È opportuno precisare che per sostrato linguistico si intende una lingua estinta che ha lasciato delle impronte di sé, delle tracce in un’altra lingua. Detto ciò riconsideriamo che gli antichi popoli di cui si è parlato nelle scorse puntate si fusero tra loro con il trascorrere dei secoli, mentre le loro lingue venivano in contatto con quella parlata dai Romani, cioè il latino.
Ciascuna di queste genti esprimeva una cultura con peculiarità che le rendeva uniche, ma tutte subirono il fascino della civiltà romana e a poco a poco la fecero propria. La lingua latina attraverso un processo di secoli si dimostrò espressione di una civiltà più evoluta di quella di Liguri, Veneti, Celti o Longobardi.
Ognuna delle etnie finora nominate ha dato, in misura diversa, il suo contributo linguistico e quindi culturale alla formazione delle parlate latine volgari che caratterizzavano le varie aree della cosiddetta Italia cispadana e transpadana.

Se prendiamo per esempio la lingua dei Liguri, a parte alcune iscrizioni rupestri e alcuni suffissi presenti nei toponimi, essa non ci ha lasciato testimonianze scritte. 1) Si ipotizza che le antiche parlate liguri tribali (è importante sottolineare che l’etnia ligure era divisa in tante tribù e questo fu un motivo di grande debolezza di fronte all’espansione romana) abbiano lasciato un loro sostrato nel volgare dell’area sud occidentale dell’Italia settentrionale, in particolare nelle parlate delle aree corrispondenti all’attuale territorio della regione Liguria. Quest’ultima per la particolare conformazione del suo territorio, stretto tra i monti e il mare, favorì certo l’isolamento linguistico delle popolazioni autoctone; ma riconsiderando che abbiamo fonti molto scarse sul Ligure antico, l’attribuzione di antiche parole liguri è piuttosto difficile. 2)
I Venetici o antichi Veneti – che pure espressero una raffinata civiltà, come attesta il ritrovamento di delicati manufatti – lasciarono alcune tracce della loro lingua che si estinse a poco a poco man mano che essi si fusero con i popoli vicini. La lingua venetica, la quale secondo lo studioso Devoto era un parente prossimo del latino, si ipotizza abbia lasciato traccia di sé in un sostrato linguistico delle parlate volgari del nord-est padano, il centro di irradiazione della civiltà degli antichi Veneti. Seguendo quanto affermano gli studiosi Grassi, Sobrero e Telmon, la presenza di un sostrato linguistico venetico nell’area veneta rappresenta una spiegazione al divario dei dialetti veneti rispetto agli altri dialetti del nord Italia. 3)
La civiltà degli Etruschi, come abbiamo sottolineato nella prima puntata, espresse una presenza assai evoluta in alcune aree padane, ma non ebbe la forza di contrastare l’espansione dei Romani e dei Celti, e ciò si tradusse sul piano liguistico in un recedere dell’etrusco di fronte ai volgari latini.
Riconsiderando l’invasione delle varie tribù celtiche nella valle padana, essa coinvolse un numero molto ingente di individui, con considerevoli conseguenze sul popolamento delle aree sia a nord sia a sud del Po. I Galli (così i Romani chiamavano le tribù celtiche stabilitesi a nord e a sud del grande fiume), come gli altri popoli che li avevano preceduti, andarono incontro a un processo di romanizzazione e quindi di latinizzazione dei loro idiomi celtici. I cosiddetti Galli però, a differenza delle altre etnie, lasciarono nei volgari che si formarono e svilupparono nel corso dei secoli nell’Italia padano-alpina, una traccia considerevole delle loro lingue. Il risultato del processo di estinzione degli antichi idiomi gallici è la presenza di un sostrato celtico che ha contraddistinto le lingue di quest’area rispetto al territorio peninsulare. 4)
Le cosiddette lingue “gallo-italiche”, ossia il piemontese, il ligure, il lombardo e l’emiliano-romagnolo, così definite in quanto espressione della fusione di elementi linguistici gallici con elementi del latino volgare, hanno ereditato tale sostrato.
