All’Università di Salisburgo, la lingua celtoromanza – minoritaria tra le minoritarie – ha ottenuto il dovuto riconoscimento accademico grazie a una brillante tesi del glottologo Sobiela-Caanitz. Eccone, in breve, il contenuto.

Il piemontese è sorto dalle lente e progressive trasformazioni del latino nel Ponente del bacino del Po, a monte del confluente col Tanaro (piemontese Tane). La peculiarità di quell’evoluzione proviene dalle influenze congiunte di due aree celtiche: quella cisalpina, e specie in essa la parte traspadana, tra Deliaco e Dora Baitea (piemontese Doìra) e quella transalpina, massime il triangolo Avenches 1 -Treviri-Autun. Da quest’ultima città con la prestigiosa scuola di retorica si andò diffondendo una forma pregiata di latino in bocca gallica; tale irradiazione per le strade del Grande e del Piccolo San Bernardo raggiungeva il bacino padano ove rafforzava il sostrato celtico della Sesia e di Mediolanum, la metropoli sempre più fiorente dell’intera Italia settentrionale. Questa città nel tardo terzo secolo divenne una delle quattro capitali imperiali, essendo le altre tre Bisanzio, Sirmio, e Treviri. Tra Milano e Treviri, passando da Ivrea e dalle importanti città di Avenches e Besançon, si strinsero naturalmente legami più stretti che non con Roma.

La formazione dell’idioma piemontese deve perciò essere studiata in quel complesso territoriale che va dal Benaco al Mar Ligure e alla Manica, e che comprende anche l’antica area celtica situata tra Adriatico, Esino, Appennino Toscano e Po. Tra le caratteristiche che contraddistinguono il romanzo di quel complesso dall’italiano della Penisola, vanno rilevate anzitutto la riduzione delle consonanti doppie, e l’indebolimento, talvolta anche la caduta, delle sorde intervocaliche. Il primo tratto oppone ad esempio le voci italiane “gallina” 2, “terra” e “vacca” a quelle piemontesi “galina”, “tèra” e “vaca”. In quanto al secondo, bastino le seguenti opposizioni (italiano/piemontese) ;

– per C dura: amica/ami (s)a, formi- ca/furmija, ortica/urtìa;

– per P: cipolla/siola, lupa/luva, sapere/savèje;

– per T: catena/cadena, ruota/roa, sputare/spuvé.

Altri fenomeni coinvolgono la maggior parte di un sistema ben individuato, costituito dall’emiliano, dal lombardo, dal ligure e dal piemontese:

– Ben noto è il suono “francese” assunto dalla U tonica latina; questo tratto, comune al lombardo (poche eccezioni), al ligure e al piemontese, raggiunge a sud del Po una linea Colorno-Fornovo-Sassuolo-Pavullo-Pontremoli-Lerici.

Detto suono si trova in voci piemontesi come dur “duro”, lun-a “luna”, mëur “maturo”, patanù “nudo”, scrivù “scritto”. In qualche vernacolo la U passa perfino a /i/.

– Spicca inoltre la caduta delle vocali atone finali del latino salvo A; succede, non solo in emiliano, lombardo e piemontese (piemontese feu “fuoco”, luv “lupo”, neuit “notte”, òrt “orto”), ma anche in ladino (fiug, luf, notg, iert), provenzale (fiò, loup, nue, ort) e catalano (foc, llop, nit, hort). Ne risulta una cadenza ben diversa da quella italiana, veneto compreso; una frase come “la luna piena nella notte di maggio”, che conta dodici sillabe, si riduce a dieci a nord della linea Montemarciano-Cagli-Appennino: in piemontese ad esempio si dice “la lun-a pien-a ant la neuit ëd magg”.

– Si noti pure, nel Nord delle Marche, nell’Emilia-Romagna e in Piemonte, la desinenza “francese” /é/ o /ér/ degli infiniti della prima coniugazione: piemontese canté “cantare”, catè “comprare” (francese acheter), monté “salire” (francese monter), pioré “piangere” (francese pleurer).

