Solide ed efficaci, le struttura abitative degli alti pascoli sono le ultime testimonianze dell’economia alpina che scompare.

Leggere la storia dei popoli nelle tracce di pietra e calce che essi hanno lasciato dietro di sé, rintracciare con esse le dimenticate vicende delle loro antiche libertà, delle autonomie minacciate, dei secolari conflitti con le autorità ed i potenti, è forse un velleitario modo di dare il giusto significato e di rendere appieno il valore che le vecchie mura conducono con sé nel tempo. E ciò è tanto più urgente oggi quando, alla fine di un periodo in cui l’umile architettura popolare è stata sbrigativamente considerata edilizia fatiscente da abbandonare o su cui intervenire per diradamento e sostituzione, arrivando addirittura a considerarla innominabile retaggio di appena superata inciviltà (si pensi ai Sassi di Matera e alle concordi valutazioni che su di essi tutta la Cultura Politica degli anni ’50 ha dato), si è giunti ad una fase in cui, miseramente crollati i tristi status- symbol del recente modernismo (il condominio in centro, l’autostrada urbana, il centro direzionale), si guarda agli insediamenti cosiddetti “storici” con una brama di “rivalutazione” e di “recupero” per lo meno sospetta. “Antico è bello” è uno slogan che troppo facilmente si sente sbandierare dalle più disparate parti; congiuntura culturale (crisi del moderno), economica (crisi dello sviluppo) e politica (similarità nei fatti tra conservatorismo ed interessato progressismo) hanno condotto ad una valutazione di ciò che la storia ci ha consegnato di tipo, nel migliore dei casi, antiquariale ed estetico, quando non di sola pura epidermica facciata, mera copertura di inesistenti valori. Nel migliore dei casi domina la posizione accademica di chi valuta l’antico col metodo dello storico generico e del necrofilo, di chi legge cioè nelle pietre solo le ricorrenze tipologiche e forse quelle formali, ritenendole quasi prodotto automatico di un processo “scientifico” di formazione di per sé alimentatosi e che come tale quindi va salvaguardato a costo di cristallizzare anche episodi vivi (quindi passibili di deviazioni) in astratti schemi fissi; in questa concezione gli uomini di oggi come quelli di ieri non esistono, o sono meri piccoli accidentali ingranaggi di quel processo dato per automatico che produce le cose, assimilando la storia ad un unico indistinto fiume ove scompaiono antagonismi e lotte, espressioni autonome e andature contro corrente, grandi oppressioni e piccole libertà, modi dominanti, nascoste invenzioni, e perfino le rivolte collettive ed individuali. L’omogeneizzazione del Potere tenta oggi addirittura di riscrivere, correggendolo dalle devianze, il passato; stende così la sua fosca coltre anche sui piccoli, modesti segni di calce e pietra, con i cosiddetti “ripristini” ma anche con “restauri” e “risanamenti” che lasciano dietro a sé mummificati simulacri di ciò che era corroso dalla storia e scritto da mani povere e solidali: gelide geometrie, niente più che spettrali immagini, bonificate dall’immediato gesto dell’abile artigiano o dell’immaginifico contadino, linee irrigidite, superfici lisce, rilucenti smalti, rifiniture prodotte in serie. Ciò che è realmente importante è invece riuscire a leggere ed a tenere viva l’umile storia dei popoli, la misconosciuta cultura di anche minuscole etnie, il patrimonio e l’identità di libere genti; perché è da queste dirette ed autonome espressioni che si può pensare o sognare una libertaria ricostruzione sociale.

