foto di Danilo Gitto

Ho visitato Kathmandu nell’agosto del 2014. Ho sempre desiderato andarci, ma ho sempre rimandato. Da qualche parte del mondo c’era ogni volta un contatto locale che mi garantiva un servizio esclusivo, un’etnia da fotografare prima che scomparisse o un qualche evento irripetibile che faceva slittare il Nepal in seconda posizione. Poi, circa un anno fa mentre programmavo il mio prossimo viaggio, alcuni eventi indipendenti dalla mia volontà si dimostrarono curiosamente fortuiti. La mia meta, a proposito di etnie a rischio, era il Tibet. La politica cinese sulle visite da parte di stranieri alla Regione Autonoma del Tibet è incostante; le ragioni sono complesse e non mi sento di trattarle in questa sede, sicuro di non poter esaurire l’argomento. Diciamo soltanto che in seguito all’analisi della situazione di allora decisi di non atterrare nella provincia cinese del Sichuan, per poi raggiungere la mia meta via terra o con un volo interno, ma di entrare direttamente in Tibet. Il confine più fruibile ai miei scopi era proprio quello con il Nepal. L’occasione era propizia. Forte anche della necessità di alcuni giorni per ottenere il visto d’ingresso, decisi di anticipare il mio viaggio di una settimana in modo da avere il tempo di visitare la valle di Kathmandu. Col senno di poi sarei tentato di ringraziare la politica di Pechino nei confronti del Tibet, che mi ha permesso di visitare un Paese incredibile prima che la terra tremasse.


Alle 6,11 del 25 aprile 2015 una scossa di magnitudo 7.8 ha colpito il Nepal, l’evento sismico più violento che abbia colpito l’area dopo il 1934. In seguito a questa e alle oltre trenta scosse d’assestamento nelle ore successive, circa 8600 persone hanno perso la vita e oltre 20.000 sono rimaste ferite. La quantità di edifici crollati, tra i quali numerosi patrimoni dell’umanità dell’Unesco, è incalcolabile.
Ma non è mia intenzione parlare delle condizioni in cui versa il Nepal in questi giorni. Ci sono altre fonti, più informate, che lo possono fare. Voglio parlare, e mostrare tramite le immagini, del Nepal che fu e che deve tornare a essere.

Una scacchiera di luce e buio

Arrivo a Katmandu a tarda notte. L’albergo mi manda a prendere all’aeroporto e ho modo, durante il tragitto, di osservare una città avvolta nell’oscurità. Al tempo non sapevo dei problemi di approvvigionamento energetico della capitale, che obbligano l’azienda elettrica a “staccare la spina” a interi quartieri fino a otto ore al giorno. È una delle tante contraddizioni di un Paese che conta circa 6000 corsi d’acqua, ma strutture insufficienti a generare elettricità per tutti.
Anche se agli occhi di un occidentale potrebbe sembrare un disagio intollerabile, gli abitanti di Kathmandu ci convivono senza problemi, aiutandosi con tecnologica ironia. Esistono infatti numerosi siti internet che pubblicano gli orari dei blackout programmati (nome tecnico load-shedding) divisi per zone o quartieri, e persino una app per smartphone con lo stesso scopo. Inoltre è possibile godere dello spettacolo di una città divisa a scacchi di luce e oscurità recandosi verso l’orario di chiusura al tempio delle scimmie (Harati Devi Temple), dalla cui sommità Katmandu è visibile in tutta la sua estensione.
Il Nepal possiede la più alta concentrazione di siti patrimonio dell’umanità. Solo la valle di Katmandu ne vanta sette nel raggio di 15 chilometri. Per visitarla potete prendere un taxi oppure utilizzare uno degli stipatissimi pulmini che fungono da servizio pubblico. Anche se non temete la ressa, prendere uno di questi trasporti non è la cosa più semplice del mondo se non siete del posto. Infatti non esistono fermate, l’autista si limita a rallentare quando vede un gruppo di persone a piedi, mentre un ragazzo urla la destinazione dallo sportello aperto del bus ancora in movimento. Quando il mezzo è pieno – o meglio stracolmo – parte a tutta velocità verso la meta.
Ho girato tutta la valle in questo modo e, tolta la scomodità di trasportare l’attrezzatura fotografica, l’esperienza di essere l’unico occidentale a viaggiare insieme con operai, studenti e commercianti è stata impagabile. Chiaramente sarebbe stato molto più difficile se non avessi avuto il mio amico e guida Mymy, risorsa preziosa per dipanare il tessuto sociale della capitale. La mattina in cui ci presentammo, si scusò dicendomi che non avrebbe potuto farmi da guida poiché doveva recarsi in un orfanotrofio dove lavorava come volontario. Ovviamente non poteva sapere che, così dicendo, avrebbe acceso il mio interesse: il turista tipo voleva essere portato a Durbar Square o a Bhaktapur, non in un orfanotrofio distante 30 chilometri dal centro città! Gli chiesi di accompagnarlo e lui, per quanto perplesso, accettò di buon grado. Passai così il mio primo giorno in Nepal nella HCC Nepal Children’s Home, dove conobbi i bravissimi volontari e i vivacissimi bambini ospiti della struttura. Sono tutt’oggi in contatto con loro ed è stato un sollievo sapere che nessuno è rimasto ferito a causa del terremoto.

