Il 29 febbraio di ventotto anni fa si concludeva il terribile assedio della città di Sarajevo, il più lungo della storia europea dopo la fine della seconda guerra mondiale: era iniziato il 5 aprile 1992 per la guerra scoppiata in seguito alla proclamata indipendenza della Bosnia Herzegovina dalla Serbia di Milosevic, il quale non voleva rinunziare a nessuna parte del territorio della vecchia Federazione Iugoslava. Erano trascorsi appena due mesi da quando quell’autonomia era stata dichiarata unilateralmente dalla maggioranza dei bosniaci (di fede musulmana), ma l’inizio dell’assedio della città ebbe intanto l’effetto di ottenere il riconoscimento della comunità internazionale avvenuto l’indomani, il 6 aprile 1992.
Ma se parliamo ancora oggi di quel triste evento e vogliamo riportarlo alla memoria, è perché l’assedio di Sarajevo provocò nei quattro anni più di dodicimila vittime e oltre cinquantamila feriti, nella quasi totalità tra i civili assediati dalle truppe di Belgrado e dalle forze serbo-bosniache del vrs, che miravano a distruggere il neo-indipendente Stato bosniaco e creare una sorta di regione autonoma o di repubblica serba nel territorio bosniaco come Stato satellite della Serbia. Ma ne parliamo anche perché un’altra guerra sta dilaniando l’Europa, una guerra nella quale a essere assediata non è solo una città ma un’intera nazione: l’Ucraina.

Quel tragico assedio durato quattro anni

Non era la prima volta che Sarajevo si poneva al centro della storia europea, dato che proprio qui era avvenuto nel 1914 l’assassinio dell’erede al trono dell’Impero Austro-Ungarico, l’arciduca Francesco Ferdinando, per mano di un anarchico, Gavrilo Princip. L’Austria attribuì la responsabilità dell’attentato alla Serbia e, incalzata dalla Germania, un mese dopo le dichiarò guerra, dando inizio con una reazione a catena alla prima guerra mondiale.
Il triste ricordo di quell’episodio storico ebbe l’effetto di dare ancora maggiore attenzione mediatica all’assedio di fine ‘900, nonché a una guerra che, sviluppandosi nuovamente nel cuore dell’Europa ben al di là dell’area balcanica, correva il rischio di allargarsi ad altri fronti, con scenari ben più gravi e drammatici, anche per la storica “amicizia” tra Serbia e Federazione Russa.
L’assedio avvenne con l’occupazione delle colline che circondavano Sarajevo, comportando il completo isolamento della città e delle sue periferie per mano delle forze serbo-bosniache coadiuvate dall’esercito serbo. Furono infatti tagliate tutte le principali strade che conducevano in città, e quindi anche le vie d’accesso non solo per i rifornimenti militari ma soprattutto per i viveri e le medicine per la popolazione civile rimasta intrappolata al suo interno senza possibilità di fuga.
Falliti alcuni tentativi iniziali di assaltare la città con le colonne corazzate dell’esercito, furono tagliate dai serbi anche le linee di rifornimento dell’acqua, dell’elettricità e del gas, necessario per il riscaldamento nei freddissimi inverni balcanici, al fine di indurre a una rapida resa i bosniaci prigionieri all’interno della città.
Proseguiva intanto, dai vari bunker costruiti dai serbi tra le montagne tutt’attorno all’abitato, il continuo cannoneggiamento degli edifici, delle moschee e dei monumenti simbolo della storia e della cultura bosniaco-islamica – primi tra tutti l’edificio della Biblioteca Nazionale e quello dell’Istituto Orientale che conservava una delle più ricche collezioni di manoscritti orientali al mondo – oltre ai continui attacchi alle sue strutture sanitarie.


