Che ne pensano gli intellettuali delle lingue locali? Sono favorevoli o contrari alla loro conservazione? Una interessante inchiesta di Walter Della Monica, di recente pubblicazione, si avventura tra le opinioni “che contano”.


Al ricevere questo libro di Walter Della Monica (I dialetti e l’Italia, inchiesta tra scrittori, poeti, sociologi, specialisti, Pan. ed., Milano,1981), giunto per la cortesia dell’autore, mi sono ricordato che, tempo fa, gli avevo risposto per lettera su alcune domande inerenti all’argomento. Ma ora non saprei ciò che mi aveva chiesto, mentre le risposte, o almeno una parte di esse, le leggo, riconoscendone lo spirito, in questo volumetto. Dunque, deve essere trascorso qualche anno e ce lo dice l’autore stesso nell’introduzione, facendo partire dal 1973 le prime intenzioni del lavoro. Quando si scrive su una materia come questa, o l’autore o il curatore ha in cuore e nella mente una determinata linea o si attiene all’imparzialità. Nel primo caso, generalmente, l’ideologia dell’autore si manifesta nella formulazione delle domande e influisce sulla presentazione delle risposte. Qui il Della Monica ha un suo giudizio sulle «scuole… hanno ritardato non poco la conclusione del nostro lavoro… segno è che il problema… era evidentemente marginale rispetto a tutti gli altri problemi della scuola. Vale a dire superato dalla realtà storica di oggi, dall’evidenza dei fatti». E poi: «… è certo che con l’uso di un linguaggio o gergo comune… al posto di oltre un migliaio di dialetti o subdialetti… ha inizio la vera unità dell’Italia non solo politica o geografica. Tutto il resto (ma a nostro giudizio, un patrimonio di lingua e di cultura che rappresenta ciò che di più prezioso i nostri vecchi ci abbiano consegnato) ci sembra un nostalgico e molto spesso solitario ritorno a un passato che non c’è più… un rimpiangere il paradiso perduto di una presunta età felice. Con il rischio, magari, di alimentare una specie di separatismo linguistico e culturale…». Cultura, pertanto, “giunta lentamente e naturalmente a consunzione”, mentre “una più rapida omogeneizzazione linguistica nazionale” si presenta “non solo un’auspicabile ma un’irrinunciabile e improrogabile necessità”.

A questo punto, Della Monica chiarisce che non si deve giungere a “spezzare definitivamente quel sottilissimo filo che ancora lega non pochi di noi, e non pochi giovani, alla propria matrice linguistica dialettale”. Ma… “non si può neppure ignorare la tesi che tende gramscianamente ad attribuire un segno negativo alla dialettalità, intesa come paesanità con effetti frenanti sulla formazione di una cultura nazionale”. Oltre a ciò, bisogna tenere conto dell’importanza di studiare, anche nelle elementari, un’altra lingua europea e allora, secondo Della Monica, o cosi ci sembra di capire, il dialetto o, come sosteniamo noi, la lingua regionale, è meglio lasciarlo fuori dalla scuola.

Questa premessa farebbe pensare che pure le risposte degli intervistati, “scrittori, poeti, sociologi, specialisti”, non si siano allontanate dal commento che le precede e che parrebbe compendiarle. E un lettore come noi parte già scoraggiato, ma presto si rallegra, trovando, al contrario, tanti amici, mentre i giudizi cattivi, almeno dal nostro punto di vista, rappresentano nettamente una minoranza.

Ma iniziamo appunto da quelli che abbiamo definito giudizi cattivi.

Alla domanda se un nuovo interesse ai dialetti può caratterizzare una nuova cultura, lo scrittore Goffredo Parise risponde che i dialetti, in pochi anni, si sono ridotti a pezzi da museo nazionale popolare. Lo stesso Parise, rispondendo se stima positivo o negativo l’abbandono del dialetto da parte dei giovani, si dichiara contrario nel nome dell’unità linguistica italiana. Mario dell’Arco, poeta romano, valuta di nessun peso sulla cultura del giorno d’oggi la conoscenza e la praticità dei dialetti e, naturalmente, il loro abbandono.

Eugenio Montale sostiene che il dialetto nella poesia è molto artificiale, che non conosce giovani che pensino in dialetto, che in casa ha sempre parlato il genovese e dopo non più, non essendoci più casa sua.

