Quando le colpe dei figli ricadono sui padri

C’è qualcosa di morboso, ossessivo, direi maniacale nel modo in cui alcuni regimi, dopo averne assassinato – o fatto assassinare – le figlie e i figli, perseguitano madri e padri.
In Iran Mahsa Yazdani, madre di un giovane ammazzato nel 2022, è stata condannata complessivamente a 13 anni di carcere dal tribunale “rivoluzionario” di Sari (capoluogo della provincia di Mazandaran) per aver “insultato i valori sacri” e “incitato il popolo a nuocere alla sicurezza nazionale”. Altre accuse: “Attività contro la Repubblica Islamica d’Iran” e “insulti alla Guida Suprema”.
Arrestata il 22 agosto 2023 e rinchiusa nella prigione di Sari, veniva poi messa in libertà provvisoria in attesa del processo.
Suo figlio, il ventenne Mohammad Javad Zahedi Saravi, era stato ucciso dalle forze di sicurezza il 22 settembre 2022 durante una manifestazione di protesta per la morte della giovane curda Jina Mahsa Amini.
Altrettanto paradossale la vicenda del padre di Leyla Şaylemez, una delle tre donne curde assassinate a Parigi il 9 gennaio 2013. Abdulbari Şaylemez è stato a lungo inquisito (per oltre cinque mesi, un’autentica persecuzione) e poi processato per “propaganda in favore del pkk”. In realtà nel gennaio 2017 aveva soltanto assistito a una commemorazione a Parigi, su invito delle autorità francesi. Anche se alla fine è stato assolto, è apparso evidente come nei suoi confronti si fosse svolta una sorta di crudele ritorsione.
Leyla Şaylemez era un’esponente del Movimento della gioventù curda e venne trucidata insieme a Sakine Cansız (tra i fondatori del pkk) e Fidan Doğan (esponente del knk). Il loro assassino, un infiltrato presumibilmente manipolato dal mit, era deceduto in carcere alla vigilia di un processo sistematicamente rinviato. Fino a ora nessuno è stato ulteriormente inquisito, tantomeno condannato per tale delitto (sicuramente un’operazione di “guerra sporca” da manuale).
Il 31 ottobre, giorno in cui si è svolta l’udienza nel tribunale penale di Diyarbakir, Abdulbari Şaylemez ha dichiarato: “Mia figlia Leyla è stata assassinata in un attentato terroristico a Parigi. Il 7 gennaio 2017 ho assistito a una cerimonia di commemorazione, su invito del sindaco di Parigi, per rendere omaggio a mia figlia e non penso che ciò costituisca un crimine”.
Aveva poi ricordato come, in attesa del processo, gli fosse stato impedito di lasciare la Turchia, nonostante il suo lavoro lo portasse spesso in Germania.
Dai video presentati in tribunale si comprendeva come l’uomo non avesse scandito slogan di qualsiasi genere. Tanto che alla fine la corte non ha potuto fare altro che assolverlo.