Malghe e stalle degli alti pascoli

Dunque lo studio dell’architettura popolare (non “minore” né “spontanea”) non può che essere parte del più vasto approccio costituito dalla valorizzazione delle culture popolari e delle loro molteplici, versatili manifestazioni; pena il cadere in schematismi tecnicistici che fanno perdere la quasi interezza del messaggio di queste, invece, meravigliose architetture. Questa lunga premessa è necessaria per capire fenomeni contrastanti altrimenti illeggibili nella completezza del loro significato. Le malghe e le stalle dell’alta Lessinia montana costituiscono a prima vista un fenomeno anomalo nel panorama edilizio dell’altopiano, tendendo ad una riscontrabile similarità tipologica in una terra diversamente caratterizzata dal prolificare di variate espressioni architettoniche anche per analoghe funzionalità, una terra dove un popolo scontroso e geniale per secoli ha provato infinite forme da solidificare nelle pietre dei propri villaggi; parrebbe quasi che soluzioni tecniche e strutturali decisamente sapienti e sofisticate abbiano intimidito ulteriori sviluppi e possibilità di alternative, che la fantasia degli abili costruttori delle alte quote sia stata ad un certo punto incanalata verso direzioni precostituite. Alla ricchezza, operosità, molteplicità quasi caotica, al modificarsi a volte segnato da bruschi cambiamenti delle contrade abitate, pare qui sostituirsi una accentuata ripetizione dei fondamentali elementi strutturanti. Peraltro ad un attento esame di natura storica e documentale, anche questo fenomeno presenta − o meglio presentava − una rilevante diversificazione al suo interno, precisamente una dualità, che induce ad approfondire ulteriormente le letture comparate dei sistemi edificati, cercando di individuare le rispettive condizioni-matrici che hanno prodotto le diverse realtà. Oggi le superstiti malghe e stalle degli alti pascoli si trovano prevalentemente nella parte mediana e occidentale del rilievo montuoso, tutte costruite interamente in muratura con un sapiente uso della pietra lastriforme locale. Degli antichi insediamenti siti nella più erta e boscosa parte orientale non restano che tracce documentali; da alcune preziose fotografie di B. Schweizer (1) nonché dalla descrizione del Bancalari (2) e del Baragiola (3) in questo romito lembo di alta Lessinia, corona di chiusura a monte della appartata valle di Ljetzan-Giazza, ove più duratura ed originale si è mantenuta la cultura “cimbra” (tratti somatici, linguaggio, tradizioni), ci vengono tramandate notizie sull’esistenza di malghe costruite in legno e coperte col tradizionale canel padano (paglia di palude). Il Baragiola ci informa anche che in queste malghe orientali l’economia alpestre aveva una gestione diversa da altrove, essendo qui direttamente correlata alla proprietà dei pascoli e del bestiame, con un espletamento cooperativistico derivante dall’unione in una stessa malga di bestie di diversi pro-prietari “che si danno tra loro il cambio nell’esercizio e nell’usufrutto della medesima”. (4) Arcaiche, dunque, e plasmate con materiali “teneri”, le malghe orientali, pur presentando similare distribuzione interna (tripartita trasversalmente) a quelle della Lessinia centrale e occidentale, da esse differivano per l’aumentata complessità di spazi aggregati nonché per la variabilità di molteplici elementi; si trova ancora in esse, nel basamento seminterrato in pietrame a secco, un locale chiamato kasar per l’immagazzinaggio del formaggio, nonché sul fronte, solitamente in pendio esposto a sud, la sporgenza di una intera falda del grande tetto in paglia che, oltre a proteggere l’accesso al kasar, formava un’ampia tettoia, detta palsa, sotto la quale avveniva la mungitura delle vacche; ed infine sul retro della malga, lato nord, la corrispondente quarta falda del tetto, scendendo spesso fino a terra, ospitava sotto di essa il porcile, chiamato porzil. (5) La configurazione degli edifici doveva variare anche di molto se già in questi pochi casi di cui si hanno