La palatalizzazione della a latina che diventa e è una caratteristica distintiva di molte parole presenti nei dialetti emilano e romagnolo; alcuni esempi sono: sel (sale), nes (naso), ned (nato), proprio come nel francese sel, nez e . 5) La presenza di questo fenomeno fonetico è riconducibile al fatto che il maggior numero di individui delle tribù di Galli che provenivano da oltralpe si insediò stabilmente nelle fertili pianure dell’attuale Emilia Romagna, lasciando una traccia della loro lingua nelle parlate volgari di queste aree. È importante sottolineare che il fenomeno descritto non interessa invece i dialetti a nord del Po, e ciò potrebbe suggerire che i Galli, nella loro avanzata, furono soprattutto attratti dal desiderio di fermarsi stabilmente nelle fertili pianure tra la riva destra del Po e l’Appennino.
Un altro fenomeno fonetico che riguarda i dialetti piemontese, lombardo ed emiliano e attesta il loro sostrato celtico è il cosiddetto scempiamento (riduzione) delle consonanti geminate, cioè una riduzione delle doppie, per esempio il latino caballu>kaval. 6) Vi sono poi trasformazioni che riguardano le vocali del latino volgare u e o che talvolta diventano ü e ö nei dialetti lombardi e piemontesi e – sempre in Piemonte e Lombardia – altri mutamenti vocalici come il latino volgare ct >jt in piemontese (láit) e >t∫ in lombardo (lac). 7)
Questi fenomeni fonetici propri dei suddetti idiomi appartengono anche ai dialetti francesi cosiddetti gallo-romanzi, attestando un comune sostrato celtico.
Da un analisi di questi fenomeni fonetici ricaviamo che i dialetti gallo-italici hanno, rispetto ai dialetti italiani, una maggiore economia nell’uso dei fonemi delle parole come avviene per la lingua francese.
Riconsiderando quanto abbiamo affermato fin qui, si può affermare che nell’Italia transpadana e cispadana, a differenza di quanto avveniva nel centro e nel sud della penisola, si parlavano volgari latini che avevano in sé considerevoli elementi linguistici di origine celtica.
Questo frazionamento etno-linguistico tra il nord e il resto d’Italia si rafforzò per via di una divisione amministrativa voluta dall’imperatore romano Diocleziano alla fine del III secolo d.C., per cui l’Italia fu suddivisa nei vicariati di Roma e di Mediolanum (Milano). 8) Il confine meridionale del vicariato di Mediolanum seguiva una linea che andava praticamente dall’attuale città di La Spezia alla città di Rimini seguendo il crinale dell’Appennino settentrionale. Quasi del tutto analoga a quello spartiacque etno-linguistico che oggi chiamiamo “Linea LaSpezia-Senigallia”.
Possiamo quindi concludere che l’Italia padano-alpina ha sviluppato, nel corso dei secoli, una propria identità linguistica, antropologica e culturale che l’ha differenziata dal resto dell’Italia, anche per fattori legati all’amministrazione del suo territorio in età romana.
I cosiddetti dialetti gallo-italici di cui stiamo parlando e il veneto vanno considerati vere e proprie lingue, alcune delle quali nel corso dei secoli hanno acquisito un carattere sovraregionale: è il caso del piemontese parlato nella città di Torino, che divenne capitale del ducato di Savoia e in seguito del Regno di Sardegna; del veneto, che fu per molti secoli espressione della potenza della Repubblica di Venezia ed era parlato anche ben oltre i confini del Veneto attuale.
Per contro, nelle aree dell’Emilia e della Romagna si sono sviluppati nel corso dei secoli idiomi più differenziati tra di loro. I motivi di tale varietà sono sia di natura etno-linguistica sia amministrativa: mentre la lingua pemontese o quella veneta si sono evolute all’interno di Stati unitari, in Emilia Romagna sono nati e si sono evoluti idiomi circoscritti a territori più frammentati. appartenenti a Stati diversi e quindi ad amministrazioni diverse.

