L’enorme progresso economico del XX secolo ha reso il Texas una delle aree più ricche degli Stati Uniti tanto che, viste anche le dimensioni, può essere confrontato con altri importanti Stati europei in termini di PIL e risorse.
Il settore che ha dato maggiori soddisfazioni è sicuramente quello petrolifero ancora molto sviluppato; tuttavia il grande merito locale è stato di non concentrare tutta la produzione su questa risorsa, evitando che ne monopolizzasse l’ economia, ma di saper andare avanti senza legarsi esclusivamente ai proventi della produzione e vendita dell’oro nero.
I texani hanno esplorato altri settori produttivi, fortemente motivati dall’innato spirito avventuriero che li ha sempre accompagnati, mai sazi, stimolati a fare sempre di più, trovando altre rotte per il successo. Lo Stato è infatti leader in molti altri campi che vanno dal settore primario al terziario avanzato o quaternario: l’economia regionale è straordinariamente florida in quanto gode del mix perfetto tra agricoltura, industria e terziario.
texas etnico seconda puntata - link-texasÈ anche giusto ricordare come non tutto sia merito esclusivo degli abitanti e delle loro indubbie qualità pionieristiche e imprenditoriali, ma esista anche una componente geografica e localizzativa imprescindibile, dal momento che il Texas si trova in una posizione strategica, uno spazio di transizione, un’area gravitazionale tra il profondo sud, gli Stati desertici dell’ovest e gli Stati centrali delle Great Plains: fattori che rendono questa zona il centro nevralgico dell’intera fascia meridionale statunitense.
Inoltre, la superficie enorme e la grande varietà paesaggistica, ambientale e climatica permettono il prosperare di differenti tipi di colture, e quindi un’ampia gamma di prodotti. Oltre alle sterminate praterie dedite all’agricoltura e all’allevamento intensivo, il Texas è ricchissimo di risorse naturali nel sottosuolo. Tutte queste caratteristiche hanno determinato l’incredibile crescita e prosperità economica, alimentando un netto divario tra il Lone Star State e i suoi diretti dirimpettai a est, nord e ovest. Lo Stato è infatti il primo produttore di gas naturale degli USA e rappresenta un modello per le energie rinnovabili: dal 2006 è il più importante produttore di energia eolica davanti alla California, all’avanguardia anche per l’utilizzo di energia solare e idroelettrica, uno più rilevanti centri energetici a livello mondiale.
Il territorio fornisce altre risorse importanti come gesso, magnesio, zolfo, lignite e catrame. Il settore dell’allevamento bovino gioca un ruolo ancora di peso, alimentando agricoltura, industria e commerci. Importanti progressi sono stati fatti nella ricerca medica, nei servizi e nel turismo. Di rilievo la produzione di merci pesanti e materiali da costruzione. Ma il Texas è leader anche nelle industrie ad alta tecnologia, tipo biotecnologie e ingegneria aerospaziale, come testimonia la presenza della NASA.
L’economia texana ha sempre potuto sempre contare su un forte sostegno finanziario da parte delle banche. Un boom degli ultimissimi anni è rappresentato dalla nascita di un numero incredibile di start up nella zona di Austin, che per questo è stata ribattezzata Silicon Hills ed è diventata una delle aree con il più alto tasso di crescita degli interi Stati Uniti.
Sulla base del peso economico e altre considerazioni di natura politica e culturale, negli ultimi anni si è tornati a parlare dell’indipendenza del Texas, questione mai veramente sopita. Come sottolineavamo, il Texas si presenta come una realtà unica nel panorama statunitense, in quanto fattori geografici, contingenze storiche e mutamenti sociali hanno plasmato una cultura originale e particolare, forgiando un’identità altrettanto forte e dai caratteri distintivi. La consapevolezza di questa marcata identità e della distanza rispetto al resto del Paese, unita a una conscia (e realistica) fiducia nei propri mezzi e nella propria forza, ha contribuito al radicamento di un conservatorismo profondo, non soltanto in ambito politico ma nell’accezione più ampia del termine.
