Una misteriosa figura mitica riempie la toponomastica dell’alta valle del Sarv, chiamata la Bürsch: 1) è quella che i cartografi dell’Ottocento indicavano come la “Veggia”, nella parlata locale la Vègia, da cui prendono nome il principale laghetto alpino, il passo che conduce da Piedicavallo alla valle del Lys e un curioso sperone roccioso detto il dent dla vègia.
Cos’é questa misteriosa vègia che il cristianizzatore senatore Rosazza ha umanizzato in val Gragliasca su un sentiero di antiche devozioni perdute? Il folklore locale, o almeno quel che ne resta, non pare aver dubbi perché identifica questa figura mitologica con una persona del passato e la lega indissolubilmente allo specchio d’acqua profondo una decina di metri che prende il suo nome, a 1858 metri d’altezza sul livello del mare, e che, incassato tra alte rocce, nei giorni di nuvole o di pioggia ha un aspetto decisamente triste, tetro, sinistro.
Secondo una leggenda molto nota e suggestiva raccolta da Piero Torrione, la donna del lago sarebbe stata una giovane d’una stirpe pagana usa a celebrare riti propiziatori su pietre magiche, legata sentimentalmente a un giovane guerriero morto improvvisamente in una notte di tregenda. Sconvolta e disperata, l’innamorata si sarebbe rifugiata sulla montagna nei pressi del laghetto con la sola compagnia d’un orso; tenuta dai valligiani in fama di masca (strega), sarebbe invecchiata precocemente fino a morire di stenti e di dolore. Il suo povero corpo sarebbe stato calato sul fondo del lago dove si sarebbe prodigiosamente unito in un abbraccio spirituale all’anima del suo innamorato.
La misteriosa e inquietante figura d’un fantasma con l’aspetto di donna dai lunghi capelli s’aggirerebbe senza pace nei pressi del lago nelle notti di luna nuova.
Un altro racconto fantastico identifica la vecchia con la sposa d’un sovrano pagano giunto da una contrada lontana conquistata dai dominatori di Roma antica. Sarebbe morto in esilio presso il laghetto alpino da cui nasce il Sarv, sepolto in fondo al lago dalla vedova inconsolabile, rimasta a errare per la montagna. Considerata dalla gente del posto una terribile strega, da evitare a ogni costo, spirò anch’ella e venne sepolta tra le acque limpide ma oscure dello specchio alpino.
Una terza favola presenta la vecchia come una… giovane abbandonata poco prima dal fidanzato, costretto a partire per il servizio militare. Passati i mesi, del giovanotto non si seppe nulla finché una fattucchiera che viveva isolata in una casupola mezza diroccata, interrogata dalla giovane, le avrebbe rivelato che l’innamorato sarebbe stato ucciso in guerra. Consolatasi in fretta, la giovane avrebbe deciso di convolare a nozze con un facoltoso possidente forestiero; ma proprio mentre si celebrava la cerimonia nuziale, sarebbe comparso uno scheletro nerovestito, l’anima inquieta del defunto innamorato, e la giovane sarebbe fuggita sui monti spaventata e sconvolta finché il suo corpo senza vita sarebbe stato rinvenuto dagli alpigiani sul bordo del lago.
Mentre un granito posto al culmine del colle invita alla fraternità alpina le popolazioni delle valli messe in comunicazione, la scritta incisa su un grande masso prospiciente lo specchio d’acqua a corredo dell’immagine della Vecchia, rivela l’influenza delle elucubrazioni esoteriche e del mondo dei beati spiriti del Rosazza rimaste incise nella dura roccia. 2)
Con un linguaggio criptico, l’alpigiana inizia ricordando una vita infelice: “Fra quest’onde cercai la pace che in terra mi donò l’amor per lunga età di pianti”; prosegue affermando che “nella donna del lago più cocenti soffrii i martir per la mancata fede nel signor dell’universo che dai mortali virtù vuol di sacrifizio”, e conclude proclamando d’aver “conseguito alfin la pace coll’aiuto degli eletti suoi che lieta fecer la sorte mia nel vedervi passar per questa via”, ovviamente iniziatica.
È assai probabile che successive sovrapposizioni e manipolazioni abbiano finito per associare un antico mito ancestrale a nuovi e più suggestivi racconti, confluiti in una confusa fusione di credenze leggendarie.
Senza dubbio però la Vègia della tonomastica richiamava la Madre Terra del passato, generatrice e procreatrice. Qualcosa come la Mari basca? Un mito cancellato e rimosso? Sopravvissuto in tanta parte dell’Arco Alpino? La sacralità delle rocce non è mai andata perduta: per esempio a Oropa è appartenuta al Ròch dla vita mentre in val del Sarv si è perpetuato nella figura della Vègia regina, amante e madre. 3)
È assai probabile che l’esito più tragico della giovane della Bürsch sia una reminiscenza di effettive tragedie montane; e che l’insistenza nel deplorare e criminalizzare come stregonesca la vita solitaria e appartata, sia anche un messaggio agli abitanti della valle affinché non cadano nel baratro dell’asocialità, ma accettino di buon grado la vita serena ed equilibrata che per secoli ha caratterizzato tutta la Bürsch. Un passato di vita dura e faticosa, ma serena.