E mentre alcuni quartieri della città, come Novo Sarajevo, finirono conquistati dagli attaccanti, le Nazioni Unite ottennero di insediare una loro forza di interposizione presso l’aeroporto della città che, rimanendo in zona neutrale, divenne l’unico spiraglio logistico per provare a fornire assistenza ai civili e qualche possibilità di sopravvivenza alla città assediata e martellata notte e giorno dalle artiglierie serbe.
I rifornimenti dell’onu, in realtà, insieme ad alcune armi contrabbandate dagli insorti, iniziarono però da quel momento a giungere in città attraverso un tunnel scavato sotto le linee serbe che partiva proprio dalle vicinanze dell’aeroporto, nel sobborgo di Butmir. Il tunnel, che permetteva di addentrarsi all’interno della città, fu la principale via di rifornimento per gli assediati per resistere così a lungo alle truppe serbe, aggirando peraltro l’embargo internazionale di armi che nel frattempo era stato votato dalle stesse Nazioni Unite; ma bastò per permettere anche alla popolazione di sopravvivere o in alcuni casi di scappare mettendosi in salvo. Per questo si disse che quel tunnel aveva salvato Sarajevo.
In quegli anni fu pubblicata persino una guida, realizzata dal collettivo fama composto da Miroslav Prstojević, Željko Puljić, Maja Razović, Aleksandra Wagner e Bora Ćosić, diventata oggi un oggetto di culto (su alcuni siti web si trova, usata, a cifre stratosferiche); il piccolo libro, in formato tascabile e con meno di cento pagine, era stato scritto proprio come guida per la sopravvivenza della popolazione nella Sarajevo assediata, con tutte le indicazioni per proteggersi dai colpi di artiglieria, per evitare il tiro dei cecchini, per trovare cibo e acqua, per ripararsi dal gelo dell’inverno, eccetera.
Sfogliandone qualche pagina si può leggere: “Se decidi di andare a Sarajevo, sii preparato e maturo. Potrebbe rivelarsi la decisione più importante che tu abbia mai preso nella vita”. Quanto ai consigli, eccone alcuni: “Porta con te buone scarpe che ti facciano camminare a lungo e correre veloce, pantaloni con molte tasche, pillole per l’acqua, i marchi tedeschi (piccole taglie), batterie, fiammiferi, vasetto con vitamine, cibo in scatola, bevande e sigarette. Tutto quello che porterai sarà consumato o scambiato per informazioni utili. Dovrai sapere quando saltare un pasto, come trasformare i problemi in scherzo ed essere rilassato nei momenti impossibili. Imparare a non mostrare emozioni e non essere pignolo su nulla. Sii pronto a dormire in scantinati, desideroso di camminare e lavorare circondato da pericoli. Rinunciare a tutte le tue abitudini precedenti. Utilizzare il telefono, quando funziona, ridere quando non funziona. Riderai un sacco. Disprezza, non odiare”.
La guida segnalava persino che al quarto piano di un palazzo viveva una donna che teneva con sé una mucca sul balcone, dove poteva scambiare un po’ di latte con qualche altra cosa da mangiare. Altre pagine della guida erano dedicate alla cultura (sì, proprio alla cultura!): si trovavano indicazioni di alcuni scantinati di periferia dove potevano essere allestiti addirittura spettacoli teatrali, letture pubbliche di libri e concerti musicali. La guida segnalava anche i possibili souvenir, il più gettonato dei quali era una scheggia di mortaio se non addirittura un proiettile di mortaio cesellato a mano da qualche abile artigiano!