Questa condizione ha alimentato una generale sfiducia nei confronti di Washington, bilanciata da una ferrea certezza dei texani di saper badare a se stessi. Libertà in materia di fisco, sanità, difesa personale e proprietà privata, senza vincoli di alcun tipo e senza dover rendere conto ad autorità superiori, sono gli ideali che muovono le coscienze dei locali e si traducono in un’adorazione esasperata per la propria terra. Tenace resistenza ai cambiamenti culturali e difesa dello status quo implicano una visione dell’altro, o di qualsiasi entità “estranea”, a un livello inferiore di quello texano, quando non addirittura una minaccia.
Il ricordo dell’ottocentesca Repubblica del Texas (unico esempio di Stato americano indipendente), realizzata grazie a un’autonomia ottenuta con le proprie forze, alimenta il mito interno texano, facendo sì che molti cittadini si considerino abitanti di una nazione autonoma. Posizione giustificata con motivazioni storiche e culturali, ma decisamente supportata da fattori economici: l’incredibile quantità e varietà di fonti energetiche e prodotti naturali e gli introiti derivanti dalle altre attività rendono il Texas la seconda economia degli Stati Uniti e, se fosse riconosciuto indipendente, è stato calcolato che si posizionerebbe al quattordicesimo posto nel ranking mondiale in termini di Pil, al decimo per la spesa militare e bilancio statale, e sarebbe il sesto produttore di petrolio. Di fatto il Lone Star State vanta numeri eccezionali: possiede circa un quarto delle riserve degli idrocarburi degli Stati Uniti (il suo petrolio viene quotato tra i 79 e 110 dollari al barile) e rappresenta un modello anche nel settore della difesa, facendo concorrenza addirittura a Paesi come Gran Bretagna, Francia e Germania.
L’economia texana è stata una delle prime a riprendersi dalla recessione e dalla crisi economica globale del 2008, e negli ultimi anni ha vissuto un periodo florido di costante crescita. Forti di tutti questi elementi, diversi gruppi di bianchi nel corso degli anni hanno perorato la causa di un Texas indipendente, in particolare all’inizio degli anni Novanta quando Richard Lance Mc Laren ha fondato the Republic of Texas Organization, movimento nazionalista dichiaratamente secessionista. L’organizzazione sosteneva che gli USA avessero annesso illegalmente il Texas, e di conseguenza lo Stato avrebbe dovuto ritenersi prigioniero di una potenza straniera con il diritto e il dovere di staccarsi dalla federazione. I suoi sostenitori abiuravano la globalizzazione, ritenuta minaccia dei princìpi cristiani, e la strategia del gruppo consisteva nell’ignorare gli espropri delle loro proprietà, creare un’ambasciata e sconfessare le autorità federali, accusate di corruzione, paganesimo e appropriazione indebita delle terre.
La situazione degenerò nel 1997 quando, in seguito all’arresto di due membri dell’organizzazione, Mc Laren e altri seguaci presero in ostaggio una coppia barricandosi in una casa, minacciandoli e invocando la secessione dello Stato: arrestato dalla polizia, il leader venne condannato a 99 anni di carcere, pena che sta ancora scontando.
Dopo questo episodio il gruppo è andato sfaldandosi in diverse fazioni; e proprio da una di queste è nato il Texas Nationalist Movement, fondato da Daniel Miller, che rappresenta ancor oggi la principale e più combattiva organizzazione attiva per l’indipendenza dello Stato. Tuttavia, l’organizzazione ha tenuto a sottolineare che intende differenziarsi profondamente dall’esperienza precedente di Mc Laren, criticandone aspramente i metodi violenti, sostenendo invece che la secessione vada attuata pacificamente e attraverso vie legali. L’obiettivo infatti è “The complete, total and unecumbered political, cultural and economic indipendence of Texas1) da ottenere senza l’uso della forza e all’interno dell’attuale sistema politico e legislativo. Daniel Miller dichiara che dal momento che ogni nazione dovrebbe essere sovrana, il Texas, vantando una storia, una cultura e un popolo incredibilmente peculiari, avrebbe il diritto di secedere dagli Stati Uniti, in quanto Washington ha imposto un regime tirannico riducendo le libertà personali. I texani devono quindi poter godere senza vincoli delle risorse presenti sul proprio territorio.
Gli Stati Uniti avrebbero dunque tradito gli ideali alla base della Rivoluzione espandendo più del dovuto il dominio federale, considerato una vera ingerenza, privando gli individui della loro inalienabile libertà. I sostenitori texani di questa causa si sentono vittime di un disagio cui non è estraneo un carico fiscale ritenuto troppo elevato, costretti a addossarsi le problematiche di aree arretrate le cui crisi gravano sulla nazione, quando invece potrebbero e dovrebbero vivere in prosperità usufruendo esclusivamente delle proprie risorse.
