Il punto di vista del rappresentante in Europa del movimento quechua  “Pedro Vilca Apaza”.

Dopo la Seconda guerra mondiale, l’Europa, alle prese con la crisi economica, scossa dalle contraddizioni e dalle tensioni sociali e politiche conseguenti, non ha modificato in modo radicale la sua influenza ed il suo potere coloniale nei paesi colonizzati. Tale situazione ha condizionato il propagarsi e l’interpretazione di alcuni concetti relativi alle scienze sociali (sociologia, antropologia culturale, ecc.) divenuti unici modelli dello sviluppo sociale dei paesi “sottosviluppati”.

Le Scienze sociali studiano cosi tutti i valori culturali dei gruppi etnici riferendosi costantemente ai valori occidentali. E tali modelli, con la mediazione dei poteri economici ed ideologici, si sono imposti omogeneamente in tutto il mondo. Così, a poco a poco, l’Occidente si è sforzato di far scomparire l’insieme storico-sociale dei popoli di Africa, Asia, e dei popoli indiani della cosiddetta “America Latina”. L’indigenismo culturale latino-americano si è presentato all’inizio del XIX secolo (all’epoca cioè dei movimenti repubblicani secessionisti dagli imperi metropolitani europei) come il continuatore dell’azione civilizzatrice nei confronti dei popoli indiani, poiché i latino-americani, proprio come i loro antenati spagnoli, non potevano concepire di inquinare la purezza del loro sangue unendosi al settore indiano ed impuro della società. Gli Indiani, le loro comunità e le loro organizzazioni, sono sempre al loro posto, presenti, con la loro forza e con la loro debolezza. La terra resterà sempre la “Pacha Mama”(madre-terra), l’indianismo conserverà sempre il suo pensiero cosmico.

L’oligarchia locale e il suo problema nazionale

Uno degli obiettivi dei latino americani, per istituzionalizzare il colonialismo interno in America Latina, è quello di “stereotipare”i popoli indiani sul modello di semplici culture passatiste a vantaggio, invece, della necessità di acculturare ed integrare l’indiano nel modello “superiore” della civiltà occidentale. Così, alla fine del XVIII secolo ed al principio del XIX, si assiste alla nascita di numerosi partiti politici, di agenzie di socializzazione religiose ed umanitarie che comporteranno a loro volta la formazione di una élite locale di intellettuali, scienziati e tecnici, determinata a conservare ad ogni costo i propri privilegi colonialisti, sia nell’ambito di una pretesa democrazia, sia in quello delle dittature militari. In Perù, J. C. Mariategui, uno degli ideologi della sinistra latino-americana, diceva: “Ho fatto in Europa il mio migliore apprendistato, e ritengo che non ci sia salvezza per l’America indiana senza la scienza ed il pensiero europeo od occidentale”. (1) “In Europa, sono rimasto gradevolmente colpito ed ammirato quando ho letto per la prima volta le lezioni di filosofia della Storia Universale di Hegel”. (2) Questo modo di pensare è bastato agli intellettuali ed ai politici latino-americani per sviluppare un atteggiamento paternalistico nei confronti dei popoli indiani e per manipolarli, all’interno come all’esterno, al punto di rendere inaccettabile che un indiano diventi leader di un’organizzazione sindacale o politica. Se ci riesce, è perché egli ha accettato di essere strumentalizzato dalla sinistra o dalla destra latino-americane: il costo è la perdita della propria identità indiana. Si è visto il caso di Genaro Flores e di Domitila B. de Chungara del Movimento rivoluzionario Tupak Katari (MRTK) in Bolivia. Se l’indio rifiuta di lasciarsi manipolare, sarà subito tacciato come razzista, anti-bianco, o agente dell’imperialismo. È evidente che il latino-americano non può mettere in causa l’Occidente, e che gli è molto più comodo imporre all’indio le referenze occidentali. Oggi che l’immagine rivoluzionaria marxista-leninista ha deluso l’opinione pubblica internazionale con i casi del proletariato polacco, del popolo afgano, la cosiddetta “America Latina” resterà dunque la sola speranza del socialismo? Recentemente, a Rotterdam, gli organizzatori del 4° Tribunale B. Russell, come commissione per il progetto indiano (Work Group Indian Project – Wip), hanno ufficialmente invitato rappresentanti di organizzazioni e specialisti latino-americani ad essere giudici e parti in causa al tempo stesso. Tuttavia le organizzazioni indiane non furono invitate, ad eccezione di quelle dell’America del Nord, e ciò perché faceva comodo utilizzarle da sinistra come arma contro l’imperialismo. (3)