Il tunnel sotterraneo che salvò la città,

In quei quattro anni molti furono gli assalti che coinvolsero civili indifesi: la più devastante strage avvenne per un attacco indiscriminato dell’artiglieria serba al mercato della città nel febbraio del 1994, passato alla storia come il “massacro di Markale”: solo in quel giorno morirono sessantotto civili e oltre duecento rimasero feriti. Un altro bombardamento sui civili che affollavano lo stesso mercato ebbe luogo l’anno successivo, provocando la morte di trentasette persone e il ferimento di altre novanta.
Ma a questo punto, la nato attaccò con l’aeronautica di vari Paesi i depositi di munizioni dei serbi e altri obiettivi militari strategici nell’operazione che fu definita “Deliberate Force”. Il cessate il fuoco definitivo fu raggiunto nell’ottobre 1995, e poco tempo dopo a Dayton venne siglato un accordo che pose fine alla guerra in tutta la Bosnia Herzegovina. Ma soltanto il 29 febbraio 1996 il governo bosniaco dichiarò formalmente la fine dell’assedio di Sarajevo.
Nel frattempo andavano emergendo i crimini di guerra perpetrati dalle forze serbe che avevano condotto una campagna di pulizia etnica nelle zone della città da loro occupate durante l’assedio.Vennero documentate violenze sistematiche e stupri di donne bosniache di fede musulmana dopo l’uccisione dei loro uomini; atti che furono poi oggetto di un lungo processo nel 2001 da parte del Tribunale Penale Internazionale con le condanne inflitte a vari comandanti serbi; mentre il presidente serbo Slobodan Milošević, anch’egli imputato per crimini di guerra, morì pochi anni dopo, mentre era ancora in corso il processo a suo carico sempre presso lo stesso Tribunale Penale Internazionale e prima che venisse emessa la sentenza.

Il Viale dei Cecchini durante l’assedio.

In realtà a Sarajevo, così come nell’intera Bosnia Herzegovina, durante l’assedio ci furono morti di tutte le fazioni e di tutte le fedi religiose, e nessuna delle forze belligeranti rimase immune da crimini perpetrati contro la popolazione civile che soffriva, moriva di fame o di freddo, o uccisa da bombe sparate da lontano, o dai colpi dei cecchini appostati sui tetti degli edifici più alti, come tutti quelli ammazzati con un colpo secco di fucile nel famoso “viale dei cecchini” (Zmaja od Bosne): era la larga strada che collegava (e collega ancora) la parte più moderna e industriale di Sarajevo all’aeroporto, con una sfilata di grattacieli che offrivano ampie possibilità di appostamento ai tiratori, che miravano alla popolazione in coda per l’approvvigionamento dell’acqua o per ricevere rifornimenti di viveri o medicine dai volontari delle Nazioni Unite o dallo sbocco del tunnel a tale scopo costruito.
Sarajevo non era stata una città qualunque: sviluppatasi a partire dal XV secolo per mano turca come porto franco dell’importazione della seta, e riempitasi dalla metà del ‘500 di splendidi palazzi, moschee e bazar fatti costruire dal governatore ottomano Gazi Husrevbey, sorge in una ripida valle scavata dal fiume Miljacka. Per secoli vi avevano convissuto pacificamente comunità di diversa fede e cultura; poi, entrata a far parte dell’Impero Austro-Ungarico in seguito a una guerra devastante con i turchi, era stata in pieno ‘800 una delle prime città a essere collegata al resto d’Europa con una rete ferroviaria. Gli austriaci la dotarono persino di servizi come l’impianto di illuminazione pubblica, qui sperimentato prima di elettrificare la stessa capitale Vienna.
Entrata a far parte della Iugoslavia, era diventata sempre più emarginata negli anni di Tito a favore di Belgrado, capitale della Federazione, perdendo quel ruolo di metropoli che aveva avuto nell’area balcanica e contraendo la propria popolazione che galleggiava attorno ai trecentomila residenti. Questo, in sintesi, il suo passato. Ma, dopo i danni di quel tragico ultimo assedio, come si presenta oggi Sarajevo?

Foto “storica” dell’assedio.