Il malcontento coinvolge anche il finanziamento da parte del governo di operazioni militari in Paesi lontani, gli sprechi dei fondi pubblici volti a salvare le banche e la riduzione dei fondi pensionistici. L’idea di Miller, in un ipotetico Texas indipendente, sarebbe quella di non stravolgere un modello di sviluppo che si è rivelato efficiente nei decenni, un’economia aperta al mondo fondata sugli scambi commerciali, le risorse endogene e un regime fiscale favorevole per le imprese, garantendo così una certa indipendenza economica.
Lo strumento per realizzare concretamente l’indipendenza sarebbe l’istituzione di un referendum alla cui approvazione, stando alle parole di Miller, si sta già lavorando con il parlamento di Austin. Nel 2013 una petizione online per l’indipendenza è stata firmata da più di 125.000 persone arrivando alla Casa Bianca, che ha rispedito al mittente la richiesta senza prenderla in considerazione. Un sondaggio ha indicato che il 34% dei texani sarebbero favorevoli all’autonomia, convinti che il medesimo spirito che ha portato la regione allo sviluppo e al benessere potrebbe condurre a vette ancora più elevate come Stato indipendente.
Un altro sondaggio del 2014, secondo i membri del TNM, ha rivelato che il 54% dei cittadini texani registrati come repubblicani voterebbe per la secessione, il 50% tra gli indipendenti e il 48% tra i democratici. Nonostante questi dati e la fiducia di Miller che inducono i membri più “folkloristici” a tentare di coniare una moneta propria e a girare per Houston con passaporti texani, appare decisamente complicato, se non addirittura utopico, immaginarsi il Lone Star State indipendente a breve.

Cuore e futuro della politica e società statunitense

n un particolare periodo storico come quello che stiamo vivendo, più delle istanze rivendicate dai nazionalisti che bramano una nazione autonoma, ha molto più peso e rilevanza la “questione etnica”, i cui risvolti evolutivi segneranno i destini dell’intero Paese. Il cambiamento socio-demografico che gli Usa stanno attraversando e che vede gli ispanici protagonisti indiscussi è già in atto in Texas da decenni. Considerate le dimensioni e l’importanza di questo fenomeno, con la diretta e conseguente trasformazione dello Stato da paese a maggioranza bianca a realtà senza un gruppo etnico preponderante, è fondamentale indagarlo proprio a partire dalla realtà texana.
Il Lone Star State, infatti, sta sperimentando in anticipo ciò che potrebbe verificarsi (e secondo le stime si verificherà) in tutto il resto del Paese nel giro di qualche decennio: il Texas rappresenta quindi lo specchio in “piccolo” (ma forse sarebbe più appropriato dire in grande) dell’intera scena etno-sociale statunitense.
Il Texas ha una popolazione di oltre 27 milioni di abitanti (poco meno dei 28 milioni dell’Arabia Saudita, più dei 24 della Corea del Nord e dei 23 dell’immensa Australia), secondo solo ai 38 milioni della California, costituendo circa l’8% del totale USA. I numeri sono in continuo aumento grazie a una crescita vertiginosa avvenuta in particolar modo dopo il 2000, con un incremento medio due volte più veloce rispetto ad altre aree del Paese. Questa crescita può essere facilmente spiegata tenendo conto della posizione geografica, essendo il Texas uno Stato di frontiera con il Messico (quasi 2000 km di confine terrestre) da cui negli ultimi anni provengono i flussi migratori più consistenti.

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Un cowboy “latino”.

Grazie al suo dinamico e variegato sistema produttivo, offre inoltre ricche opportunità lavorative in svariati campi, attirando ogni anno migliaia, se non milioni, di persone da ogni parte del globo che vanno a incrementare il motore economico texano. La zona risulta così meta di imponenti flussi che vedono l’arrivo costante di nuovi immigrati, legali e illegali, professionisti o manodopera non qualificata, giovani laureati o uomini maturi senza significativi titolo di studio, soprattutto latinos ma anche europei. A causa di questi movimenti demografici, l’attualer popolazione texana risulta composta per il 43% da bianchi europei (prevalentemente tedeschi e inglesi, ma anche francesi, cechi principalmente nella contea di Lavaca e olandesi a Nederland), i quali hanno perso la maggioranza assoluta nello Stato, seguiti dagli ispanici (discendenti dei tejanos) al 38% in progressivo avvicinamento e prossimo sorpasso, dal 13% di afroamericani (per il 40% concentrato nelle aree metropolitane di Dallas e Houston), dal 5% di asiatici in continua crescita (soprattutto coreani e vietnamiti) e dallo 0,7% appena di nativi americani.