Piemontese, veneto e koinè padana

Prima di procedere a un analisi di queste lingue, è importante considerare che esse ebbero come comune origine il processo di romanizzazione che investì la valle padana dal II secolo a.C. 9) Di conseguenza, alcuni elementi linguistici della lingua latina sono stati ereditati nei secoli dai dialetti piemontesi, lombardi, veneti ed emiliano-romagnoli. Da un analisi linguistica di quelle “celtiche”, ossia ligure, piemontese, lombardo, emiliano e romagnolo, si è potuto stabilire inoltre che in determinate aree confinanti questi dialetti si compenetrano uno nell’altro. Il risultato è una sorta di continuità linguistica che li accomuna in una forma di “padano continuo”. 10) Dicevamo che il volgare piemontese nacque e si sviluppò nel corso dei secoli dalla fusione delle parlate celtiche e celto-liguri con la lingua latina esportata dai Romani. Ė opportuno considerare che intorno all’anno 1000, mentre nell’area dell’antica Gallia transalpina si possono già distinguere due parlate differenti, una al nord e l’altra al sud, nella Padania nord-occidentale – in un territorio corrispondente a grandi linee con il Piemonte e la Liguria ma anche con la Lombardia e l’Emilia – era in uso presso gli uomini di cultura scrivere in lingua provenzale oltre che in latino. 11) Dovrà passare ancora un po’ di tempo prima che si sviluppi una lingua piemontese scritta, potremmo dire una vera e propria koinè usata in area pedemontana. Il primo documento scritto che attesti la lingua piemontese arcaica è una raccolta di prediche religiose databili tra il XII e il XIII secolo, i cosiddetti Sermoni subalpini che sono conservati alla Biblioteca Nazionale di Torino.
Questi sermoni sono una spiegazione in volgare rivolta alla gente comune di passi latini del Vangelo, e gli autori sono ignoti.

I Sermoni Subalpini, primo esempio di piemontese scritto.

