divino” cantato da Giovanni Pascoli. 28
Anche nel nostro sito la confluenza tra il Gorgone e l’Afra ricorda fisicamente le corna di un toro. Ho interrogato varie persone anziane del posto (o che vi abitano ancora, o che si sono trasferite nella vicina Sansepolcro) sulle tradizioni, culti, credenze, riguardanti la zona. Esse sono: Fabio Lorenzini, Fiora Lorenzini, Elena Lorenzini, Oscar D’Orazio, Maria D’Orazio, Terzilio Valentini. Alcuni di loro hanno detto di aver visto di notte, nei pressi del ponte subito a monte della confluenza Afra-Gorgone, dei bovini, o in piedi o giacenti per terra sulla strada, i quali al passaggio delle persone non si scansavano, come invece ordinariamente usano fare. Altre persone affermano di aver sentito in certe notti, presso il ponte sul torrente Gorgone subito a valle dell’abitato La Villa, il muggito di una vacca o toro; muggito da ricollegare con quanto scrive Guzzo riguardo al fiume e alle sue implicanze con l’immagine del toro.
È chiaro che quanto affermano i suddetti testimoni è da prendere come leggendario, ma se si fanno certe affermazioni è anche vero che, nel corso dei secoli, elementi cultuali e sacrali considerati dei tabù riemergono in epoche successive sotto forma di racconti fantastici e popolareschi. Dunque, in qualche modo l’immagine del toro, nella zona che stiamo considerando, doveva avere in antico un grande peso.
A questo proposito vorrei citare il santuario di Monte Sant’Angelo, in Puglia. È il santuario, tra i tre in Europa più antichi e più importanti, dedicato a San Michele Arcangelo, e ha relazione con una grotta. Una antica leggenda circa l’apparizione di San Michele Arcangelo, ricordata in passato con memoria liturgica l’8 maggio, così recita: “Al tempo di Papa Gelasio Primo di questo Nome, era in Puglia un huomo molto ricco di bestiami grossi che haveva nome Gargano, il quale habitava a piè di un Monte che similmente si chiama Gargano, havendo forsi il Monte preso il nome da lui, o lui dal Monte. Avvenne una volta che un Torro si perse dalla Mandra degli altri, fu cercato assai, & al fine fu trovato sul Monte in una grotta. Non hebbe nessuno ardire d’entrarvi dentro, per il che gli tirorno una frezza, la quale quando fu a mezza via, si rivolse indietro, & andò a ferire colui, che l’haveva tirata. Parve quella una cosa maravigliosa, e pose in terrore, e spavento ogn’uno, che n’hebbe avviso. Uno di questi fu il Vescovo Sipontino, il quale ricorse a Dio, pregandolo, che gli dichiarasse il Misterio. Et havendo digiunato tre giorni in continue orazioni, a fine di essi gli apparve San Michele, e gli disse, come quel luogo era sotto la sua guardia, e tutela, eperò voleva, che in quella grotta si facesse un Tempio a honor di Dio, e suo, e di tutti gli Angeli. […] La Chiesa Cattolica celebra questa Festa dell’Apparitione di San Michele il giorno che ella occorse, che fu alli 8 di Maggio, l’anno del Signore 495”. 29 Lo stesso racconto leggendario è riportato da Iacopo da Varagine, da lui collocato nell’anno 390. 30
E ancora, Iacopo da Varagine, nel capitolo dedicato a San Michele Arcangelo, presenta un secondo racconto: “La seconda apparizione si verificò, a quanto si scrive, nel 710. In una località di nome Tumba, in riva al mare a sei miglia di distanza da Avranches, Michele apparve al vescovo della città dicendogli di costruire una chiesa in quella località, celebrandovi la memoria di S. Michele arcangelo, così come avveniva sul Monte Gargano. Il vescovo però non era sicuro dell’esatto luogo ove costruire la chiesa, e Michele gli mostrò che doveva essere ove si sarebbe ritrovato un toro nascosto dai ladroni. Non sapendo neppure il vescovo di che dimensione avrebbe dovuto essere la chiesa, Michele gli disse che doveva essere quanto il terreno che il toro aveva schiacciato con gli zoccoli”. 31
Da queste leggende possiamo ravvisare una continuità cultuale, e cioè che nella grotta di Monte Sant’Angelo, il culto a San Michele ha sostituito un precedente culto pagano legato alla figura del Toro. Secondo la leggenda, nessuno può ardire di entrare dentro la grotta dove c’è la presenza, maestosa e sacrale, di un toro. Nessuno può scacciarlo dalla grotta, neppure con le armi (una freccia scagliata contro il toro), se non San Michele Arcangelo, il quale chiede la riconsacrazione della grotta – ripulita da ogni paganesimo – a sé stesso e a Dio.
Nella seconda leggenda il vescovo esegue l’ordine di costruire la chiesa a Tumba precisamente sul terreno in precedenza calpestato dal toro, il toro del precedente culto pagano, ovviamente. Sui culti pagani legati al toro esiste tutta una letteratura a cui rimandiamo; si sa che essi sono presenti, per esempio, nel Vicino Oriente, nell’Antico Egitto, nella civiltà Minoica, nel culto a Dioniso, nel culto al dio Mitra, e persino nel culto a Ercole. Sia Ercole che Mitra, infatti, combattono contro un toro.

Gli antenati

Le significative reminiscenze che sopravvivono nell’immaginario degli abitanti della Montagna, potrebbero alludere a un periodo storico in cui nella zona venivano celebrati culti in onore di qualche divinità che aveva a che fare con il toro; culti che con il cristianesimo hanno continuato a persistere, e che soltanto con l’introduzione di un’immagine potente come quella di San Michele Arcangelo sono stati soppiantati, ma in parte anche assorbiti, dal nuovo patrono.
La precedente divinità fu probabilmente Ercole, il quale è considerato anche il dio della transumanza. In età antica, infatti, Ercole fu una divinità molto popolare nel mondo della pastorizia e la sua presenza nel territorio era segnata da santuari eretti lungo le vie della transumanza, come a Tivoli e ad Alba Fucens, sulla strada consolare Tiburtina battuta da greggi e pastori, e a Sulmona lungo gli itinerari Sabina-Puglia. Per tradizione, in tutta la nostra zona era praticata, in passato, la transumanza. “La pratica della transumanza ha inciso per secoli nella realtà sociale dell’Alta Valle del Tevere, lasciando tracce anche nella toponomastica, come dimostrano il ricordato Passo delle Vacche o il Passo della Calla”. 32
Gli abitanti del posto ancora oggi ricordano che, fino agli anni ‘50 del secolo scorso, alcuni pastori in inverno portavano il gregge nella piana di Sansepolcro vicino alla località Il Trebbio, presso casolari di contadini, fino al termine della stagione fredda.
L’immagine del Toro ha un legame anche con la Dea Madre: pensiamo a Europa che cavalca un toro, ad Artemide che ha sul petto 32 scroti di toro, 34 e a Diana. Racconta Livio (I, 3-7) che nell’atrio del tempio di Diana a Roma, due corna di vacca, la quale era stata immolata alla dea, vi rimasero affisse per varie generazioni.
È molto probabile che in tempi arcaici anche nel nostro territorio si praticassero culti alla Dea Madre. Alcuni toponimi, infatti, rimanderebbero a questa divinità: Alpe della Luna, Monte della Diana, 35 Via della Regina. 36