Tra Appennino e Po, terra di “intensa gallicità” (Giacomo Devoto e Gabriella Giacomelli, I dialetti delle regioni d’Italia, Firenze 1972, p. 56), questo fenomeno si inserisce in una mutazione ben più cospicua: il passaggio di A tonica latina a E aperta – come a Parma, detta /pèrma/ dagli indigeni – o anche chiusa come a Bologna. Sin dallo scorso secolo si sogliono chiamare “gallo-italici” i vernacoli di tipo emiliano, lombardo, ligure e piemontese. Nell’ottavo volume dell’Archivio glottologico italiano (p. 104), Ascoli parlava in merito di un “nome che ormai potrebbe parere non abbastanza proprio”: gli antichi Italici infatti (Umbri, Sabelli, Latini) ben poco toccarono l’odierna area “gallo-italica” prima della conquista a opera delle legioni romane. Si è proposto “padano”: questo nome, ottimo per il piemontese, il lombardo e l’emiliano occidentale, più difficilmente converrebbe oltre Ravenna e Bologna, e non permetterebbe affatto di includere la Lunigiana e la Liguria. La decisiva importanza dell’antica Mediolanum, nel sorgere di quel sistema linguistico, mi ha indotto a battezzarlo “mediolanese” e a chiamar “Mediolania” l’area corrispondente, dall’Esino al Toce, dall’Avisio alla Roia e dallo Stelvio all’Abetone. Ambedue le proposte sono state riprese da qualche studioso, specie il professor Guy Héraud nella seconda edizione del saggio ormai classico L’Europe des ethnies (Parigi-Nizza 1974, p. 147).

Quando sbaglia un glottologo

Va rimproverato a qualche autore di compendio di filologia romanza il modo in cui ordina lingue e dialetti. Per esempio Die romanischen Sprachen und Literaturen (Monaco di Baviera, 1979), di Wilhelm Theodor Elwert, comprende dieci parti: 1) proemio, 2) il francese, 3) il provenzale, 4) l’italiano, 5) il sardo, 6) il ladino, 7) il catalano, 8) lo spagnuolo, 9) il portoghese (col gallego), 10) il rumeno. Nella quarta, alle pp. 76-77, si legge (traduco): “L’italiano viene dal latino parlato nel centro dell’impero romano, ovvero la penisola italiana e la pianura padana. È costituito da parlate molto diverse tra di loro, ma questo congiunto di dialetti forma un tipo linguistico autonomo che spicca ben chiaramente se confrontato col provenzale, col francese e col ladino (…). Nessuna lingua romanza offre una diversità dialettale pari a quella dell’italiano”. Ciò significa che le parlate della pianura padana e dell’Italia centrale e meridionale, secondo l’autore, mostrano tratti comuni che non si trovano né in ladino (L) né in francese (F) né in provenzale (PR). L’Elwert mai si sarà sprofondato nell’argomento, se no in tutta la fonetica storica e la morfologia avrebbe scoperto un solo criterio assente da quelle tre lingue e presente dall’Ortles a Pantelleria e da Ivrea a Otranto: la mutazione dei gruppi iniziali latini CL-, FL-, GL-, PL- (I = italiano, P = piemontese):

Latino                L (Friuli)        Pr         F             P          I

clavem               clâf                 clau    clé           ciav           chiave

flammam          flame              flam   fiamme     fiama         fiamma

glandem           glant               aglan  gland       agian          ghianda

plenum             plen               pten    plein         pien           pieno

 

Quest’unico criterio comune di fronte a tante differenze non consente certo di ritenere che piemontese ed italiano si uniscano per formare “un tipo linguistico autonomo che spicca ben chiaramente”. Del resto, neanche quell’unica somiglianza resiste ad un esame particolareggiato dei rispettivi dialetti: troviamo eccezioni, non solo in vernacoli di transizione, ma anche assai lontano dall’Alpe, e cioè nell’Abruzzo, massime in provincia di Chieti, ove si serba la L, e viceversa in parte della Francia atlantica, specie nella Bretagna francofona. Ben lo sapeva l’Ascoli: nessun fatto prettamente glottologico consente di collocare il mediolanese sotto il tetto della lingua italiana.(3) Ora nel complesso padano va studiata a parte l’area della lingua piemontese, vale a dire quell’insieme di dialetti che in essa trovano il tetto comune più adatto. Questa koiné infatti, essendo usata anche a fini non letterari, mette il piemontese, minacciato dalla favella egemone, in una situazione meno debole se confrontata con quella delle rimanenti parlate mediolanesi. Lo dimostrano alcune pubblicazioni torinesi: la rivista trimestrale “Musicalbrandé”, il cui numero cento uscirà nel dicembre 1983; la Gramàtica piemontèisa (in piemontese) di Camillo Brero, la cui quarta edizione risale al 1975; i due vocabolari dello stesso autore ( 1976 c 1982); il Dissionari piemontèis in quattro volumi di Gribaudo e Seglie (1972- 1975).

