Ogni popolo ha il suo modo di festeggiare una nuova vita: vediamone qualche simpatico (e tenero) esempio.

Non tutti sanno che in Italia esiste una legge, la 113 del 29 gennaio 1992, che obbliga i Comuni a piantare un albero per ogni bimbo venuto al mondo, indicandone la precisa ubicazione sul certificato di nascita. Per quanto non sia una direttiva molto rispettata (per citare un caso, la città di Firenze ha messo a dimora in media un albero all’anno a fronte di quasi 3000 neonati), è un modo di introdurre anche da noi un piccolo rito, utile e simpatico, che viene tradizionalmente praticato da molte popolazioni del pianeta.

Piccoli semi crescono

D’altronde il rapporto simbolico tra un bimbo che nasce e un seme che germoglia dalla terra è quanto mai immediato, soprattutto presso le comunità che vivono a stretto contatto con la natura. Per esempio, i maori delle Isole Cook, in Nuova Zelanda, hanno l’abitudine di seppellire la placenta nel terreno dopo il parto, piantando al di sopra un albero di cocco. I familiari, di tanto in tanto, effettueranno un sopralluogo per controllare la crescita della palma: a seconda che sia vigorosa o meno, stabiliranno se il bambino diventerà sano e forte oppure debole e cagionevole. Interessante anche il destino del cordone ombelicale, che viene gettato in mare se il neonato è maschio o nelle acque interne se femmina. Perché, affermano gli isolani, “lo spirito dell’uomo appartiene all’oceano aperto, quello della donna alla laguna che sta al di qua della scogliera”.

Grazie a Madre Terra

Non avendo abbondanza di acque tra cui scegliere, i kamba – comunità di lingua bantu del Kenia – si limitano a seppellire cordone a placenta appena fuori della capanna in cui è nato il bambino (dell’operazione si incarica la levatrice, dopo avere aiutato la mamma a partorire in posizione accovacciata). Questa usanza potrebbe rappresentare una forma di ringraziamento alla Madre Terra per la vita ricevuta in dono, ma esistono popolazioni che le attribuiscono un significato più prosaico, che ricorda certe… aspirazioni nostrane: secondo le donne della nazione navajo, nel sud-ovest degli Stati Uniti, seppellire il cordone ombelicale nei pressi dell’abitazione familiare dà la sicurezza che il figlio tornerà sempre a casa. Quanto alla placenta, viene spesso interrata accanto all’oggetto che simboleggia la professione che i genitori si augurano per lui. Il che – osservano gli antropologi – spiegherebbe la grande quantità di stetoscopi rinvenuti nel territorio…

Quante cerimonie

I kamba e gli altri abitanti delle savane, come i masai, festeggiano in modo gioioso l’arrivo di un bambino, uccidendo una capra (due o più se si tratta di gemelli, o un bue se è figlio di un capo) e ringraziando Dio con canti e preghiere. In molti casi è usanza far dormire il neonato tra la moglie e il marito finché la puerpera non abbia avuto le prime mestruazioni dopo il parto. Le reazioni di fronte alla nascita di una maschio oppure di una femmina sono sostanzialmente identiche: in genere presso le comunità cosiddette “primitive” – quelle cioè che vivono di caccia e di raccolta – uomini e donne collaborano in modo armonico all’approvvigionamento di cibo e di conseguenza il “maschilismo” è relativamente ridotto. Le cose vanno diversamente dove la società è più complessa, articolata, e un’economia prevalentemente agricola rende più vantaggioso avere un buon numero di figli maschi in grado di lavorare la terra. Ecco perché nella raffinata tradizione induista (diffusa in India, Nepal e sud-est asiatico), tra le decine di cerimonie destinate a propiziare una gravidanza felice troviamo il pumsavana, rito che si celebra al terzo mese per ottenere la grazia di un figlio maschio.

Isole in festa

Ma non tutto l’induismo considera una sfortuna appendere un fiocco rosa. Nella sorridente isola indonesiana di Bali, dove gli indù sono oltre il 90%, le donne occupano una posizione di assoluto rilievo. I balinesi amano dipingere, suonare, ballare e… festeggiare qualsiasi evento. È quindi comprensibile che un’occasione speciale come la maternità ispiri dozzine di cerimonie. Per esempio, appena portato alla luce il bimbo, la levatrice prende la ari-ari (placenta), la lava in acqua profumata, la ripone in una mezza noce di cocco piena di fiori e quindi – più o meno come abbiamo visto fare ai navajo – la consegna al neopapà affinché la seppellisca all’ingresso della casa, a sinistra se femmina, a destra se maschio.
Dopo il primo respiro vitale il calendario del neonato balinese si infittisce. Effettuata una serie di rituali e di offerte alle divinità, al 12° giorno i genitori si convincono che la sua anima è saldamente ancorata al corpo e possono azzardarsi a mettergli un nome. Al 42° diventa ufficialmente membro della famiglia. Nel frattempo al piccino non viene concesso di toccare il suolo, e soltanto al 105° giorno gli adulti smettono di tenerlo in braccio, festeggiando l’avvenimento con un banchetto.