Le vicende storiche che abbiamo descritto testimoniano e spiegano come sia stato possibile giungere a tale situazione. Fondamentali sono anche i tassi di riproduzione per gruppo etnico, che permettono di comprendere gli imminenti cambiamenti e la loro portata: la natalità degli ispanici è nettamente superiore a quella di tutte le altre componenti, in particolare a quella bianca europea. I caucasici e i latinos sono praticamente in parità e le stime lasciano intravedere che il sorpasso in territorio texano si concretizzerà intorno al 2020, con i tejanos che diverranno invece maggioranza assoluta nel 2042. Questi numeri alquanto significativi denotano la rilevanza della questione per il prossimo avvenire, conferendo di fatto alla tematica dell’immigrazione dal Messico il ruolo di argomento più dibattuto nel Paese – dalle prime pagine dei quotidiani, ai banchi del Campidoglio – in particolare dopo l’elezione di Trump.
L’immenso confine TexMex rinvigorisce la dialettica del Lone Star State come area di frontiera: la maggior parte degli immigrati raggiunge gli USA entrando legalmente o illegalmente in Texas dove si calcola che dei 4,5 milioni di immigrati presenti ben il 56% sia nato in Messico. Le vicissitudini storiche hanno alimentato questa continuità tra le due aree: al momento della proclamazione dell’indipendenza della Repubblica del Texas nel 1836, la nuova legislazione permise infatti ai tejanos di rimanere all’interno dei confini del nuovo Stato, anche se di lì a poco sarebbe iniziata la loro segregazione insieme a quella degli afroamericani. Da allora, anche con l’ingresso del Texas nell’Unione, il flusso migratorio non si è mai interrotto, seppur con significative variazioni numeriche nell’arco degli anni.
Non bisogna dimenticare infatti che il Texas è stato parte del Messico, i primi conquistadores a occuparlo sono stati gli spagnoli i cui discendenti sono nati in territorio texano. Inoltre l’ambiente culturale di questa regione presenta influenze derivanti proprio dalla presenza ispanica che dal 1500 sono perdurate nei secoli, avvicinandolo – almeno linguisticamente – al Messico. La nutrita componente latina ha rappresentato una comunità forte e numerosa che non ha rinunciato a tradizioni, usi e costumi, anzi ha incisivamente contribuito a plasmare l’ibrido texano.
La posizione dello Stato sull’immigrazione è ambivalente, ovvero non è così critica e intransigente rispetto ad altre realtà (l’Arizona dell’ex sceriffo John Arpaio, ritornato agli onori della cronaca proprio di recente, su tutti) e a ciò che un feudo repubblicano negli ultimi quarant’anni potrebbe lasciare immaginare. Le ancestrali radici comuni e soprattutto la diretta interdipendenza a livello economico, fondamentale per il sistema produttivo texano, garantiscono una discreta tolleranza. Il successo economico, qui, dipende in parte proprio dal Messico in quanto tra le due realtà c’è una relazione strettissima: entrambi sono reciprocamente principali partner commerciali; il 65% degli scambi complessivi tra Messico e USA origina, è destinato o passa per il Texas; il valore dell’export texano supera i 100 miliardi di dollari e dà lavoro a mezzo milione di persone; nel solo 2015, 92,5 miliardi di merce sono stati esportati dal Texas al vicino meridionale.
I valichi di frontiera rappresentano passaggi essenziali per il commercio via terra in entrambe le direzioni, e più dell’80% delle esportazioni messicane arriva sui mercati statunitensi, in particolare in Texas. Proprio a  cavallo del confine sono presenti numerose catene di rifornimento e di produzione combinata (industria automobilistica), le materie prime e i prodotti finiti viaggiano avanti e indietro, mentre si stanno sviluppando imprese che cooperano per l’estrazione di giacimenti di shale gas. Il Messico ha infatti liberalizzato il settore energetico nel 2014, azione che ha recato ulteriori vantaggi al Texas il quale – grazie a posizione geografica, risorse finanziarie e lunga esperienza nel settore – si presenta come il partner perfetto: le compagnie texane aderiscono a progetti al largo del golfo del Messico e sulla terraferma, risultando i maggiori fornitori di beni e servizi energetici.