Un reportage dalla città rinata

Partiamo proprio da quel tunnel che rese possibile la sopravvivenza di Sarajevo alla fine del secolo scorso. 1) Oggi la maggior parte della galleria è crollata, ma si può ricostruire quel triste periodo storico grazie alla testimonianza di un museo, il Museo del Tunnel, situato sul lato meridionale della pista dell’aeroporto. Nella casa bombardata sotto la quale si trovava l’ingresso, sono esposti gli attrezzi utilizzati per la sua costruzione e un documentario illustra il modo in cui veniva utilizzato.
Ma si può seguire il filo d’Arianna delle testimonianze belliche anche a bordo del tram n. 6 che collega Ilidža al centro, quando ci si ritrova a percorrere il già citato “viale dei cecchini” (Zmaja od Bosne), cioè l’ampia arteria che collega la città all’aeroporto. Ancora più avanti si innalza la sagoma gialla e marrone dell’hotel Holiday Inn, uno dei simboli della città assediata in quanto ospitava i corrispondenti di guerra delle varie nazioni (tra i quali l’italiano Franco Di Mare della rai) ed era stato ridotto in pessime condizioni dai bombardamenti. Appena oltre l’hotel svettano le torri gemelle in vetro e acciaio che sono state ricostruite recentemente, i cui monconi fumanti sono stati il triste simbolo della guerra durante l’assedio; mentre qua e là si offrono impietosamente allo sguardo le facciate delle case crivellate dai proiettili, con le finestre simili a orbite vuote e i tetti crollati, muti testimoni lasciati lì a ricordare la guerra sanguinosa.
Ma naturalmente c’è anche un’altra Sarajevo, quella della ricostruzione, dei turisti e dell’allegria ritrovata, che si può godere attorno al pittoresco quartiere ottomano di Baščaršija, che si allarga attorno al suo simbolo, il Sebilj, una fontana d’acqua dalla forma orientaleggiante posta nella piazza dei Piccioni, così chiamata per il gran numero dei volatili presenti. Oltre la quale si snoda il caratteristico quartiere ottomano e la via dei calderai, con botteghe che espongono anche sulla strada splendidi pezzi cesellati in rame, cui si mescolano i colori dei tappeti bosniaci, le sete e i gioielli, in un crescendo di tentazioni impossibili da schivare.
Oltre a fare shopping, può essere un’occasione per ascoltare la testimonianza di qualche mercante sopravvissuto che magari vi mostrerà le ferite del corpo provocate da un colpo di granata, facendovi intravedere anche quelle dell’anima, quando vi racconterà di come lui e sua moglie attraversassero il tunnel sotto il fuoco serbo per procurarsi un po’ di scatolame con cui sfamare i figli ancora piccoli.
Questi tristi ricordi sembrano diluirsi nell’animazione del centro storico cittadino, guardando le pittoresche case turche con le saracinesche in legno, i coloratissimi kilim che coprono le pareti di tante botteghe, il luccicore dei pezzi in rame degli artigiani che lavorano davanti agli sguardi del pubblico. Un po’ ovunque si incontrano donne completamente avvolte nel chador, così come donne in cui è coperto dal foulard soltanto il capo e il collo, mentre altre ancora sono vestite all’occidentale, in un miscelarsi di usi e costumi che dimostra come la città sia stata per secoli un crocevia di culture diverse e lo sia tuttora.
Nei pressi del quartiere ottomano si innalza il Bursa Bezistan, una struttura in pietra sormontata da sei cupole nata come bazar della seta che ospita il Museo Civico, mentre poco oltre vi è l’ingresso al bazar di Baščaršija, che offre nelle sue variopinte botteghe una buona panoramica dell’artigianato cittadino; quindi l’imponente Moschea Gazi Husrevbey, nel cui vasto cortile si affacciano anche i turbet, i sepolcri-mausolei del governatore e del suo migliore amico, e la fontana rituale con un cupola ottagonale che ha lo scopo di permettere ai fedeli il lavaggio della faccia, delle mani e dei piedi prima di assistere alle funzioni religiose.
L’ingresso alla moschea è decorato da splendidi arabeschi stilizzati; mentre all’interno, il cui pavimento è ricoperto da preziosi tappeti, è visibile il mihrab, dal quale l’imam recita le preghiere e che è rivolto verso sud-est in direzione della Mecca. A destra del mihrab si trova il mimber in marmo e ghiaia, da dove il venerdì si tengono le prediche solenni.
All’angolo nord-occidentale del cortile c’è anche la muvekithana, nella quale si trovano gli strumenti per calcolare l’altezza del sole, in base ai quali si stabilisce il tempo in cui cominciano le cinque preghiere quotidiane, mentre appena fuori dal cortile si innalza l’alta Torre dell’Orologio, in cui le ore vengono battute secondo il tramonto del sole, che fa da contraltare al minareto della moschea.
È importante ricordare che per visitare la maggior parte delle moschee in Bosnia è necessario che le donne siano coperte da un ampio foulard a nascondere la testa, il collo, ma anche le braccia: meglio munirsi di questo utile capo d’abbigliamento, pena l’esclusione delle visite ai luoghi sacri dell’islam. Inoltre, all’ingresso sia gli uomini sia le donne devono togliere le scarpe, come negli altri Paesi di fede islamica.
Dietro il quartiere ottomano vi è quello di Bjelave, che si inerpica su una collina alle cui pendici è visibile l’antica chiesa serbo-ortodossa degli Arcangeli Michele e Gabriele, di epoca medievale, che a un esterno semplice contrappone una splendida iconostasi dorata al suo interno, oltre al Museo delle Icone nel chiostro adiacente, con icone di grande valore artistico appartenenti a diverse scuole locali e non. Poco oltre, dietro la Moschea di Jahja Paša, si trova la Casa Svrzo, splendida residenza di epoca ottomana con un cortile dai balconi in legno, i folti tappeti e le tradizionali panche con cuscini; oltre ad altre case turche dalle facciate in pietra e legno decorato con il primo piano prospiciente sul pianterreno.
Peccato però che trovare i vari monumenti può diventare una sorta di caccia al tesoro, dato che le indicazioni turistiche sono quasi inesistenti così come le targhe con i nomi delle strade: è quindi necessario armarsi di una buona dose di pazienza, qui come nelle altre località bosniache.
Procedendo verso ovest si raggiunge il quartiere di Ferhadjia, su cui si affacciano costruzioni di epoca asburgica, corredate da telamoni e decorazioni a cavallo tra ‘800 e ‘900. Qui si incontra l’ottocentesca cattedrale cattolica del Sacro Cuore di Gesù (sul marciapiede antistante si può vedere una delle ultime “rose di Sarajevo”, buchi nell’asfalto provocati da colpi di mortaio, che sono stati dipinti simbolicamente di rosso), oltre alla cattedrale ortodossa della Natività, anch’essa con una pregevole iconostasi, e alla sinagoga sefardita.
Spostandosi in Maršala Tita, davanti al palazzo del ministero delle Finanze è visibile la fiamma eterna che commemora le vittime della seconda guerra mondiale.