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Ingresso della grotta di Bagalino. (Foto Nocentini)

Vorrei segnalare, in proposito, un sito abbastanza prossimo alla Montagna, non ancora studiato: la Grotta del Brigante Bagalino, o Grotta di Bagalino. Essa si trova sul pendio occidentale del monte denominato La Rocca, a est della Montagna e subito sopra Pischiano. A qualche centinaio di metri più a valle, su un crinale in bella vista, sorge un edificio fatiscente chiamato Vèsina, probabile toponimo etrusco.
La Grotta di Bagalino, è la fenditura di una roccia che è disposta, in pianta, a forma di elle. L’ingresso ha un orientamento sud-ovest e misura circa un metro e quaranta per altezza e circa mezzo metro di larghezza; dalla base fuoriesce un rigagnolo di acqua sorgiva. La grotta si estende dentro la roccia per circa 12 metri, nella direzione sud-ovest/nord-est, con la forma di un tunnel dritto, che in alcuni punti si restringe rispetto all’ingresso, e con la parte alta a forma di sesto acuto simile ad un arco gotico. Nel soffitto si notano numerose stalattiti di piccole dimensioni, le quali man mano che ci si avvicina alla parte terminale sono sempre più umide e gocciolanti di acqua. Nella parte terminale, la grotta si allarga e diventa quasi circolare, mostrando un’ampiezza a forma di botte, di 80/90 cm di diametro in pancia: nel soffitto vi è una concentrazione di stalattiti.
La base è di forma circolare irregolare con diametro di circa 40 cm, e sembra che questa fosse atta, in tempi arcaici, ad accogliere un vaso per raccogliere l’acqua dello stillicidio, ritenuta sacra e curativa. Nella parete frontale, al centro e ben visibile sin dall’imboccatura della grotta – naturalmente con una torcia – la roccia riporta una spaccatura a forma di vulva, di circa cm. 21, larga circa cm 7 e profonda 30. In questa parte terminale, sulla destra e perpendicolarmente al tunnel, si apre un altro tunnel più piccolo, con apertura di cm 50×50 circa, per una lunghezza di circa sette metri e mezzo, sul cui fondo scorre dell’acqua sorgiva limpidissima, formando delle pozze naturali. Ancora, nella parte terminale di quest’ultimo tunnel, e a sinistra, ne comincia un altro con misure più ridotte, ma molto lungo e parallelo al primo e perpendicolare al secondo.

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L’interno della grotta del Bagalino. (Foto Nocentini)

Ipotizzo che la grotta, in tempi molto arcaici (età del bronzo?), possa essere stata frequentata e vi fosse praticato un culto delle acque, alla Dea Madre. La vulva, le acque, le pocce lattaie formate dalle stalattiti, hanno un forte richiamo alla fecondità e fertilità. 39 Un altro elemento, non troppo marginale, che fa pensare alla Dea Madre è la forma antropomorfa del profilo della grotta a circa metà tunnel; detto profilo evoca la forma di una persona in piedi, il cui grembo è rappresentato dalla grotta stessa. Un culto in questa grotta in età arcaica non meraviglia, se pensiamo che presso il Gorgo del Ciliegio, nelle vicinanze della chiesa di San Martino d’Afra, sulla sponda sinistra del torrente, il Gruppo Ricerche Archeologiche di Sansepolcro ha rinvenuto materiali risalenti all’età del bronzo.
Seguiamo ancora questo filone della Dea Madre. Secondo informatori locali, fino ad alcuni decenni fa in tutta la zona dell’Alpe della Luna, soprattutto nel nostro versante occidentale, era viva un’usanza: l’ultima sera del mese di febbraio (28 o 29 che fosse), attorno alle ore 20, in ogni villaggio venivano accesi dei grandi fuochi all’aperto, realizzati con fascine di legna portate dai vari abitanti, e si faceva festa. Dicono i testimoni: “Si faceva lum’a marzo”! Cioè, si faceva lume al mese di marzo che stava per arrivare. Possiamo tentare un’interpretazione di questa usanza come reminiscenza di un rito pagano in onore a qualche divinità. Una può essere Vesta, che presiede al fuoco del focolare domestico (fuoco portato da Troia da Enea): “Feste solenni in suo (di Vesta) onore si svolgevano ogni anno il primo marzo quando il sacro fuoco della dea e l’albero di alloro che gli faceva ombra, venivano rinnovati”. 40
Un’altra divinità potrebbe essere Giunone. Infatti i principali festeggiamenti a lei tributati erano le Matronalia, “che avevano luogo ogni anno il primo giorno di marzo”. 41
Anche Ercole ha un legame con il fuoco; infatti, “durante il suo passaggio per l’Italia, Ercole abolì i culti con sacrifici umani, celebrati dai Sabini, stabilì il culto del fuoco e sconfisse Caco, che gli aveva rubato i buoi”. 42

Due grotte cultuali alla Montagna

In contrada Prato, una decina di metri a est del Palazzo del Betti, nel giardino di una casa privata 43 si può vedere una parete rocciosa, perfettamente orientata, su cui è accennato l’ingresso di una grotta, con la parte superiore rotondeggiante, tale da richiamarne la volta. La parte destra è in parte franata; l’ingresso è chiuso da una muratura rudimentale a pietre, ma da una fessura sulla parte alta possiamo intravedere l’interno della grotta, parzialmente otturato da terra di cedimento. Nella parte superiore della facciata, “a volta”, vi sono tre cavità rotonde di circa 12 cm di diametro, disposte a triangolo isoscele i cui lati misurano circa cm 52, la base circa cm 80, e l’altezza circa cm 33.

