Nel Nagorno-Karabakh gli islamici devastano anche i simboli della civiltà

La tragedia degli armeni continua. Un particolare nuovo e solo apparentemente minore (il vino!) si somma ai crimini di guerra perpetrati nel Nagorno-Karabakh (in italiano si traduce: Bosco della montagna nera, in armeno è l’Artshak), con la cacciata da quella terra dei suoi antichi abitanti cristiani. In settembre l’esercito dell’Azerbaijan, coadiuvato dalla Turchia e dai tagliagole di Al Qaeda e ISIS, aveva aggredito vittoriosamente la repubblica autonoma che ha per capitale Step’anakert. La cronaca ha – dopo la tregua che ha sancito l’occupazione di questa terra caucasica – registrato fucilazioni di vecchi che avevano osato restare, devastazioni di antiche chiese e monasteri. Anzi la cronaca non ha registrato un bel niente. Siamo purtroppo abituati al sangue versato, specie se di popoli cristiani per mano di governi islamici verso i quali la geopolitica obbliga ai salamelecchi commerciali. E tutto è coperto dal silenzio. Ma il vino versato, le botti sfasciate, le cantine vandalizzate, le viti divelte (per favore no, questo almeno no) ci obbliga a girare la faccia verso quei colli, è un istinto che abbiamo dentro, induce alla ribellione. Magari ci svegliasse. C’è un perché.
Il vino coincide storicamente e simbolicamente con la civiltà occidentale. La parola civiltà infastidisce, ha qualcosa di monumentale e di ideologico. Il vino invece è l’idea di un gusto della vita, di una convivialità che attraversa i sentimenti profondi di popoli biblici e latini; è la linfa che percorre le radici ebraiche e greco-romane, e infine cristiane. Poche storie, è così, qualcosa di atavico. Il vino, con la sua prima ebbrezza, fu inventato e apprezzato da Noè. Un elemento in più. Questo miracolo accadde – lo documenta l’archeologia – proprio in Caucaso, sulle falde del monte Ararat, dove si posò l’Arca, si svilupparono i vitigni, e gli armeni ne ricavarono un brandy che è meglio del cognac, e ha proprio il nome di ararat. Amatissimo da Winston Churchill che lo riteneva elisir di giovinezza insieme ai sigari Havana.

Il comunicato

Gli armeni – il primo popolo cristiano della storia, convertitosi al vangelo dal 303 – furono invasi da mongoli, persiani, turchi, orde di ogni genere. Usando forza e intelligenza, ingenuità e astuzia, preservarono la fede e il vino, non necessariamente in quest’ordine, ma di sicuro insieme.
Ora che è accaduto in Nagorno-Karabakh? C’è un doloroso comunicato del Consiglio della comunità armena di Roma, ripreso da korazym.org, che rimanda alla memoria di luoghi stupefacenti, ora feriti a morte. Nel sud dell’Artsakh, nella regione di Hadrut al confine con la repubblica sorella dell’Armenia, c’è (fino a quando?) un antico monastero che sembra un nido d’aquila, una sola cosa con le montagne, punteggiate da isole di fiori di montagna ed erbe aromatiche autoctone. Le pietre armene diventano inaspettatamente pura bellezza, che fonde cielo, natura, uomini e viti. Questo monastero si chiama Katarovank. Racconta chi l’ha visitato che la strada per arrivarci è lunga e ardua. Ed è qui che la famiglia Avetissyan dai tempi antichi ha chiamato il proprio vino Kataro in onore di questo luogo incredibile, consapevole fosse anch’esso un bastione di memoria vitale. Il sito è perfetto per un grand cru, circondato da una natura magnifica ed esposto a venti caldi e benedetti per maturare grappoli portentosi. La storia del vino Kataro attraversa generazioni, rivoluzioni, blocchi e guerre. Ma nonostante tutte le svolte del destino, la famiglia Avetissyan era riuscita a preservare e rivitalizzare i vigneti, conservando e rinnovando l’antica tradizione caucasica della vinificazione. Dice il comunicato: “Clima favorevole, sole soffice, terreno unico ricco di argilla e cure costanti danno vita al vino, che ha assorbito in sé la bellezza e la nobiltà della natura circostante”.
La cantina Kataro non c’è più, è stata distrutta dai barbari che mai come in circostanze simili paiono ispirati da demoni. La famiglia Avetissyan possiede (possedeva) 11 ettari di vigneti, coltivati a Khndoghni, il vitigno autoctono più noto dell’Artsakh e 2 ettari di Syrah. Khndoghny è coltivato sulle pendici del Togh a un’altitudine di 600-700 metri in un terreno prevalentemente argilloso. Khndoghny, o Sireni, come spesso chiamano gli autoctoni l’uva, è potente e profondo, ricco di tannini e conferisce ai vini estrazione ed espressività, oltre che struttura.
Aghadjan Avetissyan, bisnonno dell’attuale (ex?) proprietario della cantina Kataro, aveva prodotto vino da uve Khondoghni per tutta la vita, ma con il crollo dell’URSS, e tutto ciò che ne seguì, la viticoltura era stata messa da parte. Fu nel 1996 che Grigory Avetissyan decise di far rivivere i vigneti di Khndoghni e, dopo tanta sperimentazione, finalmente inizia nel 2010, i primi vini con il marchio Kataro.

Il depliant

Ora il villaggio della provincia di Hadrut è occupato dalle forze militari dell’Azerbaigian. I soldati azeri si sono accaniti sulle botti che custodivano il pregiato vino, le hanno sfasciate, hanno spaccato bottiglie. C’è bisogno di ricordare che il vino è segno evangelico del sangue versato? Rovesciarlo a terra, bandirlo da una terra cristiana è il sacrilegio che coincide con l’odio per la bellezza e per l’amore che soli danno modo al vino di essere tale. Chi sparge vino, ha già sparso e spargerà sangue.
Un depliant di prima dell’invasione illustra: “Inverni miti ed estati soleggiate contribuiscono alla maturazione armoniosa delle uve. La raccolta e la scelta a mano consentono di seguire le antiche tradizioni enologiche coniugandole sapientemente con le più moderne tecnologie di vinificazione. Alziamo i calici!”. Non più, è finita. A meno che l’Azerbaijan, sospinto dalla comunità internazionale, non si faccia perdonare il delitto. E ripristini l’onore delle vigne e delle botti.
Sarebbe bello che grandi e piccoli produttori di vini italiani e non solo manifestassero, trovassero il modo di manifestare solidarietà. Che la comunità cristiana abbastanza silente, magari quella del vino che simbolicamente ha i suoi stessi confini, fosse più coraggiosa.

Renato Farina, “Libero”.