notizie si rilevano notevoli differenze nelle forme, nelle soluzioni particolari, addirittura nei rapporti dimensionali tra le parti, e dunque nella loro complessiva fisionomia; una variabilità che denuncia l’esistenza di un processo di modificazione delle strutture il quale non poteva che essere legato ad una diretta e completa disponibilità delle stesse da parte del popolo dei malgari. Diversamente, le malghe e le stalle costruite in pietra, site negli elevati pascoli della Lessinia centro-occidentale, giunte sino a noi in buona parte ancora funzionanti, possono essere considerate episodi architettonici ben più definiti nella loro struttura e configurazione fin dall’origine, all’interno di una tradizione costruttiva ormai consolidata, ben più rigidi a mutazioni, adattamenti, interpretazioni particolari. Troviamo questi edifici quasi sempre in coppia, distanziati tra loro di qualche metro, in posizione irregolare (a differenza delle “malghe a corte” geometricamente disposte dell’altopiano dei VII Comuni di Asiago e di zone del Trentino), isolati sulle lunghe e dolci dorsali dei monti o sull’apice dei pendii. La loro similarità si rileva sia nella matrice d’impianto che nelle soluzioni tecniche relazionate ai particolari processi produttivi in esse espletati. Del resto, se alcuni particolari architettonici possono considerarsi funzionalmente vincolati (ad esempio le basse e larghe finestre al livello del pavimento, necessarie per creare condizioni climatiche adatte all’affioramento naturale della panna), il ripetersi di parecchi altri elementi dello schema d’impianto complessivo (affine addirittura a quello riscontrabile nelle malghe del vicino monte Baldo) nonché un sistema strutturale assai sofisticato ed impegnativo, denunciano una situazione anomala rispetto sia a quella che può avere generato le antiche malghe lignee d’alta quota della Lessinia orientale, sia a quella presente in genere nella fascia abitata stabilmente dell’altopiano. Peraltro, innestandosi sullo schema-tipo originario, trovano posto anche qui elaborazioni variegate che oltre a risentire dei diversi siti (le malghe in pendio ad esempio continuano a presentare il vano seminterrato) evidenziano interpretazioni diversificate in relazione probabilmente anche a diverse epoche di costruzione e a diversi soggetti operanti. Osservando nello specifico la malga di pietra, essa, edificio unitario a pianta rettangolare allungata, può articolare la propria massa in due corpi, dunque col tetto a due diverse altezze e con falde di diversa pendenza; la pianta del piano terra è tripartita in spazi a tutto corpo allineati lungo l’asse longitudinale (similarmente alla malga lignea). Nella parte centrale dell’edificio il vano di dimensioni più ridotte costituisce l’entrata, cui si accede da due porte poste sui lati lunghi dei muri perimetrali; da esse si raggiunge il vasto locale sito verso sud, il logo del late, ove in grandi tazze circolari poco profonde viene fatta affiorare la panna. Raffinato e prezioso è qui il sistema di climatizzazione naturale, incentrato su finestre (di cui si è già accennato) basse e larghe, a volte ulteriormente suddivise orizzontalmente da sottili lastre di pietra a formare una feritoia orizzontale di pochi centimetri, sempre aperta al livello del pavimento, ed una corrispondente appena sovrastante finestra con inferriata chiudibile con oscuro incernierato nella parte superiore, regolatore della quantità dei flussi d’aria. Ancora dall’ingresso si accede all’altro vasto locale che caratterizza l’edificio, il logo del fogo, contenente, sulla parete di testata nord, il grande focolare necessario alla lavorazione del latte. Qui le finestre, due, una per parte sui lati lunghi dell’edificio, sono di dimensioni e di posizione normali; trova posto qui anche l’acquaio monolitico in pietra con scolo esterno in genere costituito da canale di pietra scolpita, e l’arredo necessario alla vita dei malgari. A lato del grande focolare, una mensola su pilastrino girevole in legno consente di manovrare i