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Ingresso della grotta in località Prato. (Foto Nocentini)

Propongo la seguente ipotesi, da studiare e verificare. Poiché, abbiamo detto, la parete rocciosa che contiene l’ingresso della grotta è perfettamente orientata, la formella concava centrale (e alta) è esposta perpendicolarmente al sole, al suo sorgere, nei periodi equinoziali: l’ho fotografata alla levata del sole, nell’equinozio di primavera, e ho potuto constatare, tramite l’ombra proiettata nella formella, la perpendicolarità dei raggi solari. Le due formelle concave laterali (e basse) sono leggermente angolate verso la levata del sole durante i solstizi, rispettivamente d’inverno e d’estate. Alla levata del sole nel solstizio d’estate, i suoi raggi si proiettano perpendicolarmente nella cavità destra (guardando la parete rocciosa). Anche questa formella concava l’ho fotografata alla levata del sole, al solstizio d’estate, e ho potuto constatare la perpendicolarità dei raggi solari nella formella stessa. Viceversa, alla levata del sole al solstizio d’inverno, i suoi raggi si proietteranno perpendicolarmente nella cavità sinistra (guardando la parete).
Potremmo ipotizzare di essere in presenza di una grotta in cui, in passato, si celebravano dei culti solari, e le formelle servivano per controllare, verificare, registrare, la levata del sole nei vari periodi dell’anno, scanditi dagli equinozi e dai solstizi.

(Foto Nocentini)

Possiamo avere un raffronto di questa ipotesi a Casale di Sestino dove si trova una chiesa dedicata a San Michele Arcangelo. Alberto Fatucchi ha segnalato e fotografato 44 delle formelle modulari che si trovano nell’esterno dell’abside della chiesa. Mi sono recato sul posto, ho constatato che l’abside è perfettamente orientata, come l’ingresso della grotta a Prato della Montagna. La struttura muraria esterna dell’abside (alla stessa altezza circa in cui si trovano le cavità sulla facciata della grotta di Prato) contiene delle pietre con “formelle modulari” scolpite; cioè concave come quelle della grotta, in più, però, esse hanno delle protuberanze al centro, come ha fatto notare il Fatucchi, alcune raffiguranti mammelle, altre sculture a croce, e a stella a 5 e a 6 punte.

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Casale di Sestino (AR). Abside della chiesa dedicata a San Michele Arcangelo, con tre principali ordini verticali di formelle. (Foto Nocentini)

Le formelle si trovano nella stessa posizione di quelle della grotta, con la differenza che sono di più come numero. Vale a dire, nella grotta ce n’è una al centro (equinozi), e una per ogni lato (solstizi). Nell’abside di Casale ce ne sono due (sistemate verticalmente, cioè una sopra e una sotto) al centro, due (sempre una sopra e una sotto) a destra e due a sinistra. In più nella parte superiore ce ne sono altre, sistemate tra quelle al centro e quelle dei lati. I raggi del sole si proiettano perpendicolarmente, sulle due formelle centrali, agli equinozi; su quelle laterali si proiettano perpendicolarmente, rispettivamente ai due solstizi. Su quelle che stanno tra le serie laterali e le serie centrali, il sole batte perpendicolarmente, di volta in volta nei mesi compresi tra un equinozio e un solstizio.
In conclusione, a Casale di Sestino abbiamo, per ciò che concerne la posizione rispetto al sole, la stessa situazione visibile nella nostra grotta. La differenza è semplicemente nel numero delle formelle, ma le medesime hanno la stessa identica funzione nei due siti. Questo fatto appare rilevante e confermerebbe l’ipotesi che si tratterebbe di formelle solari per scopi cultuali.

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Le tra cuppelle e lo schema delle levate del sole.

Segnaliamo inoltre la presenza di una seconda grotta con segni di culto solare, del tutto simili alla precedente, a Villa Montagna, presso la torre medievale. A pochi metri a est dalla torre si trova un’abitazione privata 45 costruita sui resti di un’altra torre più antica della precedente. Detto basamento di torre è a sua volta costruito sopra la roccia. In questo punto, infatti, il terreno presenta una piccola altura rispetto all’abitato di La Villa, che visto in prospettiva fa da pendant all’altura del Palazzo del Betti di Prato, in linea d’aria, a circa trecento metri di distanza da questo.
Alla roccia che si trova sotto il basamento della torre si può accedere da un fondo della casa privata, adibito in passato a cantina o stalla. Qui ci troviamo davanti all’ingresso di questa seconda grotta, anch’esso perfettamente orientato e anch’esso recante, nella sua parte alta, tre formelle a triangolo simili a quelle della grotta di Prato. La differenza è che queste sono di dimensioni maggiori. La formella di sinistra guardando l’ingresso (corrispondente al solstizio d’inverno) sembra sia scomparsa per deterioramento della parete rocciosa in quel punto, e al suo posto, con uno scarto di 10-15 cm, si trova una cavità quadrata scolpita in epoca recente per l’alloggiamento di una piccola trave.

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Località La Villa. Ingresso di una cavità all’interno di un sotterraneo. (Foto Nocentini)

Le altre due formelle sono ben conservate e misurano circa cm 22 di diametro; distano tra di loro cm 60. La formella di destra per chi guarda (del solstizio d’estate) non è sferoidale in maniera regolare, ma la sua concavità si insinua in maniera dissimmetrica nella roccia, tanto che il suo asse non è perpendicolare alla roccia come quello della formella centrale (equinoziale), ma presenta un’angolatura in direzione del sole quando esso si trova nel solstizio d’estate.
La dissimmetria che la formella di destra presenta rende più spaziosa la cavità interna. Anche la corrispondente del gruppo della grotta di Prato ha la parte inferiore più spaziosa e capiente. Ciò induce a pensare che le formelle, soprattutto quella del solstizio d’estate, fossero atte a contenere o un oggetto o degli alimenti. Potremmo supporre che nei riti connessi con il culto solare, le formelle, oltre ad avere la funzione di verifica dei raggi solari, come già detto, avessero anche la funzione di ospitare oggetti rituali o alimenti, offerti alla divinità, oppure esposti per poter essere arricchiti dell’energia solare, ricevuta dall’alba solstiziale.