Sono emblematici gli esempi di Laredo ed El Paso, località di frontiera, che hanno entrambe città gemelle (Nuevo Laredo e Ciudad Juarez) al di là del confine, con cui intrattengono serratissimi rapporti economici con migliaia di pendolari (studenti, lavoratori e turisti) che ogni giorno attraversano il confine, segnando una profonda dipendenza reciproca. Oltre al commercio molti messicani si recano in Texas per shopping o turismo, riempiendo le casse dello Stato: il Lone Star State rappresenta la loro principale destinazione estera.
Anche i conservatori più intransigenti riconoscono il ruolo importante giocato dagli immigrati messicani, e più in generale dalla comunità ispanica, nell’economia texana con migliaia di individui che lavorano nelle fabbriche, nei cantieri, nelle aziende, manodopera imprescindibile per uscire dalla crisi e mantenere l’economia regionale sui consueti elevati standard. Esiste così una sorta di tacito accordo per cui il governo texano assume posizioni relativamente “morbide” in materia d’immigrazione, pattugliando puntigliosamente la frontiera, ma cercando di evitare l’approvazione di leggi arbitrarie che favoriscano le espulsioni indiscriminate. Molti immigrati infatti si recano in Texas con un regolare visto, ma si trattengono anche oltre la scadenza diventando illegali: le autorità accettano sostanzialmente questa situazione per mera convenienza, non volendo rinunciare al decisivo contributo latino nell’imponente motore economico locale.
La conseguenza è che con il passare dei decenni gli ispanici continuano ad aumentare, concentrandosi nelle grandi metropoli e nella zona meridionale nelle contee confinarie. Molti di loro sono già cittadini statunitensi, e gli immigrati di seconda e terza generazione condividono valori, ideali e comportamenti americani, pur non dimenticando la patria degli antenati con la quale mantengono un forte e sincero legame affettivo, familiare e culturale.
La vertiginosa crescita latina ha effetti più o meno immediati sui comportamenti culturali e politici texani, inscindibilmente interconnessi in questa retorica. I cambiamenti socio-demografici potrebbero modificare anche gli equilibri politici interni dello Stato: non è un mistero per nessuno che la stella solitaria è una roccaforte del Partito Repubblicano, Stato conservatore per eccellenza e che meglio di altri incarna i valori del GOP.
Il generale aumento degli ispanici, determinato in Texas oltre che dalle correnti migratorie e dal maggiore tasso riproduttivo anche dal generale sviluppo dell’area, che offre opportunità lavorative e prezzi bassi per le case, sta però modificando il comportamento elettorale della zona, in quanto i latinos tendono a votare poco ma decisamente a sinistra. Non si può ancora parlare di un cambiamento radicale come avvenuto in altri Stati (Colorado, Nevada e New Mexico) che da bastioni repubblicani si sono trasformati in Stati in bilico se non addirittura tendenti al blu, ma molti esperti affermano che un Texas democratico nei prossimi decenni potrebbe essere tutto fuorché utopia.
Analizzando le passate elezioni di novembre 2016 – tralasciando il fatto che entrambi i candidati abbiano rappresentato esempi sui generis all’interno dei rispettivi partiti – si può notare come il divario si sia assottigliato: Donald Trump ha vinto con il 52% dei voti contro il 43% di Hillary Clinton. Una vittoria non in discussione ma neanche troppo netta, soli 9 punti percentuali, un numero che solo pochi anni fa sarebbe parso impossibile, frutto del voto delle minoranze. Esse infatti sono concentrate prevalentemente nelle grandi città: Houston, Dallas, San Antonio e Austin sono realtà aperte, multietniche e cosmopolite. A Houston è stata eletta Annise Parker; nella contea di Dallas, Guadalupe Valdez è stata eletta sceriffo per la quarta volta: entrambe donne, dichiaratamente lesbiche, legate al Partito Democratico.