Il nome è una cosa seria

Non è insolito che il nome venga assegnato soltanto quando si è sicuri che l’anima del figlioletto non rischi di… volare via. Fin dalla preistoria, per molte popolazioni le due entità sono quasi sinonimi ed esiste la convinzione che pronunciando il primo gli spiriti malvagi possano appropriarsi della seconda: di qui la scelta di tenere segreto il nome o di non imporlo affatto finché il bimbo non sia cresciuto. Oppure, come avviene in alcune comunità haitiane, nigeriane e rom, di assegnarne due alla nascita, uno dei quali mantenuto segreto e rivelato al ragazzo soltanto quando sarà abbastanza grande da difendersi da solo. Alcune famiglie vietnamite per scegliere il nome non si limitano ad aspettare che faccia effetto la “vaccinazione” antispiriti (intorno al primo mese, da quelle parti), ma invitano parenti e amici a non rivolgere complimenti al neonato; al quale, anzi, indirizzano epiteti come “brutto” o “rospo”, poiché pare che le entità malvagie perseguitino di preferenza i bambini più belli.
In altri luoghi il problema non si pone. In Giappone un’antichissima tradizione detta ochichiya prescrive di imporre il nome già al 7° giorno dalla nascita, comunicandolo ai propri conoscenti con un biglietto allegato a un piccolo regalo. Amanti delle cerimonie non meno dei balinesi, i nipponici festeggiano il primo mese di vita portando il piccino al tempio tutti assieme, genitori e nonni. E al 100° giorno, l’okuizome: il bebè viene fatto sedere a tavola con il resto della famiglia per augurargli un futuro pieno di delizie gastronomiche.

Non chiamatela Hans

Sempre a proposito di nomi, i tedeschi non hanno certo paura che uno spirito si porti via l’anima del neonato, ma vogliono essere sicuri che nessuno metta in forse la sua identità sessuale. In Germania esiste infatti un’apposita sezione dell’anagrafe con una lista di “nomi accettati” a cui i genitori si devono attenere. E non è una trovata così assurda: le autorità vogliono evitare che una volta cresciuto un ragazzo si trovi oppresso da un nome ridicolo o tipico del sesso opposto. Per la cronaca, i cinque nomi maschili più gettonati nella Repubblica Federale sono Maximilian, Alexander, Leon, Paul e Lucas; quelli femminili, Marie, Sophie, Maria, Anna e Lea.
In definitiva la “paura del nome” è sconosciuta ai popoli europei, se non altro perché essendo cristiani praticano il rito del battesimo. Presso alcune confessioni, come quella greco-ortodossa, viene posta grande enfasi sull’individualità assicurata dal nome, fonte di grande dignità del neonato agli occhi del Signore. In Grecia si usa immergere il piccino tre volte nel battesimale, a simboleggiare i tre giorni trascorsi da Gesù nel sepolcro. Presso altre comunità ortodosse, come in Georgia o tra le minoranze cristiane del Kazakistan, l’immersione avviene invece in laghi e fiumi, che in inverno hanno temperature estremamente rigide.

Riti… spericolati

Più che esporlo al gelo, il bebè andrebbe circondato di tanto calore… È quello che sembrano pensare le mamme aborigene della zona di Kimberley, in Australia, maestre nell’arte dell’“affumicazione infantile”. Nulla di cui allarmarsi: viene acceso un fuoco di arbusti di koongera, una pianta sacra, e mentre la puerpera fa sprizzare il proprio latte nelle fiamme, la nonna fa ondeggiare il neonato sul fumo, purificandolo e fortificandolo.
Se la procedura sembra rischiosa, che dire del “salto dei bambini”, che si tiene da 4 secoli a Castrillo de Murcia? Per ricordare i pericoli corsi dai maschietti sotto il regno di Erode, in questo piccolo villaggio spagnolo ogni anno alcuni uomini travestiti da diavoli saltano una fila di neonati adagiati sul terreno. Una delle poche usanze del mondo da non imitare…

Speriamo che sia maschio

In alcuni paesi ancora legati alla tradizione contadina, dove i figli maschi rappresentano un’indispensabile forza lavoro, l’aborto selettivo ha portato negli ultimi decenni a una preoccupante diminuzione della popolazione femminile. Il caso più vistoso è la Cina: mentre a livello planetario la media è di 107 fiocchi rosa ogni 100 azzurri, nel grande Paese asiatico sembra che manchino all’appello 30 milioni di donne. Altrettanti uomini cinesi rischiano dunque di restare… celibi!
Situazione non troppo diversa in alcune regioni dell’India: qui la tradizione costringe i genitori di ogni neonata ad accantonare una cospicua dote, che andrà ad arricchire la famiglia del futuro consorte. Se a questa prospettiva si aggiunge l’obbligo per le ragazze di accudire mariti e suoceri, diventa evidente perché parte della società indiana non veda di buon occhio l’arrivo di una bimba né tantomeno sia motivata a investire nella sua educazione. Per correre ai ripari, il governo centrale ha promesso di assegnare alle famiglie disagiate 15.500 rupie (circa 240 euro) per ogni figlia femmina, aggiungendone altre 100.000 (1500 euro) al compimento dei 18 anni, a patto che la ragazza venga allevata e nutrita in modo sano e riceva un’istruzione adeguata.

Signora, si accomodi…

In Brasile le future mamme vengono trattate come regine. A differenza di quanto accade in altri Paesi pur civilissimi, una donna incinta non dovrà mai fare la fila allo sportello, né capiterà di vederla viaggiare in piedi su un mezzo pubblico. Anche una volta lasciato il reparto di maternità, lei e il neonato saranno oggetto di continue attenzioni, visite e regali. In cambio, la neomamma offrirà a parenti e amici qualche piccolo dono (in genere profumi e dolcetti) con un bigliettino di ringraziamento da parte del bimbo.
Questa tendenza a iperproteggere la maternità ha però un risvolto negativo: il Brasile detiene il record mondiale dei parti cesarei, ben 40 su 100. Esattamente l’opposto di quanto avviene nell’Africa settentrionale araba, dove una partoriente che ricorresse alla chirurgia verrebbe additata come una madre debole e incapace.