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(Foto Nocentini)

Pratiche simili si riscontrano in presenza di coppelle solari (disposte orizzontalmente) in cui venivano posti oggetti rituali, in luoghi in cui sono attestati culti precristiani, ad esempio in Valle Camonica e in Sardegna.
Potremmo fare delle analogie con altre tradizioni sopravvissute nel cristianesimo. Tra le testimonianze raccolte da Lidia Calzolai e Paolo Marcaccini ve n’è una significativa: “Nel suo spostamento verso i pascoli invernali, il pastore portava, oltre agli oggetti di uso quotidiano, anche medicamenti ritenuti efficaci per la cura degli animali. In montagna aveva raccolto, all’alba del giorno di San Giovanni, la così detta erba nocca e ne aveva essiccato le radici: sarebbero state utilizzate ogni volta che la pecora dava segni di congestione”. 46
L’erba nocca, una varietà di elleboro, era raccolta all’alba del giorno di San Giovanni, 24 giugno, quindi all’alba del solstizio d’estate, quando il sole si trova nel punto in cui è capace di erogare la sua massima energia, energia che la pianta incorpora e che può ridonare al momento del bisogno, all’animale malato. Ho raccolto una testimonianza simile dalla signora Lidia Borri, 83 anni, la quale si è dedicata in gran parte della sua vita alla pastorizia, nel territorio di Castelluccio di Capolona (Arezzo): ella racconta che all’alba di San Giovanni raccoglieva, insieme con altre erbe (camomilla, malva), la gramigna comprese le radici, che veniva fatta essiccare e conservata, per poi essere utilizzata lungo l’anno, sia per curare le pecore sia per somministrarla loro dopo il parto.
Una cosa analoga avveniva nel giorno della festa di S. Antonio, 17 gennaio, poco dopo il solstizio d’inverno, quando fino a qualche decennio fa in molte chiese veniva officiata la Messa con la Benedizione degli animali e dei loro alimenti. Gli alimenti benedetti (una esigua quantità per famiglia) venivano portati a casa: una parte si faceva mangiare agli animali il giorno stesso, logicamente insieme con i normali alimenti quotidiani, e una parte veniva conservata per somministrarla poi lungo l’anno quando gli animali stavano male.
Il concetto era lo stesso: conservare una parte di alimenti per animali, raccolti o esposti all’alba del solstizio, quindi caricati della benefica energia solare, o di una particolare benedizione, per essere poi somministrati nel momento del bisogno. Era un fatto di sussistenza degli allevamenti e conseguentemente delle persone.

Mondo sotterraneo

Il culto nelle grotte ha avuto una continuità dalla preistoria fino a tempi relativamente recenti. In periodi molto arcaici, le grotte erano usate per la sepoltura e quindi vi si adoravano gli Antenati. Poi esse diventano luogo di culti della Dea Madre, dea della fertilità legata al culto delle acque. Spesso all’interno della grotta si collocavano dei recipienti per raccogliere l’acqua da stillicidio ritenuta salutare e sacra; in altri casi, nella grotta vi era addirittura un pozzetto di raccolta dell’acqua. 47 In epoca antica e tardoantica, nelle grotte si diffonde il culto a Mitra, a Mercurio, a Ercole, e dall’epoca barbarica in poi, in particolare con i Longobardi, San Michele Arcangelo sarà venerato soprattutto nelle grotte in sostituzione dei precedenti culti pagani.
A questo punto occorre fare una precisazione di carattere generale. Quando noi diciamo “culti solari” e “culti delle acque”, usiamo delle convenzioni che servono per esprimerci, ma di fatto il culto al sole e il culto delle acque erano fusi insieme. Il sole e l’acqua sono due elementi fecondanti e in natura agiscono per interazione; non c’è fertilità se manca uno di questi. È chiaro che in certi contesti emerga di più uno e resti nell’ombra l’altro, e viceversa, ma in linea di massima sono presenti entrambi.
Per quanto riguarda le nostre due grotte della Montagna possiamo affermare che esse, quasi sicuramente, siano state in passato luoghi di culto. Nelle due grotte, situate all’apice di due piccoli promontori “gemelli”, dovevano essere adorate una coppia di divinità, maschile e femminile. Spesso nei luoghi di culto sono venerate divinità maschili e femminili, il dio maschile con la sua paredra, ad esempio Giove e Giunone. Spesso troviamo Giunone associata non a Giove ma a Ercole, secondo il noto mito di Giunone che allatta Ercole. Per l’iconografia relativa si possono confrontare vari esemplari di specchio etrusco graffito raffiguranti l’Allattamento di Erakles da parte di Hera (Uni, Giunone). 48 Anche la toponomastica conserva questo mito. Si pensi alla zona di Monterchi; il paese di Monterchi (Monte di Ercole) sorge su un colle a cui fa da pendant il colle di Citerna che si chiama Montione (Mons Junoni, Monte di Giunone).
Nel nostro caso, si può supporre che nella grotta di Prato fosse adorata Giunone, dea della fertilità più legata alle acque: la grotta si trova, infatti, in una zona ricca di acqua e vicinissima al Fosso della Fonte del Bricco. 49 Nella grotta della Villa più verosimilmente era adorata la divinità maschile e più solare, suppongo Ercole. Infatti Giunone è la dea a cui vengono tributati i riti del fuoco del primo giorno di marzo ed è anche colei che allatta Ercole, il dio della transumanza, il dio delle grotte, il dio che combatte contro il toro.
A questo punto, andando verso la cristianizzazione, l’età barbarica e l’invasione longobarda, giunge colui che soppianterà ogni altro culto e che sarà il patrono incontrastato della zona: San Michele Arcangelo. Sulla scorta degli elementi finora considerati, possiamo dire con grande probabilità che il primitivo culto a San Michele dovette essere presso una delle due grotte in oggetto, facilmente in quella della Villa, e solo successivamente si costruì e si dedicò a lui l’attuale chiesa di San Michele della Battuta alla Montagna.
“La trasformazione del culto in quello cristiano di San Michele rivela l’innesto del culto dell’Arcangelo su culti preesistenti all’interno di grotte segnate dalla presenza iatrica dell’acqua. L’Arcangelo compare in luoghi segnati da fenomeni rituali particolari quali le grotte, gli abissi, i fenomeni vulcanici, le acque sotterranee, comunque in rapporto con il mondo dell’ignoto”50. “Tuttora le grotte conservano connotazioni sacrali poiché i santi portati dal cristianesimo si sovrappongono alle divinità terrestri primordiali; come nel caso molto diffuso, di San Michele Arcangelo, santo che ben si adattava a sostituire la venerazione di Ercole, prediletto dagli antichi pastori-guerrieri italici, sia perché guerriero contro il maligno, sia per la stessa similarità di immagine, con l’arma sollevata nell’atto di colpire, clava nel primo, spada nel secondo”. 51
Fu facile, per i Longobardi, diffondere il culto a San Michele Arcangelo in questi luoghi, in cui già si praticavano dei culti nelle grotte, in quanto questi popoli, per loro natura e cultura, erano a loro volta eredi di culti simili, e trovarono in San Michele il patrono a essi più congeniale. Anche Ermanno Bianconi rileva questo fatto, quando attesta che i Longobardi riuscirono a incunearsi nelle difese bizantine e ad affacciarsi sulla valle tiberina: “Tutto ciò avvenne sotto le insegne protettrici di san Michele Arcangelo, il santo taumaturgo per eccellenza, sul quale i germani Longobardi ed i loro alleati, ancora più pagani che cristiani ariani e quindi scarsamente assimilati nella nuova religione, avevano trasferito la mitologia del loro dio guerriero Odino con la lancia prodigiosa e la bilancia con la quale pesava le anime dei morti”. 52