grossi recipienti dove viene lavorato il latte e che danno anche forma alle incavate pietre costituenti la base del camino. In questo tipo di edificio può esistere un piano sottotetto (per lo più corrispondente alla parte centrale dell’edificio) quale ripostiglio e dimora notturna per i malgari, avente qualche piccola e quadrata finestrina sui muri perimetrali. La scatola muraria interamente in pietra dell’edificio è composta sia dai muri perimetrali che dai due setti trasversali interni che tripartiscono la pianta. Per sostenere il pesante tetto (colmo in direzione dell’asse longitudinale, con manto di copertura sempre in lastre di pietra di Prun), la struttura si articola in modo assai interessante, poiché oltre alla scatola muraria sopra descritta si avvale di alcuni arconi a tutto sesto formati da grossi conci di pietra, posti trasversalmente all’asse longitudinale; tali arconi, che vanno da muro a muro e che all’esterno degli edifici appaiono evidenziati dallo sporgere dello spessore del muro di relativi contrafforti a costoloni piramidali (che peraltro ricordano assai significativamente le grosse travi lignee inclinate e incassate a terra dei tetti delle antiche malghe lignee), sono posti a distanza di qualche metro tra loro ed hanno la funzione di infittire la serie delle strutture portanti trasversali già costituite dalle facciate e dai due muri di divisione interna sopra descritti. Su questa orditura di setti (pieni o ad arconi) si appoggiano travi in legno di discreta sezione, poste quindi in senso longitudinale all’edificio, la più elevata formando il colmo e sopportando il peso delle grandi lastre di copertura. L’edificio della stalla, che sorge sempre vicino alla malga, si presenta più variato nella conformazione dei vari esempi in cui si ritrova, soprattutto per quanto riguarda dimensioni ed ampiezza, mentre nella suddivisione degli spazi e nella struttura costitutiva esso presenta caratteristiche costanti. Si tratta dunque di un edificio assai semplice, a pianta rettangolare (in genere cinque-sei metri di larghezza per tredici-quindici di lunghezza), suddiviso internamente in due settori, atrio e stalla vera e propria, con tetto a due falde non molto inclinate, colmo lungo l’asse longitudinale e manto di copertura in lastre di pietra di Prun; non vi sono finestre di sorta e l’accesso avviene dall’unica apertura esistente, discretamente ampia, nella facciata corta rivolta a sud. Di notevole interesse è anche qui la struttura portante del tetto che presenta analogie, ma anche differenze, con il tipo caratteristico della malga; la scatola muraria, col perimetro esterno e col muro trasversale interno, collabora ancora al funzionamento statico, ma gli arconi a tutto sesto in conci di pietra assumono qui un vero e proprio ruolo primario, venendo a costituire una sorta di scheletro di pietra ricoperto poi dagli elementi di tamponamento. Tali arconi infatti, che gravano su dei pilastri monolitici in pietra annegati e sporgenti nei muri longitudinali, contraffortati da costoloni piramidali che segnalano anche all’esterno, hanno una frequenza tale che rende quasi superflua l’orditura di travi in legno tra arcone e arcone, e il lastame di pietra del manto di copertura può quindi appoggiare per lo più direttamente su di essi. La costruzione, dunque, è interamente e rigorosamente in pietra, quasi uno sperone di roccia che si aggiunge e si confonde a quelli creati dalla natura. Le malghe e le stalle della Lessinia sorgono precise ed isolate sui prati degli alti pascoli come oggetti dalle forme stereometriche; ma per tenue contrasto, attorno ed addossate ad esse, hanno proliferato indefinite serie di altre piccole strutture, tanto imprecise e variabili quanto definitivi sono gli edifici a cui si aggregano. Eppure, anche in queste “incrostazioni” dall’aspetto quasi precario, l’uso del lastame è ancora sapiente anche se arcaico, il disegno e i distesi volumi che ne derivano sono complessi e raffinati anche se primordiale e semplice è la composizione; del resto, la