Genesi della nazione piemontese

Già nel secolo XII la regione di Alessandria (Lissandria), Vercelli ( Versèj), Trino (Trin), Chivasso (Civass), Torino (Turin), Saluzzo (Salusse) occupava nella pianura padana un posto a parte. A Torino e Chivasso sostavano spesso i marchesi di Monferrato (Monfrà), protettori di trovatori provenzali tra cui primeggiavano Pèire Vidal e Raimbaud de Vaqueiras; ambedue nel Dugento trovarono discepoli piemontesi che versificarono anche loro in provenzale, ad esempio un marchese di Saluzzo. La penetrazione di quella favella allora prestigiosa fu agevolata, non solo dalla sua presenza nelle valli alpine di quest’ultimo marchesato (V. Maira, V. Varaita, alta V. del Po), ma anche dalla stretta affinità colle parlate subalpine, piemontesi avanti lettera, giudicate da Dante troppo brutte ed inforestierite per meritar la qualificazione di italiane. (4) Pare del resto che in quei vernacoli medievali si usasse normalmente la particella affermativa o ol, la quale corrisponde ad oil, caratteristica del francese secondo lo stesso Dante. Il primo monumento noto della letteratura che si può chiamar piemontese risale al secolo XII; lo studioso tedesco Wolfgang Babilas, che ne ha curato un’edizione critica, ritiene probabile che sia sorto nella diocesi di Vercelli. Si tratta di ventidue commenti biblici o miletici che seguono le date dell’anno liturgico. Nel Quattrocento si moltiplicarono i documenti stesi in piemontese, testi giuridici, religiosi e anche, sulla soglia del Cinquecento, le farse dell’Astigiano Arion o Allione, cui si devono inoltre numerose poesie francesi. Proprio nel Quattrocento si diffuse il nome di Piemonte (Piemont), applicato ai domini cisalpini dei duchi di Savoia, salvo la francofona e alemanna Valle d’Aosta. Fu quella schiatta borgognone a dar forma alla nazione piemontese, specie quando duca e corte nel 1560 si furono stabiliti a Torino. Mentre Ferrara e Milano proteggevano la letteratura nel prestigioso idioma di Dante, inducendo l’emiliano Ariosto a toscanizzare la propria lingua da un’edizione all’altra dell’ Orlando furioso, il Piemonte non produsse in italiano alcuno scrittore notevole prima di Alfieri nel tardo Settecento. Nel campo architettonico, lo stile gotico predominò fino al Cinquecento avanzato. Verso quell’epoca, il latino fece posto al toscano, alquanto storpiato dalle penne padane, nella stesura dei testi giuridici. Non illudano i cognomi vistosamente italiani degli odierni Piemontesi: Fenoglio vale “finocchio” (fnoj), Ferrero “maniscalco” (fre), Fusero “fabbricarne di fusi” (fusé), Moriondo “monte rotondo” (mont riond), Petitti “piccolo” (cit). Pipine “pulcino” (pipì). Rattazzi “topaccio” (ratass)… I duchi di Savoia, divenuti re di Sardegna nel 1720, erano e si ritenevano sovrani piemontesi, non italiani; oltre Casale (Casal) cominciava l’Italia. Corte e salotti parlavano piemontese; se lo fece insegnar la sorella del re di Francia, andata sposa all’erede del trono “sardo”. Proprio quest’anno (1983) si commemora la prima grammatica piemontese, pubblicata nel 1783. Il Settecento ed il primo Ottocento sono segnati da un fiorire senza pari della letteratura in questa lingua. Si poteva sperare che nel giro di pochi decenni si sarebbe imposta in nuovi ambiti della vita civile. A troncare tali probabilità bastarono i tre lustri di dominazione francese ed il dilagare del nazionalismo italiano che ne risultò.