Le feste

La festa più importante dell’anno, per gli abitanti della Montagna, è senza dubbio quella di San Michele Arcangelo che cade il 29 settembre, secondo la tradizione del calendario della Chiesa Romana. In molti luoghi di culto dedicati a questo arcangelo è stata riscontrata la preesistenza di un culto pagano, prevalentemente delle acque. 53 Le feste legate ai culti delle acque sono ricorrenti soprattutto nel mese di settembre – mese in cui le falde acquifere si abbassano e diminuiscono di portata – e sono state soppiantate dal cristianesimo, in sostituzione delle quali si celebrano ora la Natività della B. Vergine Maria, 8 settembre, e San Michele Arcangelo, il 29.
È comunemente acquisito che il culto a San Michele sia di tradizione longobarda. I Longobardi, infatti, dopo la loro vittoria sui saraceni presso Siponto, nel Gargano, l’8 maggio 663, attribuendone il merito all’Arcangelo Michele, diffondono rapidamente questo culto, e ricordano questo intervento miracoloso con una festa annuale l’8 di maggio. 54
Sappiamo che i Longobardi sono inizialmente cristiani ariani, e successivamente si convertono al cattolicesimo, ma in un lasso di tempo molto lungo. Il Franceschini, 55 e altri dopo di lui, si sono accorti che in un’unica località in cui erano presenti i Longobardi, si trovavano due chiese, a poca distanza l’una dall’altra (il fenomeno delle chiese a coppia): una romana e una ariana, officiata dai Longobardi. Spesso nella chiesa ariana si riscontra un culto a san Michele Arcangelo, e in alcuni casi la festa dell’8 maggio persiste fino a oggi. 56 Nella maggioranza dei casi, però, dopo il periodo longobardo, la festa di san Michele continua a essere celebrata al 29 di settembre, secondo l’impostazione romana.
Alla Montagna, dove, abbiamo detto, c’era stata una marcata dominazione longobarda, non risulta che in un passato a memoria d’uomo sia stata celebrata una festa l’8 di maggio; piuttosto si usava celebrare in tono molto solenne la festa dell’Ascensione del Signore, una festa variabile che ricorre quaranta giorni dopo la Pasqua, e comunque pochi giorni dopo l’8 maggio. I testimoni del posto, sopra elencati, ricordano che per l’Ascensione dopo la messa si faceva una solenne processione per la strada disseminata di petali di fiori, fino a raggiungere l’edicola mariana ai margini dell’abitato della Villa Montagna, lungo la vecchia strada per Pischiano.
Inoltre, all’alba dello stesso giorno veniva raccolta l’Erba dell’Ascensione e veniva appesa a capo al letto, dal marito e dalla moglie, dalla parte in cui rispettivamente essi dormivano, e lì doveva stare fino all’anno successivo. Se l’erba fioriva nei giorni successivi alla raccolta, ciò era di buon augurio per il coniuge a cui corrispondeva il cespuglio; se invece essa appassiva e non fioriva non era di buon augurio. Angelo Spiganti identifica l’Erba dell’Ascensione, con una crassulacea, il Sedum telephium, o Telefio, detto anche Fabaria, e Erba di San Giovanni 57 (probabilmente presso altre tradizioni essa veniva raccolta la mattina di San Giovanni).
Ho spesso riscontrato che la festa dell’Ascensione sostituisce culti precristiani degli alberi, della vegetazione, della fecondità della natura, culti che venivano praticati nel mese di maggio. 58 Significativo a tal proposito è il toponimo Via della Regina, sopra menzionato. La Regina è un attributo della Dea-Madre: regina della primavera, divinità dei monti e della vegetazione a cui era dedicato il mese di maggio. A questa dea era legato il rito di raccolta e offerta delle erbe di primavera da parte dei coniugi, come ho detto prima.
La festa dell’Ascensione alla Montagna aveva un carattere solenne e nei tre giorni precedenti la festa si celebravano le Rogazioni, abolite poi dal Concilio Vaticano II. L’Ascensione ricorreva sempre di giovedì (40 giorni dopo Pasqua). Il lunedì precedente all’Ascensione, di mattina presto, si svolgeva una processione che dalla chiesa di San Michele raggiungeva un luogo, vicinissimo alla grotta di cui abbiamo parlato, in cui emerge dal terreno una roccia su cui è stata murata una croce di ferro per ricordare la sacralità del luogo. Nella roccia sono visibili due cavità naturali, una più profonda che contiene quasi sempre acqua piovana. Da questo luogo, il parroco celebrava un rito di benedizione sui campi e sui raccolti. Non sappiamo se questa roccia, di forma abbastanza regolare con uno spigolo nella parte culminante e con queste coppelle, avesse prima del cristianesimo una sua sacralità. Nei culti delle acque spesso si riscontrano cavità naturali su rocce simili, atte a raccogliere acqua piovana ritenuta curativa o portatrice di benedizione.
Tornando allo svolgimento delle Rogazioni, il martedì mattina una seconda processione dalla chiesa si spingeva fino alla curva a gomito che si trova subito sotto l’abitato di La Villa Montagna, dove esiste tutt’oggi una croce di ferro a margine della strada, da dove il parroco compiva lo stesso rito rivolto ai campi di quella zona. Il terzo giorno, il mercoledì, la processione raggiungeva il Poggio della Croce, a sud-est della Villa, da dove il parroco celebrava il rito di benedizione.
Anche sul Poggio della Croce, su un piedistallo di pietra, c’è una croce di ferro recante incisa una data: 19-3-1905 (il 19 marzo è la festa di san Giuseppe). È acquisito che queste celebrazioni altro non sono che il riadattamento cristiano di una festa religiosa pagana che cadeva nel mese di maggio e durava tre giorni; si chiamava Ambarvalia ed era celebrata dai Fratres Arvales, un collegio di dodici sacerdoti romani. Lo scopo era quello di propiziare i raccolti; “la festa di tre giorni comportava riti di espiazione, offerte del vino e incenso a Diana, benedizione delle spighe, un banchetto rituale e il canto del Carmen Arvale”. 59
La tradizione delle Rogazioni era molto forte e molto sentita in generale, essendo quello italiano un territorio di tradizione agro-pastorale. Pur non essendo quindi una peculiarità della Villa Montagna, la tradizione delle Rogazioni era tuttavia sentita in maniera particolare in questo luogo.
