Sia per ragioni anagrafiche che per condizione sociale (erano quelli gli autori conosciuti da gran parte dei nati di estrazione proletaria negli anni cinquanta del secolo scorso), Jack London e Robert Louis Stevenson, insieme a Salgari, avevano illuminato con sprazzi di fantasia e lampi di avventura i modesti orizzonti della mia – diciamo – tarda infanzia. Sottolineo: tarda infanzia più che adolescenza in quanto a quel punto – seconda metà dei sessanta – erano già in circolazione altre suggestioni che preannunciavano il “sessantotto”. Pensando (oltre a qualche libro scoperto nel frattempo come Il diario di Anna Frank) al Dio è morto di Guccini cantato dai Nomadi o all’Auschwitz, sempre di Guccini, cantato dall’Equipe 84… E mandando in soffitta libri come Il richiamo della Foresta, Zanna Bianca e L’isola del tesoro (trasmesso, con la lugubre sigla, anche in televisione alla fine degli anni cinquanta e visto nel bar sotto casa).
Poteva finire lì, naturalmente. E invece già “compagno” anni dopo mi ritrovai tra le mani il preveggente, profetico – non solo per l’epoca non sospetta in cui fu scritto – Il tallone di ferro (Universale Economica Feltrinelli, 1972) con prefazione di Goffredo Fofi e uno scritto, nientemeno, di Lev Trotzkij.  
Leggendo la biografia di Sante Notarnicola (L’evasione impossibile, Feltrinelli 1972) scoprii che era stato uno dei testi – come dire – di formazione obbligatoria per i giovani comunisti degli anni cinquanta. 1) Insieme a Scritto sotto la forca di Julius Fucik.
Detto questo, azzardo un’ipotesi, una congettura. I due, London e Stevenson, potrebbero essersi incontrati.

stevenson e london incontro immaginario
Jack London parte per il Klondike.

Congettura – azzardata ma non troppo – su London e Stevenson

Oakland, Baia di San Francisco, 1887. Il ragazzo carico di giornali appariva – tutto sommato – robusto. Nonostante i vestiti logori, le scarpe sfondate e l’aria affamata e stanca (“ero vestito come uno spaventapasseri”, scriverà in una lettera a Mabel Applegarth). Non tanto alto, ma ben piantato, solido. E biondo. Come ogni giorno dall’età di dieci anni consegnava i giornali (dall’alba) per aiutare la famiglia in perenne disagio economico.  
La strada com’era? Forse polverosa o forse infangata per la pioggia, ma non certo paragonabile alla mota (un “fiume di fango”) che dovrà in seguito solcare per le vie di Dawson. 2) Per qualche attimo – ma ci sono attimi nella Storia che valgono secoli – intercetta lo sguardo, febbrile, lievemente allucinato, da visionario, di un uomo pallido e magro, dai capelli lunghi. Nonostante gli abiti sgualciti, “un damerino dell’Est” avrà pensato. Invece era inglese, anzi scozzese (quindi con antenati celti, come London per gli avi gallesi). Si scambiarono – se ne ebbero il tempo e l’ispirazione – un’occhiata, se pur di traverso?
Intravide – l’inglese presunto – negli occhi azzurri del ragazzo rozzo, male in arnese bagliori boreali, distese ancestrali di foreste, lastroni di ghiaccio azzurrino frantumarsi nella corrente gelida? Udì il sibilo e lo schiocco della frusta sulle piste innevate? Percepì l’assedio di milioni di fameliche zanzare e il bramito – straziante – dell’ultimo alce abbattuto?
E il ragazzo? Colse nell’espressione trasognata dell’altro la solarità implacabile di isole oceaniche dirupate, affollate di assordanti uccelli migranti, covo recondito di pirati e ammutinati? Intese vagamente fruscii di cordame, clamori di spade e sibili di rotonde pallottole? Lettore precoce e affamato – e grazie all’interessamento della bibliotecaria Miss Ina Coolbrith – magari aveva già divorato di suo L’isola del tesoro (pubblicato ancora nel 1883).
Scoccò la scintilla di un reciproco, se pur inconsapevole, riconoscimento? Passò di mano il testimone?
Chissà?
Poi l’uomo pallido riprese silenzioso il suo girovagare mentre il ragazzo sostava all’angolo per vendere altri giornali.
Ma forse il contagio era già avvenuto.
Pura immaginazione, si dirà. Quando mai possono essersi incontrati lo scozzese Robert Louis Stevenson (1850-1894) e lo statunitense (ma con ascendenze gallesi) Jack London (1876-1916)?
Eppure di cose in comune ne avevano. Non solo perché il primo divenne fonte di ispirazione riconosciuta (insieme a Melville e forse Kipling) del secondo, non solo per l’esplicito amore di entrambi per l’avventura. Ma anche per quel ricorrente andar per acque, sia nei Mari del Sud in età adulta, sia nel “piccolo cabotaggio” giovanile: la baia di San Francisco assiduamente frequentata dal giovane “pirata” London; l’esplorazione dei canali della Francia settentrionale in canoa – An Inland Voyage, 1878 – da parte di Stevenson.