Per il dialettologo Manlio Cortelazzo, i dialetti hanno sempre dato poco all’italiano e meno daranno nell’avvenire. Per lo scrittore Giuseppe Berto, veneto, i dialetti, salvo alcune eccezioni in poesia, possono al massimo mirare a far ridere, non all’umorismo. Secondo il critico letterario Mario Sansone, spariti i dialetti, l’Italia sarà una nazione con una nuova cultura e avrà una sua lingua unitaria, capace di soddisfare tutte le necessità, in senso sociale, culturale, artistico e pragmatico. A dire dello scrittore Carlo Castellaneta, in un mondo dove si tende sempre più a cancellare i confini linguistici, i dialetti rappresentano soltanto un ostacolo. Lo scrittore Sandro Zanotto argomenta che i dialetti sono ormai lingue morte e che il loro ritorno riguarda unicamente le persone di cultura, allo stesso modo, per esempio, del latino del ’400; i dialetti rispondevano a una realtà regionale che non esiste più se non come folclore, o come la moda per il rustico…, d’altra parte i giovani se ne vergognano.

Secondo l’editore Ugo Mursia, è un bene che i giovani facciano affidamento sull’italiano, invece che sui dialetti. Contrari sono i poeti e critici letterari Sergio Solmi e Giuseppe Prezzolini: “Se l’Italia potesse formarsi nazionalmente anche a costo di non usare più i dialetti, non credo che la perdita sarebbe più importante del guadagno”. Per il prof. Alfonso Leone, la scuola non può permettere ai giovani di parlare il dialetto e deve pretendere che parlino italiano. Per il professor Alfonso Stussi, “L’abbandono dell’uso del dialetto da parte dei giovani è sempre necessario… considero inevitabile la sempre maggior italianizzazione, e in definitiva la scomparsa dei dialetti”. E il professor Umberto Pirotti: «… piuttosto che adoperarsi per una reviviscenza dei dialetti, converrà affaticarsi perché sia appresa convenientemente la lingua». La prof. Elisabetta Fioravanti, senese, non crede che la giusta difesa della cultura popolare debba passare attraverso un perpetuarsi artificioso delle espressioni dialettali. È appunto tra i professori di italiano delle regioni centrali che trovi la più larga contrarietà ai dialetti.

E gli studenti: «L’influenza dialettale, si diceva in famiglia, sarebbe risultata nociva ai miei studi» (studentessa di Genova); «… il dialetto … è più adatto per essere parlato che scritto o letto» (studente di Trieste). Saltiamo qualche altra opinione orientata al no, per ultimare la citazione dei contrari proprio con uno studente di Cagliari: «sono convinto che far assurgere al rango di lingua il dialetto sardo, che presenta varie forme di diverse provenienze, significa isolare ancora più la nostra terra dal resto d’Italia». Come molti sanno, sono appunto il Consiglio e il Governo regionale della Sardegna che quest’anno si sono mossi di più per la difesa della lingua regionale, più delle altre regioni a statuto speciale o ordinario.

“Testimonianza viva”

Ma veniamo adesso ai giudizi favorevoli, che riscontriamo più numerosi degli altri. Nell’impossibilita di riportarli tutti, cerchiamo di presentarne un’esemplificazione.

Che peso può avere la conoscenza e la pratica dei dialetti nella nostra cultura? Un interesse nuovo ai dialetti potrebbe caratterizzare una nuova cultura? Leggendo le risposte a queste domande, a dire il vero troppo schematizzate, ci accorgiamo che sovente gli interessati contestano la domanda, con l’effetto di fornire giudizi allargati. Cosi, Corrado Grassi, professore all’università di Torino, sostiene che ciò che conta non è un nuovo interessamento ai dialetti, ma il ritorno alla cultura tradizionale da parte dei gruppi sociali che rischiano di esserne completamente spogliati. Grassi finisce dicendo che il destino dei dialetti è legato all’evoluzione socio-culturale e più ancora alla funzione di contestazione ideologica che dalle culture subalterne può essere mossa contro la cultura egemone, massificante e spersonalizzante. La sconfitta dei dialetti non è augurabile se questi si dimostrano in grado di portare avanti questa funzione.

A favore: Diego Valeri, il poeta Giorgio Caproni, la dialettologa Gabriella Giacomelli che dà un giudizio anticonformista: «È inevitabile che i dialetti diano ancora qualcosa alla lingua: ma questo non mi pare importante. L’essenziale è che si mantengano appunto come possibilità di scelta espressiva, come secondo (o terzo) registro». Lo storico Giancarlo Susini sottolinea che una lingua ufficiale è necessaria, ma «perché contrastare, combattere, impedire la legittima espressione nella propria lingua, cioè nel dialetto, quando questo è tanto vivo che urge dentro e prorompe?».