Riguardo ai culti della vegetazione, credo di potere aggiungere un particolare interessante. Ancora oggi, si sa, è molto viva in tutte le chiese la tradizione dei “Sepolcri” la sera del giovedì santo. Da notare che il nome “Sepolcri” è improprio in quanto il tabernacolo di ogni chiesa, che si venera il giovedì santo, non è il sepolcro di Cristo ma il luogo dove si conserva l’Eucaristia. Per tradizione ogni anno questo tabernacolo si addobba con grande sfoggio di fiori e arredi vari, in maniera tale da essere accogliente e bello da vedersi, per i numerosi fedeli che fino a notte inoltrata visitano i vari “sepolcri”.
Nella chiesa di San Michele alla Montagna gli addobbi si arricchivano, in passato, di numerosi vasi da fiori con i gerli germogliati. I gerli sono una varietà di semi di biada che si usavano come alimento per gli animali; in particolare, scottati con acqua calda e mischiati con semola si davano agli agnellini. Secondo le varie zone essi si chiamavano: caprogelli, capogergli, jerli, gerli, ghjierli. Assomigliano ai semi di veccia, di robélli, di cicerchia. Vari giorni prima del giovedì santo, in genere, la donna di ogni famiglia seminava in un vaso da fiori i semi dei gerli. Il vaso veniva innaffiato e collocato in una stanza buia perché i semi dovevano germogliare senza vedere la luce. Così nascevano dei germogli che restavano del colore bianco (a causa della mancanza di luce) e si allungavano così tanto da ridondare fuori del vaso come lunghi capelli. Il giovedì santo venivano collocati nel tabernacolo della chiesa, e anzi le donne del paese facevano a gara per realizzare e ostentare il vaso più bello.
Questa tradizione dell’addobbo sfoggiante dei Sepolcri prende il nome di “giardini di Adone” (Adone è il dio della natura corrispondente a Pan, ed è l’innamorato di Venere), è di origine pagana, ed era un gesto che rientrava nei riti della fertilità a primavera. Secondo la mitologia, Adone è costretto a stare sei mesi negli inferi e sei mesi in terra; a primavera fa pertanto il suo ritorno, quasi una risurrezione annuale, e per questo è assimilato a Cristo, che il giovedì santo è nel “sepolcro” e a Pasqua risorge. 60
Da ricordare che la Pasqua cade ogni anno alla prima luna piena dopo l’equinozio di primavera. Tra le varie tradizioni, il cristianesimo ha assorbito e conservato anche questa, e alla Montagna il rito è entrato in maniera forte nell’animo della gente, per cui dobbiamo concludere che dall’equinozio di primavera fino all’intero mese di maggio, in passato c’era tutta una tradizione di culti precristiani riferiti alla fertilità, alla vegetazione, alla propiziazione dei raccolti, alla fecondità dei bovini e delle greggi.
Veniamo adesso a una festa che caratterizza in modo particolare la zona: la festa della Befana. Il Natale passa in maniera abbastanza normale tranne la tradizione del “ceppo” che è una costante in tutte le altre zone. Invece l’Epifania, dopo il santo patrono del 29 settembre che primeggia indiscutibilmente, era la seconda festa per importanza. La tradizione di questa festa è raccolta e documentata da Angiolo Mariucci. 61
Ogni anno si formavano due squadre itineranti di tre o quattro persone dette “I Befani”, che si mascheravano (ma non tanto da essere irriconoscibili). Tra di esse c’erano uno o più suonatori: tradizionalmente lo strumento suonato era il violino, soppiantato negli ultimi anni dall’organetto. Il gruppo partiva la mattina del 5 gennaio, vigilia della Befana, e visitava gli altri villaggi della zona montana, fermandosi presso le varie abitazioni e cantando una stornellata alla Befana. La gente, che accoglieva e ascoltava il canto di buon augurio per l’anno appena cominciato, alla fine dava un’offerta al simpatico gruppo.
L’offerta aveva un significato molto importante. Ho riscontrato tradizioni simili, ad esempio, nel grossetano, ove ci sono tutt’oggi le squadre dei “Maggerini”, che nella notte tra il 30 aprile e il 1° maggio vanno a svegliare la gente nelle case, con stornelli e canti “in ottava rima”. Gli abitanti, in passato contadini e allevatori, erano ben contenti di dare l’offerta, in natura e in soldi, ai Maggerini, poiché era come se la dessero al dio della fertilità, per propiziarsi i raccolti della stagione a venire; una cosa simile avveniva nei canti itineranti del Bruscello in Valdichiana, in cui al termine dell’esibizione si faceva l’offerta alla squadra dei cantori.
Così, alla Montagna, l’offerta fatta alla squadra dei Befani, era rivolta, tramite loro, al dio solare inauguratore del nuovo anno. Teniamo presente che a quella data era da poco trascorso il solstizio d’inverno e la luce cominciava ad aumentare nella giornata, e così l’effetto fecondante del sole. I Befani rientravano alla Montagna il giorno seguente, 6 gennaio, dove una grande festa li accoglieva. La festa era sentita e preparata con cura: “Il primo di gennaio di ogni anno il Parroco estrae, da una busta, ove vengono imbussolati i nomi di tutti i capi famiglia della parrocchia, due cosiddetti Befani del Santissimo Sacramento aventi il compito di provvedere alla raccolta delle elemosine per le funzioni del Venerdì Santo, per l’Ufficio delle Confessioni ricorrente il mercoledì dopo Pasqua e per la festa del Corpus Domini. Anche la musica a carattere monodico, è fresca e spigliata e ricorre sul tipo del rispetto toscano. Ogni strofe si canta su un tempo di due quarti, mentre fra una strofe e l’altra il violino intercala un ritornello in sei ottavi, che in origine doveva servire certamente di ritmo ad una piccola danza”. 62
Ecco, musica semplice, popolare, a indicarne l’antichità, e danza. In origine potrebbe trattarsi di danza rituale di tipo sacro. L’ultimo suonatore di fisarmonica della Montagna, che accompagnava i Befani e che ora vive a Sansepolcro, è Terzilio Valentini.
Possiamo ipotizzare che la festa dell’Epifania alla Montagna abbia soppiantato, assorbendone certi elementi, un culto pagano a un dio solare. Il quale dio potrebbe essere Giano (la cui festa è il 9 gennaio e Giano dà il nome a gennaio), ma più probabilmente Ercole, per i seguenti motivi:

  • è il figlio di Giunone, da lei allattato e spesso a lei associato, anche per ciò che riguarda il fuoco sacro;
  • è il dio della transumanza e alla Montagna è ben collocato nel suo ambiente;
  • è il dio che abita le grotte;
  • è il dio delle dodici fatiche, rappresenta cioè il sole nella sua fatica di percorrere i dodici mesi, e la festa della Befana è proprio all’inizio di questo percorso, dopo il solstizio d’inverno.

La stessa situazione della Montagna, in fatto di culti, la troviamo a Monterchi. La chiesa parrocchiale è dedicata a San Simeone, festeggiato il 5 gennaio. Nella zona sottostante la chiesa di Monterchi si trova una grotta orientata, ancora non studiata. Il paese è ubicato alla confluenza del torrente Padonchia con il Cerfone (come la Montagna si trova presso la confluenza dell’Afra con il Gorgone); la Madonna del Parto di Piero della Francesca richiama palesemente un culto delle acque. Nelle vicinanze si trova il colle di Montione, che richiama Giunone. Il latte che sgorga dalle turgide mammelle di Giunone per allattare Ercole, è associato all’acqua salutare che sgorga nella zona. Anche nel colle di Citerna (presso Montione) si trova una grotta perfettamente orientata, che il Gruppo di Ricerche Archeologiche di Citerna ha segnalato. 63 Tutti questi elementi sono straordinariamente in comune con la nostra zona in esame.
In conclusione, il territorio di Villa Montagna è molto ricco di tradizioni e, se vogliamo, di mistero. Le tracce, i segni, gli stimoli sono tanti e contribuiscono a individuare una continuità di culti dall’età arcaica fino a oggi: Dea Madre, Diana, Giunone, Ercole, san Michele Arcangelo. Dobbiamo aggiungere che in tempi più recenti l’elemento femminile, materno e fecondante, è conservato nella devozione mariana testimoniata dalla Societas Gloriosae Virginis, presente almeno nel 1583, e dalla menzione della Deipara voluta dal Marini nel 1708.
Ulteriori approfondimenti ed eventuali scavi archeologici potrebbero far luce su quanto si è detto, confermando o meno le ipotesi avanzate. Di certo ci sono elementi a favore molto consistenti. Oltre a quelli presentati a supporto delle nostre ipotesi, vorremmo sottolineare l’importanza del torrente Afra con la sua potenza e la forza “fecondante” delle sue acque. Attorno a un corso d’acqua di quella consistenza è difficile non ammettere presenze di vita fin da tempi remoti. E se ci sono stati insediamenti umani, vi sono stati pure praticati dei culti.
Un secondo elemento di fondamentale importanza è la viabilità. Situata in un punto strategico, la Montagna rappresenta un nodo viario transappenninico molto importante. I popoli, le civiltà che passano, che approdano, portano con sé le proprie tradizioni, i propri culti, lasciando impronte indelebili nel territorio, nelle pietre, nella gente.