Allo stesso modo, in occasione della Conferenza Internazionale delle Organizzazioni Non Governative (ONG) che ebbe luogo a Ginevra nel settembre 1981, il privilegiato fu il governo sandinista del Nicaragua. Con il pretesto di torbidi alla frontiera nel Nord del paese, i Sandinisti profittarono per “trasferire”circa 10.000 indiani Miskito verso il centro del paese, e giustificano il massacro dei dirigenti Miskito definendolo un “errore”. (4) E cosi, il governo del Nicaragua sarà un modello per gli altri governi dei paesi d’America Latina dove ci sono ancora degli Indiani. Questa situazione non ha impedito ai popoli indiani di rafforzare le loro strutture politiche e la loro lotta di liberazione nazionale. In Messico, l’élite intellettuale di sinistra, convinta della forza dei popoli indiani, si spaventa dei propri errori, ossia di non aver tenuto conto degli Indiani nel suo schema di lotta. Cosi, gli osservatori occidentali dei popoli Indiani invocano un volta di più una nuova nazione latino-americana, sostenendo che “è il momento di porsi la questione nazionale”. (5) E’ evidente che le frontiere imposte ed ereditate dalla colonizzazione avevano diviso i gruppi etnico-culturali, distruggendone la coesione (e questa coesione non è stata più ripristinata) e provocando così torbidi e tensioni politiche, anche a livello culturale. In Messico, Guatemala, Ecuador e Perù, la popolazione indiana è il 75%; in Bolivia è l’80%. Come poter legittimare, dunque, il radicamento dei latino-americani in una nuova ed ipotetica nazione sullo spazio storico e culturale dei popoli indiani? Questi Indiani non vogliono essere integrati in “nazioni” venute dal colonialismo… È vero: per i latino-americani il problema nazionale non è spinoso soltanto nell’aspetto pratico, ma anche fondamentalmente in quello teorico. Così non è invece per i popoli indiani, poiché essi hanno resistito a tutti i progetti di genocidio e di etnocidio sulla loro terra.

Gli Indiani non hanno mai pensato, come i latino-americani, che il problema nazionale si sarebbe risolto con l’indipendenza. Invece, i latino-americani, giustificati dal capitalismo e dal socialismo, hanno “garantito” gli stati-nazione latino-americani, al punto di determinare nel popolo un sentimento di disprezzo per le tradizioni e le culture dei Maya, Inca, Mapuche, Guaymis, ecc. D’altra parte, gli studiosi occidentali di scienze sociali, “specialisti” degli Indiani, hanno giocato il ruolo di “mediatori profetici” e hanno portato una verità già invocata dal colonizzatore. Tutt’al più, denunceranno con rimorso le ingiustizie di cui sono vittime gli Indiani. Così facendo, gli specialisti trasformano la realtà concreta dell’uomo indiano in oggetto di studio astratto. Oggi le organizzazioni indiane affermano nei loro Congressi: “Là dove il popolo indiano è maggioritario, l’autodeterminazione è la sua immediata finalità. E là dove è minoritario, l’autonomia è il suo diritto”.(6)