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Robert Louis Stevenson.

Tu chiamale, se vuoi, coincidenze

E poi, naturalmente, la morte prematura, la spregiudicatezza, la vocazione all’irregolarità e alla “instabilità”, il non volersi adeguare alle convenzioni borghesi (sia pure partendo dagli estremi opposti della scala sociale), la vocazione al nomadismo e una certa dose di sano ribellismo (per London direttamente contro il capitalismo, per Stevenson direi verso il bigottismo di marca calvinista). 3)
Avrei invece qualche difficoltà nell’attribuire a entrambi una naturale predisposizione a schierarsi con gli oppressi, i diseredati. Ampiamente confermata da London con l’impegno politico da rivoluzionario socialista, in Stevenson mi sembra non si vada oltre un generico “ribellismo”, appunto. Anche se pare abbia solidarizzato con i nativi delle Samoa e in particolare con il re legittimo di Upolu. Un po’ pochino tuttavia per parlare di “atteggiamento anticolonialista”. Nemmeno lontanamente paragonabile – per dirne una – con quello della comunarda Louise Michelle deportata in Nuova Caledonia. Soprattutto pensando alle ipotesi formulate da Alex Capus (ancora da dimostrare definitivamente, ma plausibili) sui metodi adottati dallo scrittore a Tafahi per tener lontani gli indigeni mentre cercava il Tesoro. Per non parlare dei domestici – indigeni samoani – talvolta costretti a indossare un kilt scozzese del clan Royal Stewart. D’altra parte in diverse occasioni avrebbe dato rifugio – pagandone anche il riscatto alla Società commerciale – a qualche forzato fuggito dalle severe piantagioni tedesche.
In qualche modo il ruolo di Stevenson si potrebbe definire del “portatore sano”. In parte ricorda quello assunto da Gauguin con la “mission scientifique” finanziata dal governo francese. A cui il pittore si era prestato fornendo così un alibi culturale (“artistico”) alle mire espansionistiche e coloniali di Parigi. Anche se poi – dovendo comunque assistere alla fine drammatica di una civiltà tradizionale – nelle sue lettere Gauguin ebbe modo di esprimere moderate critiche a missionari e colonizzatori francesi. Tra parentesi: come non cogliere l’analogia con il paternalismo neocolonialista di certe odierne spedizioni alpinistiche extraeuropee in Himalaya e Karakorum sotto “copertura umanitaria”?