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Guadalupe “Lupe” Valdez, eletta sceriffo della contea di Dallas per il Partito Democratico, cavalca alla testa dei suoi uomini. Un’immagine molto texana…

Austin è una città tra le più hipster e di sinistra degli Stati Uniti. I cambiamenti sociali si riflettono sul comportamento elettorale in modo così netto che in Texas si sta ampliando la drastica spaccatura – presente su tutto il territorio nazionale – tra città e campagne, con le grandi metropoli democratiche e le aree rurali fortemente legate al GOP. Le stime sulla popolazione sono autentiche, bisognerà vedere come si comporteranno entrambi i partiti perché l’aumento delle minoranze a scapito della componente bianca di origine europea dovrebbe rappresentare un vantaggio per il partito dell’asinello.
Il Texas ha sempre saputo mantenere le radici nella propria originale identità, ma contemporaneamente ha costruito il proprio successo su un cambiamento nella continuità, un apparente paradosso spiegabile con lo spirito avventuriero aperto alle nuove opportunità che si prospettavano (come il petrolio) senza abbandonare quelle vecchie (il bestiame), il che si è tradotto in un continuo rinnovamento e adattamento attuato senza perdere contatto con gli usi e i caratteri tradizionali. I mutamenti odierni, figli di un cambiamento assai repentino negli ultimi anni, stanno segnando uno strappo con il passato, allentando il peso del conservatorismo locale a livello politico ma anche culturale.
I nuovi immigrati non intendono rinunciare alla propria identità e alle proprie radici storiche, ma allo stesso tempo affermano di sentirsi americani. Fondamentale sarà osservare e provare a comprendere l’evoluzione di questo snodo per capire la traiettoria che potrà prendere la società statunitense. Non ci è dato sapere se prevarranno le previsioni del noto politologo Samuel Huntington, 2) convinto che gli ispanici non si fonderanno mai in quanto troppo numerosi e troppo vicini geograficamente e culturalmente alla terra natia, rimanendo un corpo estraneo nella società statunitense (una volta maggioranza, la influenzerebbero completamente); oppure le teorie dei “pro-assimilazionisti” secondo cui i latinos, come avvenuto con altri gruppi etnici in passato, si integreranno comunque, modificando ulteriormente i caratteri dell’ “americanicità” e dando origine a una società nuova. Costoro respingono con forza le previsioni di chi è convinto che gli ispanici rimarranno chiusi nella loro diversità, dipingendo queste posizioni come strategie predisposte ad arte da chi è contrario all’immigrazione.
Sul futuro degli USA non abbiamo quindi certezze ma solo plausibili ipotesi: se saranno gli ispanici a diventare americani, gli Stati Uniti a trasformarsi in nazione latina, oppure assisteremo alla nascita di un ibrido efficiente. Di sicuro possiamo sostenere che il Texas, in questo àmbito, costituisce il centro di gravità politico-culturale del Paese.

Stato di confine, heartland o nazione autonoma?

Il Texas è indubbiamente un territorio di confine, dal punto di vista geografico, certo, ma anche culturale, economico e politico. La collocazione fisica lo posiziona come ultimo baluardo meridionale degli Stati Uniti prima del Messico, ma la barriera in parte rappresentata dal confine naturale del Rio Grande o Rio Bravo segna anche una netta cesura tra l’America settentrionale ricca e sviluppata e l’America latina povera e arretrata, sottolineando profonde differenze economiche, culturali e demografiche.
Qui si sta però parlando dell’intero territorio texano, non dell’area prospiciente il confine, e si può dunque sostenere che il Lone Star è realmente uno spazio di frontiera. Il mito della nazione a se stante, liberatasi e resa indipendente solamente con l’ausilio delle proprie forze, da cui è derivata una precisa indole locale tramutatasi in un sistema culturale unico e originale, rende infatti il Texas un’entità distaccata dal resto degli Usa, apparentemente “lontana” dal baricentro gravitazionale nazionale.
Analizzando nel dettaglio il ruolo della frontiera e dello Stato nell’apparato complessivo statunitense emerge una constatazione ambivalente. In Texas il lunghissimo confine con il Messico risulta allo stesso tempo presentissimo e assente: la presenza è determinata da elementi fisici come le recinzioni, i posti di blocco e la polizia di confine; ma contemporaneamente i due lati del confine costituiscono, come in molte altre terre di frontiera nel mondo, un’area unica con caratteristiche geologiche e ambientali simili, ma soprattutto allacciata da un passato storico e un presente comune, tanto che il confine sembra non palesarsi.

