In un reportage pubblicato l’anno scorso il filosofo militante Bernard-Henry Lévy definiva la situazione dei cristiani in Nigeria come “pre-genocidio”. Senza mezzi termini.
A suo avviso i responsabili, oltre che ovviamente nei fondamentalisti di Boko Haram, andrebbero individuati nei fulani (popolazione nomade musulmana in passato più conosciuta come peul) di cui denunciava l’ulteriore radicalizzazione religiosa. Senza escludere una tacita complicità da parte dell’esercito nigeriano. In molte occasioni l’ex “nuovo filosofo” si è fatto notare per il protagonismo dei suoi interventi. Alcuni sicuramente apprezzabili (come sulla questione curda), altri meno (per esempio sull’intervento francese in Libia). L’allarme di Lévy comunque va preso in considerazione.
Più di recente – dopo l’assassinio di Lawan Andimi, presidente dell’Associazione cristiana della Nigeria per mano di Boko Haram – il pericolo di un imminente genocidio era stato evocato, con un accorato appello al governo e al presidente della Nigeria, anche da alcuni esponenti della Federazione luterana mondiale e del Consiglio ecumenico delle Chiese.
Da segnalare poi la dura presa di posizione di Gideon Para-Malla, pastore della Evangelical Churc Winning All, una delle più numerose del tormentato Paese africano. Egli aveva denunciato non solo gli attacchi sistematici e la distruzione dei villaggi cristiani, ma soprattutto rapimenti e stupri a cui venivano sottoposte le donne, spesso ridotte alla condizione di schiave sessuali. Anche Para-Malla individuava come cause principali – e comunque collegate – da un lato l’espansione del fondamentalismo islamico di Boko Haram, dall’altro la radicalizzazione dei fulani. Pur precisando che in in qualche caso i fulani avevano colpito anche villaggi musulmani, riteneva che comunque la strategia principale fosse quella di “sradicare i cristiani”.

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In Nigeria, secondo la Croce Rossa, nell’ultimo decennio gli attacchi del gruppo islamista Boko Haram hanno provocato 27mila morti, 22mila dispersi e oltre 2 milioni di sfollati. Nel 2018 è stato il secondo Paese al mondo per numero di vittime da terrorismo, con 2000 morti. Ben 1158 tuttavia sono stati attribuiti non a Boko Haram ma agli estremisti fulani.

Altri osservatori invece non considerano prevalente il fattore religioso. La questione andrebbe analizzata come un’esasperazione dei tradizionali conflitti tra i pastori nomadi (i fulani) e le popolazioni cristiane principalmente dedite all’agricoltura. Sottolineando come l’area più interessata sia quella denominata Middle Belt, la fascia centrale del Paese particolarmente fertile e quindi contesa. Oltre che dei cambiamenti climatici (con periodi sempre più lunghi di siccità), l’esasperazione del conflitto sarebbe quindi una conseguenza della vera e propria esplosione demografica che ha caratterizzato la Nigeria negli ultimi anni: sono ormai stati superati i 200 milioni di abitanti, fattore da non trascurare pensando a quanto avvenne in Ruanda nel secolo scorso (1994).
In realtà, al di là della sterile contrapposizione, una cosa non esclude l’altra. Presumibilmente, tra radicalizzazione islamica e conflitti per le risorse, si va creando un pericoloso sinergismo destinato ad alimentarsi ulteriormente a causa del surriscaldamento planetario e della sovrappopolazione.