Il mito del Piemonte italiano

Napoleone accentuò la disparità tra il popolo, che forniva leve e tributi al condottiero incoronato, ed i borghesi colti, dignitari, funzionari o ufficiali dell’impero. La monarchia sabauda, restaurata nel 1814 ed arricchita dalla Liguria, non intese le brame di quel ceto nuovo; questo, deluso dall’ordine piemontese ed aspirando ad uno spazio che contentasse le sue ambizioni, aderì all’idea italiana. Il toscano infatti, lingua delle scuole e dei libri, agevolava la comunicazione colle persone colte dell’intera “espressione geografica”. Non interessava quei signori che le parlate piemontesi e liguri, che l’emiliano di Tortona ed il lombardo di Novara, secondo l’accurata osservazione dell’Ascoli fossero “dialetti che si distaccano dal sistema italiano vero e proprio” (Archivio glottologico italiano, VIII, p. 103). La Francia degli ultimi Borboni disprezzava il provenzale (lingua d’oc), pur parlato in un terzo del territorio statale. Il neonato Belgio faceva altrettanto col neerlandese della sua metà settentrionale. Anche l’Italia agognata dagli uomini del cosiddetto Risorgimento avrebbe disprezzato ciò che il Biondelli, in un libro uscito nel 1853, chiamava “i dialetti gallo-italici”. Poteva pure ammonire il chiaroveggente Clemente Solaro della Margarita: “I Piemontesi (non) hanno mai pensato che dirsi dovevano Italiani per aver nome tra i posteri (…). Confonderci coll’Italia è scemare la propria gloria, è confondere nei flutti dell’Adriatico le acque del Po.” Gli araldi subalpini dell’ideologia risorgimentale, pur serbando l’uso orale e anche epistolare del “dialetto”, giunsero in pratica a rinnegare la propria nazionalità ed a nutrire il mito di un Piemonte cosi italiano come il Lazio o l’Umbria. Venne poi quello del Piemonte fiduciario dell’italo destino: “Oh qual da i petti, memori de gli avi,/alte ondeggiando le sabaude insegne,/surse fremendo un solo grido: Viva/il re d’Italia!” (Carducci, Piemonte, in Rime e ritmi). Ne risente tuttora l’insegnamento storico dato dalla scuola d’obbligo, il quale ben poco si addice a quella terra padana e subalpina, ma non marittima. Già in terza elementare si studiano gli antichi Egizi e Fenici, ma neanche i manuali della media si degnano di soffermarsi su quella civiltà celtica che contò tra le più importanti dell’Europa preromana: si veda la distribuzione dei toponimi in –dunum e –magus in Stuart Piggot, Europa antica, Torino, 1976, pp. 178-179. La scuola tende a ridurre il conflitto tra Enrico IV e Gregorio VII ad un urto tra un imperatore tedesco e un papa italiano; i manuali non dicono che il primo, alla volta di Canossa, varcò il Cenisio e fu ricevuto a Torino dalla suocera, la potente marchesa Adelaide, capostipite di Casa Savoia, “colei che in petto femminile racchiude forza virile” (S. Pier Damiani). La mia tesi adduce molti altri esempi del genere.