L’isola del tesoro cercata e forse anche trovata

Non sarebbe fuori luogo nemmeno stabilire coincidenze e individuare analogie tra il cercatore d’oro London e il cercatore del tesoro Stevenson. Esperienza sicuramente fallimentare per il primo, ma comunque in grado di alimentarne la vena letteraria.
Se London tornò letteralmente a “tasche vuote” dal Klondike, non mancò infatti di trarne profitto, di “capitalizzare” sapientemente le esperienze vissute o solo ascoltate da altri avventurieri. Si dirà che London l’oro lo aveva comunque anche cercato – e faticosamente – non solo “raccontato”.
Invece Stevenson… Invece un corno. A quanto pare anche Stevenson si era dato parecchio da fare in tal senzo, magari sotto “mentite spoglie”.
Di sicuro non fu solo per amore della letteratura, ma anche a scopo di lucro, che nel corso degli anni la sua favolosa “Isola del Tesoro” venne misurata, valutata, soppesata da ricercatori di vario ordine e grado. Per stabilirne l’esatta collocazione e mettere finalmente le mani su quel tesoro di cui si raccontava che fosse, nientemeno, quello della cattedrale di Lima trasportato dal capitano William Thompson sulla Mary Dear nell’agosto 1821.  
Sul punto di venire attaccata dalle truppe di Simon Bolivar da nord e da quelle di José de San Martin da est, a Lima regnava il panico. Soprattutto tra le alte cariche al servizio della Spagna: il viceré, il governatore e il vescovo. Per evitare che cadesse nelle mani degli insorti, decisero di trasferire il tesoro della cattedrale, frutto di tre secoli di offerte ed estorsioni. Comprese migliaia di pietre preziose e statue a grandezza naturale in oro massiccio.
Trasportato a dorso di mulo fino al porto del Callao, il tesoro venne imbarcato per ordine dei notabili spagnoli sulla Mary Dear. Stando agli accordi la nave avrebbe dovuto raggiungere Panama. Invece scomparve all’orizzonte. Ripescati alla deriva su alcune scialuppe, il capitano Thompson e l’equipaggio dichiararono che la nave era naufragata e affondata. Ma nel frattempo il mare aveva restituito i cadaveri con la gola tagliata dei soldati e dei sacerdoti saliti a bordo a tutela del tesoro. Di fronte all’evidenza, ammisero di essersi impadroniti dei preziosi e di averli sepolti in un’isola, Cocos Island appunto. Tredici marinai vennero sbrigativamente impiccati, mentre il viceré decise di tenere in vita il capitano e il nostromo. In quanto erano gli unici in grado di leggere le carte e fornire le esatte coordinate per il ritrovamento.

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Le isole Cocos appartenenti alla Costa Rica.

Ma di quale isola si trattava esattamente?

In passato si tendeva a individuarla non lontano dalle coste dell’America centrale. In una delle due Cocos Islands (quella costaricana dove nel corso degli anni si scaverà a lungo e in profondità) a nord delle Galapagos.
Presumibilmente anche Stevenson contribuì a diffondere false coordinate in quanto era sua intenzione cercarla di persona (a sua volta per impadronirsi del Tesoro). E non nelle Cocos Islands come aveva lasciato intendere, ma molto più a ovest. Nelle Samoa dove appunto si era trasferito (a Upolu, una delle più grandi dell’arcipelago). Non certo per caso.
Da qui, stando alla ricostruzione di Alex Capus, si sarebbe imbarcato in molteplici occasioni verso l’isolotto vulcanico di Tafahi (grosso modo a sud delle Samoa e a nord delle Tonga di cui fa parte) conosciuto (coincidenza?) anche come Cocos Eylandt: esplorato da Stevenson & C con un’attenzione particolare per la spiaggia di sud-est, in prossimità dello scoglio Fatuulu, sacro al dio-pesce omonimo.
Stando ai racconti locali, all’epoca su Tafahi si percepivano periodiche, misteriose esplosioni, interpretate dagli indigeni come tuoni e fulmini (ma si parlava anche di molto fumo) o come manifestazioni del dio-pesce Fatuulu.  
Si ipotizza che a produrli fossero appunto Stevenson e i suoi soci per procedere indisturbati nella ricerca del tesoro. Utilizzando razzi e fuochi artificiali (di cui si rifornivano, è documentato, perfino a Aukland) per tenere lontani i nativi. Da Londra si sarebbero procurati addirittura una “lanterna magica per proiettare immagini su lastre di vetro nella giungla” (sempre per intimorire gli indigeni e tenerli alla larga).
A conti fatti non si può quindi escludere che alla fine lo scrittore abbia trovato e riesumato – almeno in parte – quel tesoro favoloso. Una conferma verrebbe dai numerosi viaggi di alcuni membri del clan Stevenson (la moglie, la madre, i figliastri, il cugino Graham Balfour) verso Sidney, Auckland, Honolulu, Londra… nelle cui banche poter depositare con regolarità porzioni del tesoro (gioielli, gemme, dobloni…) e convertirli in dollari o sterline. E spiegherebbe ampiamente anche la ricchezza, ostentata per decenni con un dispendioso tenore di vita, dei suoi eredi, in genere nullafacenti (ma attivi con cospicui investimenti nel mercato immobiliare).