Altre “vecchie”

Anche nelle tradizioni che circondano il lago della Vecchia non mancano riferimenti a una realtà perduta. Per esempio, incuriosisce non poco che il tratto dove la carrozzabile verso Oropa s’inerpica con maggiore pendenza sia noto come “La Vecchia” e vi sia stata eretta una cappelletta detta “dell’acqua”, con una fontana all’interno.
Ma a poca distanza dal santuario esiste anche un specchio d’acqua alpino che prende il nome evocatore di “Lago della Mora”. Colpisce il fatto che il sentiero che lo raggiunge inizi proprio all’altezza dell’ultima cappella del Sacro Monte, dove termina un percorso devozionale in salita che presenta all’interno del primo edificio un quadro statuario la cui scena é dominata da un grande drago.

lago dla vegiaSe si pensa che per il torrente Oropa è ancora viva la leggenda funerea di un’acqua traditrice “ch’amassa” e che nel lago di Viverone si credeva esistesse un essere infernale domato dal beato Bonomio, si potrebbe pensare che il gruppo statuario ricordi qualche tradizione su presenze maligne proprio al vertice della montagna cristianizzata. Magari nascosto dentro il Lago della Mora, da cui si scende lungo il “Canal Secco” che scorre accanto al cimitero di Oropa e si versa nel torrente Oropa sotto l’alpe di San Bartolomeo.
Il destino è stato benigno con il simbolo etnico biellese, perché, invece di essere occultato, l’orso della montagna è stato esibito e onorato nel graffito del lago dla Vègia, ammansito, rabbonito e tranquillo accanto alla sua padrona.
Parlare di totem della nostra stirpe non è affatto azzardato, anche perché la sua esaltazione è comune a diverse località delle Alpi. Alcuni reperti rinvenuti nelle grotte di varie località europee, in particolare da Emil Bächler in Svizzera, hanno spinto diversi studiosi ad azzardare l’ipotesi dell’esistenza nell’antichità di un vero e proprio “culto dell’orso”, rendendo un omaggio rituale al grosso animale che si aggirava, imprevedibilmente aggressivo, anche sulle nostre montagne.

Si ritiene che lo stemma della Città di Biella con l’orso e la quercia sia ricollegabile alla vicenda dolciniana, quando nel 1306 la città organizzò le milizie comunali contro Fra Dolcino, il quale si era rifugiato sui monti di Trivero e Mosso: è probabile che in quell’occasione il Comune sia stato autorizzato a fregiarsi di un proprio emblema, tant’è che Torrione nota come “in tale periodo è tradizione che anche gli Avogadro ed altre famiglie novaresi che combatterono l’eresiarca abbiano avuto l’onorifico uso dello stemma”.
Probabilmente però l’origine di questo emblema potrebbe essere ben più remota, come quella del famoso leone britannico che, secondo lo scrittore Frederik Thomas Elworthy, non sarebbe “un semplice oggetto di blasonato araldico” ma piuttosto “il totem originario dei nostri antenati celti”.
Va da sé che gli attuali nomi dell’orso, dall’inglese bear (dall’antico bera correlato allo scandinavo bjorn) al tedesco bar (dal germanico bero) hanno una non casuale assonanza con il toponimo Biela.
Piero Torrione scrive che per i cristiani la figura dell’orso per tutto il medioevo è stato “il simbolo della Chiesa e della Provvidenza”, ma prima ancora tra i celti s’incontrano degli orsi chiamati artaios.
Nel suo interessante Dizionario ragionato dei simboli, Giovanni Cairo giunse alla conclusione, perfettamente esatta per i biellesi, che l’orso era “l’esempio sopravvivente più certo del totemismo”.
Sui sentieri montani della Vègia il possente feticcio etnico è presente inciso nella roccia, calmo e placido, ammansito accanto alla montanara. Par quasi che rida.

N O T E

1) Il fiume Sarv è ufficialmente italianizzato in Cervo (ma ovviamente non c’entra nulla con il biungulato), mentre il nome locale della valle, Bürsch, significa casa, terra, nel senso che oggi si indica con “matria” [NdR],
2) Federico Rosazza (1813-1899), senatore del Regno d’Italia, era un gran maestro della massoneria. Creò numerosi percorsi montani nella valle del Cervo, seminando qua e là simboli esoterici [NdR].
3) Il ròch dla vita (sasso della vita) a Oropa era una delle tante rocce propiziatrici della fecondità, meta in età precristiana di pellegrinaggi femminili. Il cattolicesimo pose freno all’usanza pagana inglobando il masso in una chiesa.