A favore il poeta gradese Biagio Marin e il poeta siciliano Ignazio Buttitta. Il primo: «… la diversità psichica, quella delle tradizioni delle popolazioni italiane, non è facile farla sparire. La monotonia spirituale significherebbe meno vita». Il secondo: «I mediocri non parlano il dialetto; la maggioranza della gente lo parla… ho imparato anche l’italiano, è necessario; lo parlo ma sotto c’è il sangue vivo del dialetto. L’uomo che non parla il dialetto perde la sua identità: si snatura».

Secondo Federico Fellini, il dialetto non è soltanto un patrimonio lessicale: è una qualità, l’uomo in grado di scandire il suo rapporto con la realtà, accendendo metafore, facendo dell’immaginifico.

Per Giorgio Strehler, i dialetti sono ancora la testimonianza più viva della nostra storia, l’espressione della nostra fantasia. E Mario Soldati: «Ritengo estremamente negativo l’abbandono del dialetto. Si dovrebbe essere pessimisti, ma ci sono dei segni… incoraggianti di ripresa… il cinema…». A favore lo scrittore di teatro Massimo Dursi e Edoardo De Filippo, i critici Claudio Marabini e Geno Pampaioni, lo scrittore Carlo Sgorlon. Questi, che abbiamo conosciuto ad un incontro di ARC, associazione fondata a Udine per la difesa della civiltà alpina, dice: «Perché i giovani fossero in grado di distinguere veramente le strutture delle due lingue (regionale e statale), e non le contaminassero, bisognerebbe che le studiassero a fondo entrambe».

La lista dei favorevoli prosegue con il giornalista Paolo Monelli, Gino De Sanctis e Vittorio G. Rossi (« i giovani fanno malissimo ad abbandonare il dialetto; ma i giovani credono che, per essere moderni, bisogna rompere il collegamento coi morti. E chi rompe il collegamento coi morti torna alla barbarie»). La linguista M. Luisa Altieri Biagi pensa che i dialetti potranno essere salvati dalla “nostalgia” delle classi superiori culturalmente e socialmente rivolta a sistemi linguistici abbandonati dal popolo e quindi a disposizione per un’azione di alta cultura. A favore: gli scrittori Piero Chiara e Massimo Grillandi, il poeta Rodolfo Quadrelli, il critico Ferruccio Ulivi («… il dialetto mi sembra il punto più alto della partecipazione linguistica»), etc…

Notiamo ancora i giudizi a favore del linguista Giuseppe Francescato, degli scrittori Riccardo Bacchelli, Italo Zingarelli e Mario Rigoni Stern, del poeta Andrea Zanzotto, che vede i rapporti tra i dialetti e l’Europa; poi, Carlo Bo, Vittorio Sereni, Danilo Dolci, Giuseppe Longo («… i nostri (dialetti) italiani hanno caratteristiche di vere e proprie lingue … conoscerle, cioè leggerle, è un accrescimento della propria cultura»). Poi ancora, Franco Loi, Maria Teresa Atzori, Francesco Coco, Ernesto Giammarco (« Se il dialetto è stato ed è una lingua di cultura — piemontese, lombardo, veneziano, genovese, romagnolo, toscano, romano, napoletano, calabrese, siciliano — troverà nella tradizione e nella coscienza dei dialettofoni la sua sopravvivenza … Se il dialetto non vanta né un passato né un avvenire, ineluttabilmente sarà preda di un italiano regionale, naturalmente diverso dalla lingua di cultura nazionale»).

Dopo il linguista G. Battista Mancarella, la lista dei favorevoli si allunga con Gianni Papini («il destino dei dialetti dipenderà quindi dalla volontà socio-politica, e quindi pedagogica, di chi governerà gli italiani»); G. Battista Pellegrini che argomenta in modo molto interessante: «Per ovviare a tale pure falsissima opinione (le lingue italiane diverse dal toscano, declassate a dialetti), non sarebbe inopportuno di riprenderne anche per le parlate popolari la definizione tradizionale sino al ’700 di “lingue”. Purtroppo non è difficile constatare quante siano in Italia le “lingue tagliate”, — un numero infinitamente superiore a quanto è stato recentemente supposto — …».

Il Pellegrini ricorda, tra le lingue e le culture in fase di risveglio, prima la friulana, poi la sarda, la piemontese, la romagnola, l’abruzzese, etc. Riferiamo anche il giudizio del professor Concetto Rossitto: «… i maestri delle elementari e i professori delle medie impongono l’uso della lingua (italiana), cercando di far disimparare il dialetto… e si fa strada e si rafforza, in questo modo, l’ingiusta convinzione che il dialetto sia qualcosa di volgare …, di grossolano e che, dunque, il suo uso sia indice di rozzezza…».

Questo nostro commento non poteva che essere assai lungo, ma i lettori maggiormente interessati all’argomento faranno bene a procurarsi il libro, che rompe un silenzio che durava già da troppo tempo.