Dirigendosi invece verso il vicino lungofiume si incontra il Ponte Latino, scandito dalle arcate in pietra e tristemente famoso perché qui fu ucciso l’arciduca Francesco Ferdinando nel 1914, il cui omicidio avrebbe dato il via, come già detto, alla prima guerra mondiale.
Poco oltre si innalza la cinquecentesca Moschea dell’Imperatore, uno dei luoghi di culto islamici più grandi della città. Subito dietro, come due mondi che si incontrano e che testimoniano le numerose etnie e culture che sono alla base di questa vasta regione multietnica (e che hanno contribuito a innescare la polveriera che vent’anni fa ha portato alla sanguinosa guerra civile), si erge la rosseggiante chiesa francescana di Sant’Antonio con il suo alto campanile, di fronte alla quale si trova il birrificio Sarajevska, vanto dei cittadini di Sarajevo, sistemato in una sorta di costruzione eclettica con archi e torrette.
Dal lungofiume è visibile la cittadella di Vratnik che domina la città: costruita nel ‘700 e fortificata nei secoli seguenti, al massimo del suo sviluppo copriva una superficie di 500.000 metri quadrati, sui cui resti oggi rimangono una caserma asburgica e diverse torri, come la Kula Ploče, che ospita un museo dedicato al primo presidente del Paese e alcune mostre temporanee.
Un altro museo merita sicuramente la visita: si tratta del Museo Nazionale, situato lungo il Viale dei Cecchini, che in un complesso formato da quattro edifici di stampo neoclassico ospita splendide incisioni illiriche e romane che testimoniano la storia più antica della piccola nazione. Al piano superiore attraverso una porta a vetri si può intravedere l’Haggadah, un piccolo codice sacro ebraico del XIV secolo decorato da splendide miniature e ritenuto uno dei manoscritti più pregiati al mondo, fortunosamente sopravvissuto alle guerre del ‘900, la cui copia è visibile presso il Museo Ebraico, adiacente alla sinagoga sefardita.
In ogni caso la città, simbolo della multiculturalità, spesso paragonata a Gerusalemme per la presenza degli edifici di culto delle quattro confessioni religiose mondiali più importanti, con i suoi quattrocentomila abitanti si è ormai definitivamente lasciata alle spalle gli orrori della recente guerra balcanica, abbandonandosi alla gioia di vivere un’esistenza ritrovata e garantita di pace; questa sensazione di vita nuova e di serenità si percepisce chiaramente passeggiando nel cuore del centro, camminando tra i tavolini all’aperto di bar e ristoranti dove la gente si gode la compagnia, e  partecipando a qualcuno dei numerosi eventi che vengono organizzati ogni anno in loco, come il Sarajevo Film Festival, il Jazz Fest che raduna i più significativi nomi del mondo musicale, il Festival teatrale internazionale, per citare soltanto qualcuna delle manifestazioni culturali che hanno ridato visibilità internazionale alla città.
Questo è un ulteriore tassello del variegato puzzle da cui è formata l’anima nuovamente multietnica di Sarajevo, capitale dai mille volti e dalle infinite sfaccettature, tutte da scoprire.