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I gruppi etnici presenti in Texas (elaborazione di Stefano Bossi).

Da un lato il confine – in particolare dopo i tragici eventi dell’11 settembre – è stato fortificato e militarizzato e i controlli sono aumentati notevolmente, tanto che la sua esistenza appare chiara per esempio decidendo di attraversarlo in auto; d’altra parte però la dominazione spagnola prima e l’esperienza del Coahuila y Tejas poi, testimoniano l’evidenza della connessione tra i due spazi che una linea di demarcazione statale divide quasi con “violenza”. Infatti l’importanza reciproca in ambito economico, già ampiamente descritta, serve ora a comprendere l’incredibile legame indissolubile esistente anche al giorno d’oggi, al quale né Messico né Texas intendono e vogliono rinunciare. Inoltre il recente incremento del flusso migratorio e le trasformazioni socio-demografiche in atto avvicinano ulteriormente le due realtà, incidendo in maniera sostanziale sui comportamenti culturali e politici locali.
Le contee del Texas meridionale nei pressi del confine sono a maggioranza latina e votano per i democratici: la porosità del confine è quindi divenuta logicamente oggetto di dibattito politico e campagna elettorale tra i partiti, divisi tra chi ama sottolineare il ruolo fondamentale e reale degli ispanici nelle aziende e più in generale nell’economia texana e chi, all’opposto, enfatizza i reati commessi dagli illegali, guardando al confine esclusivamente come a un elemento negativo, attraverso il quale è possibile introdurre negli USA droga, armi, esseri umani. Questa situazione simultanea di apprezzamento e critica per la componente ispanica sintetizza perfettamente la complessa relazione tra Texas e Messico, allo stesso tempo contradditoria e complicata ma anche unica, intensa e profonda.
La dialettica sul ruolo dei latinos ci permette di passare dall’argomento confine a quello più generale sul ruolo del Texas all’interno del panorama statunitense attuale, constatando come anche in questo caso si possa parlare di un’apparente contraddizione: il Texas si presenta come una realtà unica con un’identità precisa, “altra” rispetto agli Usa, geograficamente periferica e politicamente ostile ai centri di potere nazionali, ma contemporaneamente è il luogo dove meglio di tutti e prima di tutti si potrà osservare la progressione della società americana.
L’incremento demografico ispanico nella stella solitaria è iniziato prima che nel resto del Paese, è più cospicuo e rapido, tanto che si può già definire minority-majority State, ovvero uno Stato senza una vera maggioranza etnica (che semmai dovrebbe palesarsi, tra meno di un lustro, con il volto dei latinos). È quindi evidente, nonostante la distanza dai capisaldi del potere finanziario e politico, New York e Washington, come la rilevanza del Texas assuma sempre maggiore centralità, tramutandosi per importanza socio-politica, da distaccata e remota area frontaliera in hearthland della nazione.
Il Texas dunque è il principale e più influente campo di battaglia in cui si potranno verificare le sorti della società statunitense, soprattutto in ambito demografico e culturale, ma conseguentemente anche politico. Solamente immaginare un Texas viola (colore assegnato agli Swing States durante le elezioni), che rappresenti quindi un’area elettorale in bilico, aprirebbe prospettive inimmaginabili fino a pochi decenni fa e decisamente inquietanti per i repubblicani, considerando i 38 Grandi Elettori che garantisce lo Stato nella corsa alla Casa Bianca.