Nella famiglia delle lingue romanze

Credo di aver dato un’idea di quanto contenga la parte storica. È più difficile fare altrettanto per ciò che la segue, cioè un confronto particolareggiato tra la lingua piemontese ed alcune delle sue sorelle. La spinta a quella ricerca mi venne dalle righe seguenti, scritte da un nemico della civiltà mediolanese: “È indubbio che i tratti caratteristici dei dialetti alto-italiani sono abbastanza simili tra di loro e divergono notevolmente tanto dall’italiano ufficiale quanto dai dialetti del centro e del sud della penisola (ma ne divergono quanto il catalano dallo spagnolo o quanto l’aragonese dal castigliano?)” (Sergio Salvi, Le lingue tagliate, Firenze, 1975, p. 84, nota). La domanda espressa tra parentesi, retorica nell’intenzione dell’autore, non mi lasciò più in pace. Non parlo dell’ “aragonese” o piuttosto alto-aragonese, usato da circa diecimila persone in qualche valle pirenaica della provincia di Huesca. Ma si può facilmente misurare la distanza tra catalano (C) e spagnuolo (S) e confrontarla con quelle che separano il piemontese (P) dall’italiano (I), dal francese (F) e anche dal catalano. Valendosi di due elenchi costituiti, il primo da cinquanta criteri di fonetica storica e di morfologia (A), il secondo da cinquanta vocaboli (nomi, aggettivi, verbi ed un avverbio) considerati dal punto di vista dell’accezione (B), si giunge a queste distanze:

Elenco   P/I     P/F      P/C      C/S

A      26      30        32        16

B      29      24,5     26,5     38,5

Totale    55      54,5     58,5     54,5

Alla domanda retorica del Salvi si deve rispondere: si, il piemontese confrontato coll’italiano spicca al pari del catalano confrontato con lo spagnuolo. La prima distanza è persino maggiore se si tien conto unicamente della fonetica storica e della morfologia (elenco A). Seconda osservazione: il piemontese si scosta ugualmente dall’italiano e dal francese. Terza osservazione, forse inattesa: tale distanza corrisponde pressappoco a quella che separa il piemontese dal catalano. Non vi è dubbio: il piemontese va ritenuto lingua autonoma a tutti gli effetti, non solo per la grafia ben regolata e per l’uso che supera di gran lunga i fini prettamente letterari di una tradizione meramente dialettale, ma anche per la spiccata peculiarità glottologica di fronte a due prestigiose favelle romanze le cui aree confinano con quella mediolanese.(5) Lo scorso luglio, nell’università francone di Bayreuth, due valenti cattedratici di glottologia, i professori Ludwig Eichinger e Robert Hinderling, diressero un convegno dedicato a qualche minoranza etnica specie dell’area mitteleuropea ed alpina. A chi scrive spettò l’onore di presentare le ricerche sovraccennate. Il mio unico contraddittore, discepolo di Carlo Battisti e, come costui, fervente propugnatore dell’italianità del ladino, rilevò che calcoli simili si sarebbero potuti fare ad esempio col romanesco, ed asserì l’incongruità di un confronto tra una lingua illustre quale l’italiano ed una parlata regionale quale il piemontese. Sostenuto dall’insigne studioso prof. Guy Héraud, rammentai al contendente i pregi della civiltà piemontese e la somma importanza della distanza fonetica e morfologica, incomparabilmente maggiore tra piemontese ed italiano che non tra questo e l’idioma di Belli. Non si può infatti accettar l’affermazione secondo cui l’Italia sarebbe costituita da una maggioranza di minoranze linguistiche. Quasi tutte le parlate della penisola italiana partecipano delle caratteristiche che contraddistinguono il sistema linguistico italiano, il che certo non si può dire del piemontese.