La lingua adottata in queste prediche è la cosiddetta lenga d’oé, dove d’oé indica l’affermazione usata in questo idioma, così denominata dai glottologi e dai filologi per distinguerla da altre due lingue affini: la lingua d’oïl e la lingua d’oc dell’area transalpina (si tratta delle due lingue parlate nel nord e nel sud della Francia cui abbiamo precedentemente fatto riferimento).
L’analisi di questa raccolta mostra che quella usata è una lingua in fase di trasformazione, assai vicina come caratteristiche alla lingua d’oïl e alla lingua d’oc, ma del tutto autonoma, tanto che, come afferma Bruno Villata, le regole di grammatica della lingua d’oé le ritroviamo anche nel Piemontese arcaico e moderno. 12)
Si deve dunque concludere che, per i suoi legami con le lingue d’oltralpe, l’area piemontese restò divisa dal resto dell’Italia settentrionale per molto tempo. 13)
La lingua parlata nella città di Venezia, come abbiamo precedentemente accennato, si è imposta anch’essa sia nel parlare sia nello scrivere. Essa è stata condivisa in tutta l’area veneta fin dai secoli XV e XVI come espressione della potenza della Serenissima Repubblica; questa koinè aveva soppiantato o comunque influenzato le parlate dei centri minori, come Vicenza, Treviso e Verona. 14)
Analizzando le fonti letterarie risalenti ai secoli XII e XIII, si comprende come in area padana si stesse sviluppando una forma di volgare illustre. Si tratta della poesia religiosa del milanese Bonvesin de la Riva (1240-1315), di Uguccione da Lodi (di cui non è certa la data di nascita), di Gherardo Patecchio da Cremona (1221) e di Giacomino da Verona (1255-1260?). Questa lingua traeva origine da quei volgari in cui – potremmo dire – il latino era parlato “alla gallica”, cioè conservando elementi linguistici propri di quegli antichi idiomi celtici che nell’età antica erano utilizzati nella valle padana. Se osserviamo questa koinè letteraria, notiamo che essa differiva di molto dai volgari toscani e da quelli centro-meridionali (si pensi alla lingua usata da San Francesco e dai predicatori francescani in area umbra), dove l’influenza linguistica del latino è molto più evidente.
È un dato di fatto che chi poetava in lombardo-veneto, o in padano che dir si voglia, non riuscì a imporsi per personalità e ingegno oltre i confini dell’Italia settentrionale. Lo stesso discorso vale per gli autori che usavano la lenga d’oé piemontese, la quale come abbiamo osservato ebbe uno sviluppo nei secoli XII e XIII, ma di fatto rimase un fenomeno linguistico periferico.
Si ha notizia che alcuni poeti padani avessero adottato la lingua d’oc nelle loro opere. È il caso di Sordello da Goito (1200-1269) il quale fu giullare e trovatore. Il provenzale era una lingua molto in voga presso le corti padane, al punto che alcuni trovatori provenienti da oltralpe vi soggiornavano per lunghissimi periodi. La corte degli Estensi di Ferrara, per esempio, fu un polo di attrazione per i trovatori che componevano le loro opere in provenzale.
In definitiva, la koinè lombardo-veneta non riuscì a imporsi come volgare illustre sugli altri volgari della penisola. Il motivo è da ricercarsi nel fatto che tra i letterati che scrivevano in “padano” non vi furono personalità letterarie in grado di imprimere alla loro lingua quel salto di qualità necessario. A ciò si aggiunge che i particolarismi locali, potremmo dire i campanilismi – fenomeno che contraddistingue da sempre le popolazioni a sud delle Alpi – non hanno certo contribuito all’unificazione e all’espansione della parlata oltre i suoi confini originari. In ultimo, la divisione politica e amministrativa che caratterizzava i territori oggetto della nostra ricerca rappresentarono anch’essi, di fatto, un ostacolo a un processo di unificazione linguistica.
Sulla base di queste considerazioni, il toscano, per iniziativa del genio assoluto di Dante Alighieri che ben rappresentava il fermento culturale ed economico della città di Firenze, divenne il volgare illustre ufficiale anche di questa parte d’Italia. Ma l’analisi di questo processo non è oggetto della nostra ricerca.

L’eredità di celti, latini e popoli germanici

Per quanto riguarda l’influsso esercitato nell’area padana dai cosiddetti Galli e dai Romani, questi ultimi, dopo aver portato a termine la loro colonizzazione, ebbero sempre un atteggiamento liberale verso gli usi, i costumi e la lingua dei primi in cambio del loro vincolo di subordinazione. 15) Tale atteggiamento fu sempre prerogativa dei Romani verso i popoli vinti, e in questo caso ebbe un riflesso evidente nel sostrato linguistico celtico presente prima nei volgari locali e successivamente nei dialetti di queste parti.
Per quanto riguarda la successiva influenza esercitata dai Goti e dai Longobardi, è importante sottolineare che le loro lingue non andarono a sostituire i volgari latini parlati dalle popolazioni da loro sottomesse, come accadde invece in Britannia, dove le lingue dei vincitori germanici sostituirono sostanzialmente le lingue dei vinti. 16)
I volgari latini che erano parlati in tutta la valle padana furono sempre le lingue maggioritarie durante tutti gli anni della dominazione dei Goti e in seguito dei Longobardi, essendo inferiori di numero rispetto alle popolazioni autoctone.

Arte longobarda a Cividale del Friuli.