funzionalità è certa (per lo più si tratta di porcili che utilizzano i residui della lavorazione del latte come alimento per gli animali), e il rapporto con gli edifici maggiori da un lato ed il contesto ambientale dall’altro è di mediazione quasi necessaria tra questi due termini forse altrimenti troppo distanti. Trattando dell’argomento all’inizio dell’articolo si annotava come vi si potesse leggere un fenomeno di ripetitività più accentuato che altrove in Lessinia, terra dove la tradizione e la variabilità architettonica trovano riscontro nelle vicende di un popolo libero da immediate servitù, e dunque poliforme ed espressivo. Il rilevare similarità in una categoria di edifici anche al di là della loro unitarietà funzionale, conduce ad una ricerca di motivazioni che affonda nella storia complessiva di quel territorio e che è probabilmente da orientarsi nella particolare genesi di quelle costruzioni. Infatti altre strutture con simili compiti specifici, quali i fienili, le stalle, i rustici, trovano in Lessinia espressioni architettoniche quanto mai diversificate; le stesse malghe poste all’interno delle contrade o in area collinare hanno conformazione che, pur assai semplificata e vincolata dalle particolari interne esigenze climatiche, si ricollega per varietà e similitudine a quella della contrada cui appartengono. Ad esempio la malga di contrada Zivelongo, dove la struttura muraria in pietra viva a vista ed il tetto poco inclinato in lastame di Prun richiamano l’immagine complessiva della contrada stessa; all’interno, peraltro, la struttura si articola e nel primo locale, di entrata e di lavorazione del latte (logo del fogo), troviamo appoggiata sui muri portanti una grossa orditura lignea di sostegno del tetto, mentre nel secondo locale, più grande e di deposito del latte (logo del late), si ha una massiccia e bassa volta a botte (che similarmente ad altri sistemi garantisce una ottima climatizzazione). Considerare la genesi di queste architetture ci porta ad individuare una differenza fondamentale fra esse e che ancora una volta verifica l’ipotesi di relazione tra espressione architettonica, complessità della stessa, e matrici socio-culturali che la generano. Gli alti pascoli della Lessinia, a differenza di tutto il rimanente territorio saldamente ed orgogliosamente autogestito dalle popolazioni locali (Comuni e Vicariato della Montagna), sono sempre rimasti in proprietà ed in gestione diretta di nobili famiglie veronesi che per così lungo tempo ne hanno disposto da trasmetterne loro addirittura il nome (Tomba, Sparvieri, ecc.); l’affitto dei pascoli ai contadini della Lessinia, ma anche ai pastori padani, era posto sotto il controllo diretto di uomini di fiducia dei nobili.(6)  Una così diretta gestione non poteva di certo lasciare al caso la adeguata infrastrutturazione dei pascoli con le necessarie malghe, stalle, conche per la raccolta dell’acqua, ecc. A questa opera di sfruttamento economico piuttosto centralizzato e nelle mani di “signori della città”, oltre che alla probabilmente tarda epoca della loro costruzione, si possono far dunque risalire l’origine e le caratteristiche di queste strutture tipo; solo parzialmente esse danno spazio a singole deformazioni specifiche, e paiono invece trarre insegnamenti dalle popolari architetture di pietra più che altro per definire modi di edificazione ottimali e ripeterli poi con una similarità accentuata che può far supporre una avvenuta predefinizione del “tipo”. Così il prototipo identificato come soluzione tridimensionale viene ripetuto, pur con deformazioni, in vasta parte dell’arco montano che chiude a nord la Lessinia, e ne diventa con la sua episodica e puntuale presenza elemento di riferimento di cime, dorsali, vallette.

Note

(1) Cartoline e foto, ed, Taucias Gareida.

(2) G. Bancalari, Globus, 1894, cit. in A. Baragiola La casa villereccia delle colonie tedesche veneto-tridentine, Bergamo, 1908, Asiago, 1980.

(3) A. Baragiola, op. cit.

(4) Ibidem.

(5) Ibidem.

(6) E. Turri, La Lessinia, Verona, s.d.