La storia si ripete: similitudine tra Sarajevo e Kiev

Aida Čerkez, giornalista dell’Associated Press e corrispondente locale dell’agenzia durante l’assedio di Sarajevo, ha di recente pubblicato una lettera aperta indirizzata agli abitanti di Kiev, o meglio a ogni singolo ucraino che in questo momento patisce il terrore di una guerra fratricida con gli “ex fratelli” russi all’interno della propria nazione, esattamente come lei l’ha vissuta trent’anni fa nel cuore dei Balcani. Luogo da cui i russi sembravano apparentemente lontani, mentre in effetti erano assai più vicini (ai serbi) di quanto le cronache giornalistiche, spesso incapaci di analisi geopolitiche, non evidenziassero.
La lettera è intitolata Il mondo capisce per cosa stai combattendo e ne vogliamo qui di seguito riportare alcuni dei passaggi più significativi.

Caro amico, le organizzazioni umanitarie qui a Sarajevo stanno raccogliendo aiuti per voi. Mi siedo nel mio appartamento e cerco di ricordare ciò di cui avrai più bisogno. Non sono i miei calzini caldi, o la mia giacca, o i miei stivali caldi che ti servono di più adesso, ma la mia maglietta di trent’anni fa con uno slogan stampato che mi ha fatto andare avanti per quei 1425 giorni in cui i serbi bosniaci hanno bombardato e assediato la mia città. Senza acqua, cibo, elettricità, riscaldamento e senza comunicazione con il mondo esterno. Ho indossato quella maglietta e ho letto il messaggio scritto su di essa mentre più di due milioni di granate cadevano sulle nostre teste e ho evitato innumerevoli proiettili. La maglietta recita: “Sarajevo sarà, tutto il resto passerà”…
Nei tempi bui a venire di tanto in tanto perderai la speranza, ma ti scrivo dal futuro e ti dico che sopravvivrai, proprio come noi. Avrei dovuto essere morta, ma sono sopravvissuta e porterò fuori i miei nipoti domani. E un giorno sarai tu perché vedo in te la stessa resistenza che ho visto qui. Ti sento cantare il tuo inno mentre respingi i carri armati a mani nude. Col tempo canterai nuove canzoni sul tuo coraggio in questi guai e inventerai il tuo slogan che ti terrà in vita. Per ora ti mando la cosa più preziosa che ho, il mio slogan, un po’ adattato a te: “L’Ucraina sarà, tutto il resto passerà”.

Aida Čerkez.

 

N O T E

1) Al reportage ha collaborato Mimma Ferrante.