Piemontese e scuola

L’ultima parte della tesi tratta l’uso didattico di questa lingua, in base a lavori scolastici, pubblicati o inediti, ed a visite personali presso classi primarie e medie i cui insegnanti se ne valgono. Tutto infatti dipende da loro, dal loro sapere e dal loro volere. La “formazione” subita dal futuro maestro o professore lo prepara ad istruire scolari di qualsiasi parte d’Italia, ovvero di nessuna in particolare. Le due Regioni che si dividono l’area della lingua piemontese (6) non dispongono in pratica della potestà di introdurla nell’ordinamento scolastico. Una timida legge della Regione Piemonte per la “tutela e valorizzazione del patrimonio linguistico e culturale del Piemonte” prevedeva tra l’altro, “nelle scuole di ogni ordine e grado”, corsi di piemontese e delle altre lingue minoritarie autoctone. Due volte l’approvò il Consiglio regionale, due volte Roma la respinse, adducendo “la riserva statale (…) in materia di riconoscimento e di tutela delle minoranze linguistiche” ed una pretesa “invasione delle competenze statali in materia di ordinamento scolastico”. Sin da quell’anno 1977 la Spagna ha ceduto a qualche sua “Comunidad autònoma” ampie potestà in ambedue i campi, ma gli orologi d’Italia sono rimasti fermi. L’uso scolastico del piemontese ben poco tocca la trasmissione di conoscenze da parte dell’insegnante, il quale, per quanto io abbia potuto vedere, le tramanda prevalentemente in italiano. Siamo ben lungi dalla bilinguità organica praticata al Liceo federale austriaco per gli Sloveni (otto classi dalla 5a alla 12a), ove si insegna ogni disciplina, non solo nell’idioma degli studenti, ma anche in tedesco, per prepararli all’università. Ciò nonostante, seppure nel Piemonte la lingua egemone rimanga quella della scuola, il maestro o professore che di spontanea volontà si vale della favella regionale insegna agli allievi a leggerla, a scriverla e soprattutto ad amarla, a rispettarla ed a servirsene. Mi spiego con un confronto. Negli anni 1974 e 1975, visitai parecchie scuole della Val d’Aosta e vi sentii lezioni di francese. Questa disciplina costituisce l’unica presenza o quasi del principale idioma valdostano in un insegnamento d’altronde italianissimo. Molti maestri anche indigeni -non tutti per buona fortuna – avendo subìto il lavaggio di cervello della magistrale, partono dall’italiano anziché dal vernacolo, di tipo savoiardo, (7) per insegnar la lingua francese. Ho perfino visto un Valdostano professor di media valersi unicamente dell’italiano per esercitare canti popolari dialettali della Regione con studenti anche loro indigeni. Di fronte a tal disprezzo del retaggio spirituale, vanno lodati quei professori e maestri piemontesi i quali, nelle condizioni difficili che ho descritte, insegnano agli scolari ad amare la lingua patria. Ciò non toglie che essa potrebbe e dovrebbe divenir veicolo normale delle discipline scolastiche. Tra Scozia ed Islanda, i quarantamila insulari delle Faer Oer parlano un idioma nordico ben diverso dal danese della metropoli. La modesta tradizione letteraria risale all’inizio dell’Ottocento, quando un pastore evangelico boemo e quindi austriaco pose le fondamenta dell’odierna lingua faeroica. Questa oggi prevale nelle prime classi della scuola e nelle istituzioni della Regione autonoma. Perché non far lo stesso con milioni di Piemontesi? Nelle classi che visitavo, chiesi ai fanciulli i nomi locali di alcune piante dell’ambiente; i molti vocaboli elencatimi, ed il modo vivace in cui ciò avvenne, dimostrano che un insegnamento scientifico elementare fondato sul mondo familiare potrebbe e dovrebbe valersi del piemontese anziché della lingua dei libri e della televisione. In quanto alla storia come disciplina, le risposte datemi dagli scolari spesso tendevano allo psittacismo: questo difetto certo si scanserebbe inserendo la conoscenza del passato in quella della realtà regionale. Alla scuola media, la posizione del piemontese tra italiano e francese richiede che si insegni quest’ultima lingua partendo da quella regionale anziché usando il “tramite gerarchico” di quella egemone, il che costituisce una vera e propria assurdità didattica. Si voglia o no, essendovi una lingua piemontese, l’insieme di coloro che parlano uno o l’altro dei corrispondenti dialetti forma una minoranza linguistica al senso e cogli effetti dell’articolo 6 della Costituzione italiana. A questa comunità spetta la tutela contemplata da detta disposizione. Che siano pochi a rivendicarla non dispensa lo Stato e le autorità regionali, provinciali e comunali dal dover prendere le misure più adatte in merito, tanto più che la massiccia immigrazione, proveniente specie dall’Italia meridionale, tende a far dei Piemontesi una minoranza sulla propria terra. Chi scrive spera di aver contribuito e di contribuire a dimostrar la necessità di tale tutela. In quanto agli altri Mediolanesi, a loro sta darsi una lingua – o due o tre – con grafia ben regolata, ed usar questo veicolo in ambiti che superino le funzioni prettamente letterarie. Allo stesso tempo, dovranno smascherare certe ideologie che falsificano la realtà etnica e sociale dell’Italia settentrionale. Da una recente inchiesta del giornale “Provincia 2000” risulta un’ampia coscienza, nel Piemonte, della solidarietà che, di fronte al resto d’Italia, vincola questa regione alla Liguria ed alla Lombardia. Ho indagato sul posto concesso dalla scuola alla lingua ed al passato di un popolo. Un lavoro simile gioverebbe a qualsiasi comunità etno-regionale: agli Sloveni e Ladini del Friuli, ai Sardi ed ai Còrsi, ai Provenzali del Piemonte, ecc. Si potrebbe applicare anche a quei casi in cui solo una storia peculiare contraddistingue una determinata area: si pensi ad esempio alla Savoia, la cui evoluzione per ben tredici secoli si svolse diversamente da quella degli Stati francesi. Spetta alla scuola tramandare la civiltà della rispettiva comunità regionale.