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Un ingegnere ed eremita non disinteressato

Tra i numerosi cercatori del Tesoro dell’Isola, genericamente intesa, merita una citazione particolare quello che andò forse più a colpo sicuro: l’ingegnere danese Preben Vigo Heinrich Kauffman (1923-1995).
Se non proprio una reincarnazione, almeno un trait d’union esistenziale – postumo – tra i due scrittori avventurieri. Per una serie di coincidenze.
Come London, si esercitò e impratichì su una piccola barca a vela, acquistata di seconda mano, nella baia di San Francisco prima di intraprendere il viaggio verso le Samoa.
Come Stevenson probabilmente era tubercolotico (e come lo scrittore – non volendo dare spiegazioni in merito alle vere ragioni della sua permanenza nelle isole – mentiva sui presunti benefici per la salute).  
Nel 1952 si stabilì ininterrottamente per un decennio a Tafahi. Successivamente almeno per sei mesi all’anno, mentre il resto lo trascorreva a Tonga. Particolare rivelatore, a Tafahi si era insediato non nella parte settentrionale, dove sorge il villaggio, ma nella zona a sud-est. La stessa che aveva attirato le attenzioni di Stevenson. Come residenza abituale, una piattaforma aerea sopra un albero. In alternativa, in caso di maltempo, una grotta. Un autentico eremita dunque, per quanto ossessionato dalla speranza del ritrovamento. Rientrato in patria a sessantotto anni, ormai malridotto, si sarebbe infine suicidato.

Incontri mancati con l’autore

Sappiamo come più di uno abbia sprecato del tempo a cercare – e a rammaricarsi di non averne trovate – tracce di un improbabile incontro tra Stevenson e Gauguin quando quest’ultimo soggiornò per un primo periodo (1891-1893) a Tahiti, non lontano da Upolu. Quando vi ritornò definitivamente, Stevenson era già defunto.
Così come Alex Capus in Cocos Island (ed. Casagrande 2009, titolo originale Reisen im Licht der Sterne, 2005) ha indagato – ma in questo caso a ragion veduta – sull’eventualità che Stevenson abbia incontrato alcuni dei “cercatori di tesori” più o meno suoi contemporanei che talvolta avevano frequentato i medesimi luoghi dello scrittore.
Era questo il caso, per esempio, di August Gissler (1857-1935) che si trovava a San Francisco, intenzionato a raggiungere la Cocos Island costaricana, nel giugno 1888. Negli stessi giorni in cui Stevenson era in procinto di partire per il viaggio che lo avrebbe portato dopo un anno e mezzo a Samoa.
Perché non immaginare allora che anche i percorsi di London e Stevenson si siano – magari per il tempo di un attimo – incrociati, sovrapposti nelle tumultuose strade della San Francisco del 1887?
In ogni caso piace pensarlo.
Va anche ricordato che Jack London – a suo dire, ma non solo – sapeva già leggere a cinque anni. Divenne un precoce gran divoratore di libri della locale biblioteca, preso in simpatia dalla bibliotecaria Miss Ina Coolbrith che lo consigliava e gli procurava i testi – anche complessi – da leggere (tra cui La nuova Maddalena di Wilkie Collins e le opere di Smollet). Quindi non si può escludere che avesse già letto anche L’isola del tesoro (pubblicato nel 1883) quando Stevenson tornò in città appunto nel 1887. C’era già passato, sempre sulle tracce, alle calcagna dell’amata Fanny Ousbourne, ancora nel 1879 (ma qui, lo riconosco, è improbabile assai che abbia incontrato Jack nato solo tre anni prima).
Diversamente da Stevenson (il quale, pur attraversando periodi difficili e vicissitudini economiche sia negli USA sia in seguito nel Pacifico, aveva comunque sempre avuto ampie possibilità di scelta) il ragazzo London cominciò a lavorare a dieci anni. Dopo la fase della vendita dei giornali – e del vagone frigorifero – affrontò esperienze molto dure, faticose (“bestiali” le avrebbe definite in seguito). Prima in una fabbrica di conserve (nel 1889, anche per 18-20 ore consecutive, esperienza rielaborata in The Apostate), poi in una fabbrica di iuta (1893). Con l’intermezzo da “pirata delle ostriche” (1891-92 presumibilmente), a capo di una banda di razziatori, contrabbandieri e pescatori di frodo e la parentesi di sei mesi – nel 1893 – imbarcato sulla Sophie Sutherland alla volta di Giappone, Corea, Siberia.
Fu anche spalatore di carbone (tredici ore giornaliere) e lavorò in una lavanderia. Poi, lasciato nel 1894 l’esercito di disoccupati di Charley T. Kelly, divenne vagabondo e hobo.
Invece – forse indotto dal senso di precarietà, incertezza sul futuro a cui la malattia lo costringeva – Stevenson aveva messo da parte gli studi di giurisprudenza per scegliere la letteratura e uno stile di vita anticonformista (per i parametri dell’epoca e del suo ambiente sociale d’origine).
Tornando all’ipotetico incontro, all’epoca Jack London aveva 11 anni e, forse, se si fossero scambiati qualche parola (chissà, magari Stevenson gli comprò un giornale) avrebbe potuto attingere alla vena creativa del viaggiatore d’oltre oceano. E magari – perché no? – ricambiare con qualche illuminazione personale. Quién sabe?