N O T E

1 E. Agnoletti, Viaggio per le valli altotiberine toscane, Città di Castello 1979, p. 68.
2 Agnoletti, Viaggio cit., p. 69. Il documento citato si trova presso l’Archivio vescovile di Sansepolcro [AVS], Quaderni di miscellanea civile dal 1430 al 1575, n. 45.
3 Agnoletti, Viaggio cit., p. 69.
4 Pietro Sella (a cura di), Rationes Decimarum Italiae nei secoli XIII e XIV. Umbria, I, Città del Vaticano1952, p. 6.
5 AVS, Acta episcopalia, I, cc. 139v-143v; cfr Agnoletti, Viaggio cit., p. 68.
6 Proprietario il sig. Fabio Lorenzini.
7 A. Fatucchi, Borgo Sansepolcro, nodo viario dei pellegrini, in E. Mattesini (a cura di), Vie di pellegrinaggio medievale attraverso l’Alta Valle del Tevere. Atti del convegno (Sansepolcro 1996), Città di Castello 1998, p.66.
8 Ibidem.
9 A. Cherici, Macine da guado nell’aretino, in «Proposte e ricerche», 28, 1992, p. 49.
10 Cfr. F. Polcri, Produzione e commercio di guado, in Sansepolcro città medicea di confine. Vicende di una crisi tra i secoli XVI e XVII, Sansepolcro 1987, pp. 53-59; A. Czortek, Prodotti dell’allevamento sul mercato di Sansepolcro secondo lo Statuto della Gabella del 1358, in Allevamento, mercato, transumanza, sull’Appennino. Atti del Convegno (Ponte Presale 1999), Sestino – Badia Tedalda 2000, p. 80.
12 E. Repetti, Dizionario geografico fisico storico della Toscana, voce Battuta (S. Michele alla), Firenze 1833, Vol 1, p. 291.
13 A.A.V.V., Dizionario di toponomastica, voce Battuda, Utet, Torino 1990-1991, p. 68.
14 Il passaggio appenninico del Passo delle Vacche come “via di transumanza” è ricordato da L. Calzolai – P. Marcaccini, La transumanza appenninica in età moderna e contemporanea, in Allevamento cit., pp. 40-41 e da Czortek, Prodotti dell’allevamento cit., p 80.
15 Era chiamata Fiera della Bambina, in concomitanza con la festa di Maria Bambina, una variante liturgica della festa della Natività di Maria SS., ricorrente lo stesso giorno, 8 settembre.
16 Fatucchi, Borgo Sansepolcro cit., p.77. L’autore, alle pp. 75-79, espone in dettaglio le sue ricognizioni storiche su questo percorso che interessa la zona in esame.
17 E. Bianconi, Castrum Felicitatis e la Tuscia Longobardorum, in «Pagine altotiberine», 19, 2003, p. 29; A. Fatucchi, Aspetti dell’invasione longobarda del territorio aretino, in «Atti e Memorie dell’Accademia Petrarca», XLI, 1973-1975, pp. 251-252.
18 Czortek, Prodotti dell’allevamento cit., p 80. Alla nota 5 l’autore riporta un’ampia bibliografia sulle antiche vie di comunicazione dell’Alta Valle del Tevere.
19 Per una documentazione sull’insediamento longobardo nell’Alta Valle del Tevere si vedano: Bianconi, Castrum Felicitatis cit., pp. 7-44 e Fatucchi, Aspetti dell’invasione longobarda cit., pp. 238-320.
20 A. Mariucci, I canti della “Befana” in territorio di Sansepolcro, in «L’Alta Valle del Tevere» I/1, 21 aprile 1933, p. 10.
24 V. Dini, Il potere delle antiche madri. Fecondità e culti delle acque nella cultura subalterna toscana, Torino 1980, p. 17.
25 P. G. Guzzo, Fonti divine, Miti dell’acqua in Magna Grecia, in V. Teti (a cura), Storia dell’acqua. Mondi materiali e universi simbolici, Donzelli ed., Roma, 2003, p .39-40.
26 Virgilio, Le Georgiche, testo latino e traduzione in versi italiani di Giuseppe Albini, Bologna 1968, IV, pp. 371-372.
27 Al fiume Eridano, l’attuale Po, è legato soprattutto il mito di Fetonte. Un giorno Fetonte, molto imprudentemente, si impossessò del carro del Sole di Apollo (o Elio, secondo le versioni). Fetonte che non era un buon auriga perse il controllo del carro, il quale si avvicinava troppo alla terra incendiandone i raccolti e provocando altri gravi danni. Giove per fermarlo fu costretto a lanciargli una freccia e lo uccise, facendolo precipitare nel fiume sottostante, l’Eridano, presso la sua confluenza con la Dora. E ivi vennero la madre e le sorelle, distrutte dal dolore per cercare le spoglie di Fetonte.
28 Carmina, Hymnus in Taurinos (Inno a Torino), 1-21.
29 A. Villega, Flos Sanctorum, Venezia e Bassano 1732, p. 338.
30 Iacopo da Varazze, Legenda aurea, a cura di Alessandro e Lucetta Vitale Brovarone, Torino 1995, pp. 793 e segg.
31 Ivi, p. 794.
32 Czortek, Prodotti dell’allevamento cit., p 85.
34 Così sono state identificate le 32 protuberanze che la dea Artemide, rappresentata nelle sculture di Efeso, mostra nel petto, e non mammelle come in passato si credeva.
35 Il toponimo è riportato da G. Cecconi, Un vico e il suo patrimonio fondiario (Borgo Sansepolcro), Anghiari 2000, p. 75. L’autore cita un documento che parla del taglio di un bosco “nel Pagino del Monte della Diana che va per la schieggia fino al fosso e confina con il Poggio di Ribono e c’entrano i Prati di Perticaia”. Il Poggio di Ribono è quello che comprende la Fonte di Ribono che si trova a circa due chilometri a Est da Prato e La Villa. Nella stessa zona è stato individuato il prato di Perticaia.
36 Una antica strada che da Monte Casale raggiungeva Pian del Soglio, passando vicino alla Montagna.
39 Per uno studio sistematico sul culto delle acque in grotta rimandiamo alle numerose opere in merito, ad esempio: C. Corrain, F. Rittatore, P. Zampini, Fonti e grotte lattaie nell’Europa occidentale, in Etnoiatria, Vol. I, n. 2, 1967; M. T. Guaitoli (a cura), Acque, Grotte e Dei. Culti in grotta e delle acque dall’eneolitico all’età ellenistica, Incontro di studi, Imola, 12-12 gennaio 1997, in OCNUS, Quaderni della Scuola di Specializzazione in Archeologia, dell’Università degli Studi di Bologna, VII, 1999.
40 A. Ferrari, Dizionario di mitologia greca e latina, Torino, 1999, voce Vesta, p. 730.
41 Dizionario di mitologia cit., voce Giunone, p. 366.
42 Dizionario di mitologia cit., voce Eracle, p. 286.
43 Proprietario è il sig. Osvaldo Brugoni.
44 A. Fatucchi, Persistenze precristiane in alcune decorazioni scultoree rurali aretine del medioevo, in Studi di storia dell’arte sul medioevo e il rinascimento. Nel centenario della nascita di Mario Salmi. Atti del convegno (Arezzo-Firenze 1989), Firenze 1992, pp. 262-264 e 271.
45 Il proprietario è il sig. Hanns Steger.
46 Calzolai – Marcaccini, La transumanza cit., p. 52.
47 Vedi bibliografia di cui alla nota 39.
48 Un primo esemplare è lo Specchio di Volterra che si trova al Museo Archeologico di Firenze; un secondo si trova al Museo Civico di Bologna, e un terzo al Museo di Berlino. Per una bibliografia in merito, si veda: G. Monaco, Uno specchio etrusco al Museo Archeologico di Firenze colla rappresentazione di Herakle allattato da Hera, in «Rendiconti della Pontificia Accademia Romana di Archeologia», VIII, 1932; M. Renard, Hercule allaité par Junon, Hommagè a Jean Bayet, Bruxelles, 1964; G. A. Mansuelli, Uno specchio etrusco inedito del Museo civico di Bologna e il mito di Ercole alla fonte, in «Studi Etruschi», XV, 1941.
49 Il “Bricco” sta a designare il maschio degli asini, l’asino maschio. In questi luoghi montani di difficile sussistenza, il mezzo di trasporto comune, spesso è l’asino, il quale si impiegava anche per andare a prendere l’acqua alla fonte. Molto simile è l’idronimo “Asinaio” (Rio), Rivus Asinarius, un piccolo affluente del Cerfone che nasce dal Poggio di Maiano, presso Palazzo del Pero: cfr Repetti, Dizionario cit. voce Asinajo.
50 S. Bianco, Il culto delle acque nella preistoria, in Archeologia dell’acqua in Basilicata, Potenza 1999, pp. 22-23.
51 C. De Pompeis – A. Gandolfi (scheda, a cura), Continuità cultuali nei luoghi rupestri. Sacralità delle grotte, Il Museo, Museo delle genti d’Abruzzo, Sala III.
52 Bianconi, Castrum Felicitatis cit., p. 29.
53 Cfr. A. Fatucchi, Le origini del culto di San Michele Arcangelo nell’aretino, in «Atti e Memorie dell’Accademia Petrarca», LXIII-LXIV, 2001-2002, p 273.
54 Ivi, p 274.
55 G. Franceschini, Chiese a coppie in territori arimannici dell’Alta Valle del Tevere, in Atti del I Convegno Internazionale di Studi Longobardi (Spoleto 1951), Spoleto 1952.
56 A Citerna si festeggia il patrono del paese, san Michele Arcangelo, l’8 maggio; così a Castiglion Fiorentino e a Castelluccio di Capolona.
57 Cfr. A. Fiori, Nuova flora analitica d’Italia, Edagricole, I, Bologna 1984, p. 719.
58 Particolarmente sentita l’Ascensione era ad Ascoli Piceno dove esiste il Monte dell’Ascensione; a San Giuliano di Arezzo, dove nel giorno dell’Ascensione, fino a poco tempo fa, si usava fare un pellegrinaggio sul monte sovrastante chiamato Saturnino; a Pieve a Sietina la cui patrona è santa Maria Maddalena ma la festa principale dell’anno era l’Ascensione; lo stesso a Cortona, dove si celebra con grande solennità sia santa Margherita il 22 febbraio e sia il giorno dell’Ascensione; così a Monte Santa Maria Tiberina, la cui patrona è santa Maria Assunta, 15 agosto, ma la principale festa dell’anno è l’Ascensione.
59 Dizionario di mitologia cit., voce Fratres Arvales, p. 82.
60 Cfr. Dizionario di mitologia cit., voce Adone, p. 14.
61 Mariucci, I canti della “Befana” cit., pp. 9-12.
62 Ivi, p. 12.
63 La grotta è menzionata anche da G. Riganelli, Terra Citerne, Città di Castello 1996, p. 26.