Lotta di classe: manovra coloniale

Per i popoli indiani dell’America del Sud i fatti sono chiari; bisogna recuperare la sovranità territoriale e nazionale del Tawantinsuyu, (7) risolvere il problema delle frontiere ereditate dal cononialismo per via diplomatica con il governo spagnolo, così da permettere la riunificazione dei gruppi apparentati che erano stati divisi nel Tawantinsuyu tra l’Ecuador, il Perù e la Bolivia. Infatti, le divisioni territoriali sono state effettuate senza il consenso ed a detrimento degli Indiani; “Per ordine di Madrid, l’Ecuador aveva perduto 370.000 Kmq; poi, dovrà cederne ancora 81.000 alla Colombia,181.000 al Perù. 60.000 al Brasile, e poi ancora nel 1916, 175.000 alla Colombia… ”(8) Don Bartolomeo della Casa, (9) all’epoca del colonialismo spagnolo, chiede agli Indiani di trasformarsi in cristiani per vivere meglio. Oggi, antropologi, sociologi, teorici del marxismo pieni di democratiche buone intenzioni, preferiscono convertire gli indiani al proletariato, alla classe dei contadini ed alla borghesia. Si studieranno allora le attitudini ed i valori di certe comunità indiane, i legami matrimoniali e la filiazione sociale, sino a far apparire le cerimonie rituali delle comunità come segno di classe. La lotta di classe sarà teorizzata e diffusa in tutta l’America Latina come parte della storia universale e unica dinamica della liberazione dall’imperialismo. Malgrado i loro studi scientifici, le loro teorizzazioni e la recita delle liturgie, delle citazioni ortodosse, i latino-americani non hanno ancora capito che l’indiano di Perù, Ecuador, Bolivia esiste tuttora grazie a mille piccoli mestieri nel commercio, nell’artigianato, nell’edilizia; costituisce una mano d’opera precaria ed a buon mercato per gli “industriali”. D’altra parte, non si deve dimenticare che in Messico i colonizzatori hanno tentato di creare un clero locale d’origine indiana, e che in Perù, degli Indiani sono stati nominati parroci, in modo da poter stipulare delle alleanze sociali. I latino-americani dovranno capire che, malgrado essi si considerino come razzialmente dominanti e siano pieni di pregiudizi dal punto di vista politico, sono anch’essi vittime del colonialismo culturale dell’Occidente. La lotta di liberazione dei popoli indiani è una lotta di civiltà, e non una lotta di classe. Non si tratta nemmeno di trasformare la società latino-americana in una società omogenea, ma di decolonizzare il sistema latino-americano nel Tawantinsuyu, e di ricostruire le istituzioni indiane tuttora vitali in ogni comunità. Il Parlamento Indiano e la Confederazione degli Ayllus (dipartimenti) e delle Comunità daranno il potere di esercitare l’aspirazione dell’uomo ad approfondire l’interrelazione socio-culturale dei popoli.

L’Indiano non incarna altra finalità storica che quella derivante dalla sua civiltà, dal suo pensiero: l’indianismo. Se noi definiamo la nostra civiltà o la nostra ideologia con il termine di indianismo, è perché la resistenza indiana esiste dall’arrivo degli Spagnoli nelle Americhe, e perché non si deve confonderlo con quello dell’“indigenismo” culturale latino-americano di Mariategui o di altri, che appare come un fenomeno sociale di classe, o come origine dell’indianismo. La verità è che l’indigenismo latino-americano presenta tutte le caratteristiche di una discarica culturale su cui si sono innestate tutte le malefatte del colonizzatore come fenomeno sociale, così da determinare nell’indiano un complesso di frustrazione. “Il Perù deve la sua disgrazia a questa razza indigena che è giunta, nella sua fisica dissoluzione, ad ottenere la rigidità ideologica degli esseri che hanno chiuso definitivamente il loro ciclo di evoluzione e che non hanno ottenuto dall’incrocio razziale le virtù proprie delle razze che sono nel periodo del loro progresso”.(10) L’indianismo, nella lotta politica degli Indiani, ha ormai una parola d’ordine: “Se Indiani fu il nome con il quale ci avete sottomesso, Indiano sarà il nome con cui ci solleveremo”. (11) “Noi riaffermiamo l’indianismo come base ideologica dell’azione politica”, hanno detto i movimenti indiani in occasione del 1° Congresso di Ollantay-tambo (Cuzco, Perù), nel marzo 1980. L’indianismo, come ideologia e come elemento cosmico, costituisce la continuità del pensiero indiano; è l’uomo e l’universo; è l’interpretazione della vita comunitaria; è la realtà che noi viviamo in rapporto alle manifestazioni della nostra civiltà, e non in rapporto al culto reso a Bartolomeo della Casa, al Che Guevara, Lenin e Marx, ecc. Che valore può avere in America Latina, quando si vedono i “rivoluzionari” argentini, seguiti dai Cubani, sostenere unanimemente il fascismo argentino a proposito della questione delle Malvine? Per finire vediamo affondare quei miti così largamente costruiti al servizio del colonialismo interno.