Oltre a studiare il Texas per provare a carpire i possibili scenari sociali futuri è anche interessante focalizzarsi di nuovo sulla prospettiva “locale”, domandandosi come questi mutamenti influenzeranno l’ethos texano. I numerosi immigrati, siano essi legali o illegali, impiegati nei cantieri o laureati super specializzati, stanno modificando anche la società texana al suo interno: la polarizzazione sempre maggiore tra città aperte e multiculturali e aree rurali statiche e conservatrici minerà l’inscalfibile identità texana? Perché l’unica ma fondamentale cosa che da sempre ha unito tutte le stratificazioni e realtà differenti presenti nello Stato, dal mandriano bianco ultraconservatore allo studente metropolitano cosmopolita di origine messicana, è stato l’orgoglio fortissimo di essere texani, incentrato su un’identità precisa e con valori specifici, costruita sul passato, ma vigile sul presente e volta sempre al futuro, radicata nelle tradizioni ma al tempo stesso dinamica, avventurosa e incline al cambiamento pur di giungere al successo. Questi caratteri hanno forgiato la cultura texana, originale e inimitabile, costituita da un mix rielaborato di elementi propri del Deep South, del Far West, del Messico e dell’Europa, ben rappresentando la varietà regionale all’interno dello Stato: dinamismo economico della Sun Belt, folklore del West, tradizioni storiche del Dixieland e influenze latino-americane. La cultura texana è quindi il prodotto e il risultato di tutte queste componenti che, supportate dall’altrettanto particolare storia regionale, conferisce agli abitanti della stella solitaria un carisma innato, immagine di un’identità forte come in nessun altro Stato americano.
Questo sentimento ha quindi contribuito a una visione di sé che viene considerata distante e differente dal resto degli Usa, estranea, identificabile nella forma più estrema con il bisogno di richiedere l’indipendenza. Lo stesso celebre scrittore John Steinbeck ha coniato un’efficace descrizione di cosa sia il suo Stato, condivisa da tutti i texani: “Texas is a state of mind. Texas is an obsession. Above all, Texas is a nation in every sense of the word”. 3) Tuttavia anche qui emerge una contraddizione: molti dei valori alla base della mentalità locale risultano invece fortemente americani come l’individualismo, la libertà di azione e la volontà di emergere e arrivare al successo. Miller spiega questa antitesi affermando che in realtà i texani si rifanno ai valori, riguardanti l’America primigenia, che hanno ispirato l’Indipendenza del 1776 permettendo di sottrarsi alle ingerenze di un governo centrale coloniale… il corrispettivo del governo attuale, corrotto a partire dal centro del potere Washington.
In realtà probabilmente lo spirito d’avventura e l’amore per la propria patria, fondamenti dell’identità texana, trovano le radici nell’influenza dei coloni anglosassoni che hanno occupato l’area, caratteri che hanno poi trovato terreno fertile anche nella mentalità dei nuovi abitanti. La differenza è stata saper adattare in modo plastico questi valori a un contesto sociale unico, inedito e speciale. Anche per questi motivi, in un continuo gioco di passaggi incrociati, il Texas rappresenta il ventre degli Stati Uniti ma anche l’estrema periferia, ha una cultura composta da un miscuglio eterogeneo di elementi ma è allo stesso tempo identificabile, precisa, forte e peculiare, legata al passato ma proiettata al futuro, è lacerato dalla divisione tra metropoli cosmopolite e campagne conservatrici, è area di frontiera geopolitica ma anche centro di gravità della scena sociale statunitense, lontana e ostile da Washington ma protagonista assoluta del dibattito politico, è un po’ statunitense un po’ messicano. Tutte queste dicotomie possono essere spiegate considerando l’incredibile vicenda storica del tutto particolare della regione che ha permesso la creazione di una cultura veramente originale e irripetibile, né statunitense né messicana, ma texana. Il Texas costituisce, nonostante le maestose dimensioni geografiche, una versione in “miniatura” degli Stati Uniti, un microcosmo sempre più importante e influente che rispecchia le contraddizioni in essere di tutto il Paese. Il luogo in cui esistono e continueranno a persistere queste coppie antinomiche giocherà un ruolo sempre più determinante nel panorama nazionale: ma proprio le numerose dicotomie sembrano trovare nel Lone Star State, modello di sviluppo e successo, un reale equilibrio nella differenza, profondamente coincidente con l’autentica essenza texana.

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N O T E

1) In “Texas Nationalist Movement”.
2) Samuel P. Huntington (1927-2008) è stato un noto politologo statunitense, esperto di relazioni internazionali, famoso per aver sostenuto la teoria secondo cui i conflitti presenti e futuri sono principalmente dovuti alle differenze culturali, tesi espressa nell’articolo Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale (1993). Nei primi anni Duemila ha pubblicato altre opere in cui ha manifestato la convinzione che gli ispanici non saranno in grado di fondersi e integrarsi completamente nella società statunitense, anzi dovrebbero essere gli stessi americani, per salvaguardare la propria identità, a recuperare i fondamenti e i valori della tradizione anglo-protestante.
3) John Steinbeck, Travels with Charley: In search of America.