Note

L’autore del presente saggio, ultima di numerose pubblicazioni dedicate a problemi etnici della nostra Europa, ha conseguito in marzo 1983 presso l’università di Salisburgo la nota ‘‘benissimo’’per una tesi di glottologia romanza sulla lingua piemontese, la sua genesi ed il posto concesso ad ambedue dalla scuola d’obbligo. Menziono questo particolare, non certo per pavoneggiare, ma per rilevare l’importanza filologica di un lavoro che non ho compiuto solo per me, bensì anche per la nazione piemontese e per tutte quelle la cui lingua ed il cui passato sono proscritti dalle scuole della rispettiva area.

(1) La romana Aventicum, a sud del Lago di Morat, sulla via che dal Gran San Bernardo menava al Reno, era capoluogo della tribù gallica degli Elvezi.

(2) In gran parte dell’area romanza mediterranea si articola con forza il nesso intervocalico latino – LL – il quale diventa /dd/ in sardo ed in certi dialetti dell’Italia meridionale, e /gli/ (scritto appunto – LL -) in catalano ed in spagnuolo.

(3) Un altro sistema linguistico estraneo a quello italiano e generalmente omesso dai glottologi è formato dai vernacoli sorti dalle trasformazioni del latino nel Sud della Lucania antica, intorno ai fiumi Sinni e Lao (Cerchiala, Tursi, Senise, Latronico, Mormanno, Scalea, Maratea).

(4) In quel passo (De vulgari eloquentia, 1, XV, 7), Dante siriferisce espressamente, non solo ai dialetti di Torino e di Alessandria, ma altrettanto a quelli della civitas (diocesi) diTrento, la quale comprendevaanche la Val Gardena. Parlate come il ladino di quest’ultima, della Val di Fassa e di Moena, il lombardo delle Giudicarie e, tra i due, i vernacoli di transizione delle valli di Non e del Sole, coprivano certamente gran parte dell’odierna Provincia autonoma, facendone, dal punto di vista di Dante, una terra alloglotta al pari del Piemonte avanti lettera.

(5) Per inquadrar dovutamente il piemontese nella famiglia delle lingue romanze, converrebbe confrontarlo anche col ladino atesino e retico e col provenzale delle Alpi Marittime e Cozie.

(6) Il piemontese è proprio di quasi tutto il Piemonte: vernacoli diversi prevalgono in una sola delle sei province, quella di Novara. Oltre il confine meridionale della regione, l’area di quella lingua, risalendo la Bormida (Bornia), si protende senza interruzioni in Liguria includendo l’angolo nordoccidentale della provincia di Savona. Chiaramente piemontese è il testo edito dal Biondelli nel dialetto di Cairo Montenotte (Càiri). Lo stesso va detto di quella di Millesimo (Mresin), ormai noto grazie alla brillante tesi di laurea elaborata dal giovane glottologo torinese Fabrizio Arnaud. Da Casale sino alle porte di Pavia si passa a poco a poco dal piemontese all’emiliano; non mancano quindi tratti pedemontani nella sacca amministrativamente lombarda della Lomellina e specie nella sua parte occidentale, ma i vernacoli corrispondenti non appartengono al tipo piemontese vero e proprio.  Non si esamina qui il caso delle colonie “lombarde” dell’entroterra siciliano.

(7) Eccetto naturalmente nei paesi alemanni di Gressoney ed Issime (valle del torrente Lys).