Oggi, la lotta indiana invita i latino-americani a prospettare l’ideologia indiana, “indianismo”, come una possibilità per far fronte al colonialismo culturale dell’Occidente ed al loro oppressore economico, e non come un’ideologia imposta dalla lotta di classe. La lotta di classe come scienza e punto di partenza del ragionamento marxista è un semplice conflitto ideologico tra alleati. Come diagnostica sociale, non interpreta e non esplica l’identità ed il contenuto storico e sociologico dei popoli indiani. Il ritorno alle nostre istituzioni economiche, l’autogestione economica della nostra comunità costituiscono una realtà vissuta e non un’utopia, nella misura in cui l’economia industriale od agraria del nostro popolo riesce a soddisfare armoniosamente le necessità sociali ed individuali in ogni sfera comunitaria senza perturbare l’innovazione tecnologica, gestendo la nostra economia non come fatto essenziale della vita sociale. Ciò non significa che si debba rifiutare, per esempio, lo sviluppo dell’elettronica, ma che tutti gli scambi internazionali debbono essere in rapporto con attività tali da non confondere lo sviluppo e la produzione con l’equilibrio cosmico della vita; non un’economia per distruggere la civiltà dei popoli e sterminare l’umanità. Tutto ciò non è una ragione sufficiente perché gli strateghi colonialisti d’Europa facciano apparire la lotta di liberazione nazionale dei popoli indiani come un “risveglio indiano”, o come “il dramma degli Indiani… ed il suo sfruttamento politico”; e in America Latina non c’è mai stata una fioritura locale di pensatori capaci di interpretare l’originalità economica e politica del loro preteso sistema latino-americano: ci sono stati soltanto degli imitatori che attraverso il sentimentalismo marxista hanno postulato uno Stato immaginario.

 

La vergogna del Sole

Qori-Kancha Willaq-Uma kausarimunman, kutimunmantaq Jamaut’akum,

Inti taitas ichapas p’enqasqa sasawan illimunman Q’enqomanta, Teqsi-Muyu

ailluq ranakunata mistiq salqachasqanta rikunman, samp’aman kutirisqtan

tarinman, ancha kusichus tiyanman…

(…Si risveglieranno i sacerdoti del Sole e i saggi torneranno, da Qenqo il Sole sorgerebbe rosso di vergogna come non mai, trovando gli uomini più imbarbariti per colpa degli Spagnoli, e mai potrebbe rallegrarsi scoprendoli afflitti e sottomessi. ..)

J. de la Cruz Salas i S. (da Machu Picchu, Cuzco, Perù, 1962)

 

Note

(1) José C. Mariategui, Siete Ensayos de Interpretacion de la Realidad Peruana.

(2) Victor R. Haya de la Torre, Espacio Tiempo Historico, in “Documentos ABC Revista Independiente”, junio 1980, Lima, Perù. Haya, nella sua azione

antiimperialistica, in Messico nel 1928 ha fondato l’Alleanza Popolare per la Rivoluzione Americana (APRA), partito che si è involuto al punto da rappresentare oggi la destra peruviana.

(3) Il “jury” del 4° Tribunale B. Russell era composto da 11 persone: 4 dell’America del Sud, 1 del Messico, 1 dell’America del Nord, 3 dei paesi d’Europa, e completato all’ultimo momento dal leader indiano Xavant Mario Juruna (Brasile). (Rotterdam, dal 24 al 30 nov. 1980).

(4) Roxanne Dumbar Ortiz, El pueble Miskito en el Proceso Revolucionario de Nicaragua. E inoltre: Gustavo Buratti, Indios, una speranza tradita, in “Etnie”, 1983, n. 5.

(5) “Le  Monde Diplomatique”, mars 1982, Le Réveil des Indiens d’Amérique Latine. Yvon le Bot, Des partenaires exigeants pour la gauche.

Marie Chantal Barre, De l’Indigénisme à l’Indianisme.

(6) Documentos: Conclusiones 1 ° Congre- so de Movimentos Indios de Sud-America, Cuzco, Perù, 27 febrero al 3 de marzo 1980.

(7) Tawantinsuyu è l’antico nome del territorio Inca, che comprendeva gli attuali Stati dell’Ecuador, Perù, Bolivia e di alcune regioni del Cile, Argentina e Colombia.

(8) Christian Rudel, Amérique latine; des kilométres de frontìères à litige, in “La Croix”, 30 juin 1982.

(9) Bartolomeo della Casa; all’epoca il più avanzato tra i colonizzatori, difensore della giustizia per gli Indiani, ma ciò non gli ha impedito di cristianizzarli a profitto del sistema coloniale dell’Occidente.

(10) A. Labrousse, Invasions des terres sut les hauts plateaux péruviens. In “Le Monde Diplomatique”, mars 1980.

(11) Idem.