 
N O T E

1) Anni dopo, verso la metà dei novanta, incontrai Notarnicola (1938-2021) alla presentazione di un libro (Dall’altra parte, Gallinari e Santilli, Feltrinelli, 1995) e si parlò, oltre che delle sue poesie (avviso ai detrattori: furono molto apprezzate da Primo Levi), di una rivolta in carcere a cui aveva partecipato. Come ritorsione da quel momento gli venne concesso di tenere in cella soltanto un libro. “Scelsi il vocabolario”, raccontava.
2) Dawson è la città del Klondike dove Jack London arrivò nel 1897 dopo l’estenuante marcia attraverso il passo Chilkoot, la catena dei laghi Lindeman, Marsh e Lebarge, la navigazione lungo il corso superiore dello Yukon, il Box Canyon e le rapide del White Horse (grazie alla sua abilità nell’usare anche la vela della Yukon Belle, non solo i remi). Nel complesso, questa si rivelò la parte più avventurosa del viaggio. La permanenza nel Klondike non durò più di qualche mese. Poi – anche a causa dello scorbuto – nel 1898 lasciò definitivamente le strade letteralmente inondate di acqua e fango di Dawson (il disgelo quell’anno era avvenuto in anticipo).
3) Ovviamente tra Stevenson e London si levano anche differenze sostanziali. La robustezza fisica di London in antitesi con la fragilità, la magrezza, il pallore di Stevenson, la sua salute precaria (presumibilmente tubercolosi, forse sarcoidosi). Tuttavia ritengo prevalenti le analogie, le assonanze, le affinità.
Infine, per la cronaca, va ricordato l’omaggio che Jack London rese di persona a Stevenson – durante la crociera con lo Snark nel 1907 – salendo con la moglie Charmian sul monte Vaea dove lo scrittore scozzese aveva voluto essere tumulato.
Ci provò anche Hugo Pratt nel 1993, ma a piedi non riuscì a raggiungere la vetta e l’elicottero non poteva atterrare sulla cima a causa della folta vegetazione. Pare si ripromettesse di ritentare l’anno successivo, ma a causa della malattia dovette rinunciare. Come è noto il papà di Corto Maltese morì nel 1995.