Nel lessico italiano ritroviamo parole di origine gotica e longobarda che a loro volta furono prese a prestito dai volgari latini parlati in territorio padano; si tratta di termini appartenenti al linguaggio della vita quotidiana e anche della vita militare. Alcuni esempi sono “bega”, gotico che indica un contrasto, una situazione difficile. “Sbronza”, dal gotico brunsts che indica l’azione di ubriacarsi, pratica a quanto pare molto diffusa presso i guerrieri germanici, come facevano notare gli autori latini del tempo. Le parole “stalla”, che deriva dal got. stalla, dimora, sosta; “arengo”, dal got. hari-riggs (circolo dell’esercito); “spia”, dal got. spaíha; “elmo” (got. hilms ), appartengono al linguaggio della vita militare. Il termine italiano “albergo” deriverebbe invece dal got. hari-bairg (in origine “rifugio dell’esercito”). I verbi “corredare” e “arredare”, invece, provengono dal verbo gotico garēdan, “fare provviste”.
Vi è poi tutta una serie di termini di origine longobarda che sono entrati nella lingua italiana sempre mutuati dai volgari latini e poi dai dialetti dell’area padana. Si tratta per esempio del termine ruspi, in italiano “grezzo”, “ruvido”, che ritroviamo nel veneto ruspio e nel milanese ruspan. Abbiamo termini longobardi propri della vita domestica come “stamberga”, che in italiano ha preso il significato dispregiativo di topaia, bicocca, e che in lingua longobarda aveva il significato di “casa di pietra” (<stainaberga). Il termine ha acquisito un senso spregiativo dato che i Longobardi, i quali per tradizione costruivano case di legno, dopo il loro incontro con la civiltà latina presero a edificare case in pietra ma con risultati alquanto insoddisfacenti.
Altri termini di origine longobarda sono “scranna” (skranna: panca) che in italiano corrente è chiamata sedia, ma è stata ereditata dai dialetti emiliano-romagnoli (scrana); “greppia” (<kruppja) che denomina la rastrelliera dove si mette il fieno all’interno di una stalla. Il termine “spranga”, che indica una sbarra di ferro per chiudere un portone, deriva dal longob. spanga (sbarra); mentre “milza”, un organo dell’addome, discende dal longob. milzi.
Ci sono poi una serie di verbi italiani come “trincare”, bere in modo smodato (ricordiamo il tedesco moderno trinken) e “spaccare”, rompere in modo violento (longob. spahhan, “fendere”), anch’essi di origine longobarda. Ricordiamo infine la parola italiana “grinfia” che indica un artiglio o una mano rapace, proveniente dal longob. grifan, cioè ghermire, afferrare.
Tutti i suddetti termini e verbi ci offrono informazioni preziose sugli usi e i costumi di questi popoli germanici svelandoci, al pari dei toponimi presenti sul territorio, gli aspetti umani e perfino pittoreschi del loro modo di vivere.

N O T E

1) Adolfo Zavaroni, Antiche iscrizioni liguri nella Tana delle Fate presso il lago Pratignano (Appennino modenese), edizione ridotta.
2) Emilio Azaretti, L’evoluzione dei dialetti liguri esaminata attraverso la grammatica storica del ventimigliese, Dai dialetti del ligure antico ai dialetti romanzi.
3) C.Grassi, A.A Sobrero, T. Telmon, Fondamenti di dialettologia italiana, Laterza, Bari 1997.
4) C.Grassi, A.A. Sobrero, T. Telmon, op.cit.
5) Bruno Lavagnini, Avviamento alla Glottologia, G.B. Palumbo Editore, Palermo 1946.
6) Tullio De Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita, Laterza, Bari 1983.
7) Ibidem.
8) Pazzaglia, Letteratura italiana: testi e critica con lineamenti di storia letteraria, Zanichelli, Bologna 1983.
9) C. Grassi, A.A. Sobrero, T. Telmon, op.cit.
10) Sergio Salvi, La lingua padana e i suoi dialetti, La libera compagnia padana, 1999.
11) Roberto C. Sonaglia, Da Ciullo D’Alcamo ai Sermoni subalpini, in “Etnie”, 24.05.1997.
12) Bruno Villata, La lenga d’oé e le lingue d’oc e d’oíl, Editore Savej, 2011.
13) Bruno Migliorini, Storia della lingua italiana, Sansoni, 1962.
14) C. Grassi, A.A. Sobrero, T. Telmon, op.cit.
15) Francesco Coco, Introduzione allo studio della dialettologia italiana, Storia della lingua italiana e dialettologia, Patron, Bologna 1982.
16) Mario Mijno, Toponomastica di Inghilterra e Scozia, Edizioni Etnie.