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Religione e rock

Mymy mi guida attraverso i meandri di Kathmandu, dei suoi vicoli, dei suoi palazzi, dei suoi templi e dei suoi divertimenti. Sì, perché la capitale del Nepal non è solo storia e religione. Quando cala la notte, numerose scritte al neon punteggiano le strade polverose e il ronzio dei generatori a benzina è coperto dalla musica rock a tutto volume. Buona parte dei bar è appannaggio dei turisti a causa dei prezzi proibitivi per un Paese dove lo stipendio medio supera di poco i 50 dollari al mese.
Uno dei locali preferiti non solo dai forestieri ma anche dai nepalesi più facoltosi è il famoso Purple Haze, un enorme rock bar che non sfigurerebbe in nessuna capitale europea. Il nome è tratto da una canzone di Jimi Hendrix, come tengono a precisare i frequentatori abituali. Tra un tiro di narghilé e l’altro, mi spiegano che quel palco dove ora si sta esibendo una band locale è stato calcato dallo stesso Hendrix, dai Beatles, da Bob Marley e da molti altri. È vero che, dalla fine degli anni ‘60 in poi, molti musicisti si sono recati in Nepal in cerca di ispirazione (illuminazione?), ma sul fatto che quel bar fosse già aperto allora nutro qualche dubbio. Non ho tempo per fare ulteriori domande perché l’indomani mattina mi devo recare a far visita a un’altra singolarità del grande Nepal: l’unica Dea vivente.

La Kumari

A Kathmandu risiede la Kumari Reale, la più importante tra le kumari, termine che letteralmente significa “vergine”. Si tratta di una divinità indu, incarnazione di Durga, ma anche i buddisti vengono a renderle omaggio. Si dice porti molta fortuna riuscire a vederla attraverso le piccole finestre dell’edificio dove vive. La Kumari viene scelta tra le bambine delle famiglie nevar di casta buddista e deve incarnare le “32 perfezioni”, ovvero 32 requisiti, molti dei quali più simbolici che reali. Sostanzialmente si cerca una bambina priva di difetti fisici, di bell’aspetto, che non abbia avuto perdite di sangue. A questo proposito, se la Kumari dovesse subire anche il più lieve graffio verrebbe detronizzata, in quanto non può ricevere le cure di alcun medico. Stesso destino le toccherà alla comparsa delle prime mestruazioni, quando lascerà il posto a una nuova Kumari.
Malgrado io abbia visto due volte la Dea, non vedrete nessuna immagine scattata da me, poiché è severamente proibito immortalarla… anche se, talvolta, qualche turista convinto di essere più furbo degli altri prova a rubare uno scatto, provocando l’ira dei custodi e la fuga immediata della Kumari dentro i suoi alloggi.
Ci sarebbero altre mille ragioni per visitare questo Paese incredibilmente sfaccettato, ma sarebbe impossibile elencarle tutte. Malgrado le gravi avversità in cui sta versando in questi giorni, sono sicuro che l’orgoglioso popolo del Nepal si risolleverà e sarà nuovamente pronto ad accogliere chi si mostrerà rispettoso della sua cultura e del suo splendido patrimonio naturale e artistico.

 

N O T A

Per una disamina approfondita delle etnie nepalesi, cfr. Nepal, crogiuolo di etnie di Ingrid e Franco Nicoli.