antropologia oggi
Bronisław Malinowski (1884-1942).

Parlare e avere conoscenze antropologiche nel mondo contemporaneo è cosa indispensabile in uno scenario che si avvia sempre più verso una mondializzazione e un’unificazione di costumi e stili di vita, in un contesto che si riavvicina sempre più, seppure solo in modo mediatico. Avere un’infarinatura antropologica vuol dire non perdersi nel mare “globale” o anche in quello “glocale” (termine che coniuga globalizzazione e localismo) che dir si voglia. Perché qualunque cosa della nostra vita quotidiana di moderni occidentali è intrisa di forme spurie, e l’antropologia può servire per orientarci in un mondo sempre più confuso in quanto sempre più complesso.
Si evince come l’antropologia culturale serva per avere una comprensione di base dei maggiori blocchi culturali esistenti nel pianeta e di come stiano mischiandosi, a volte in modo conflittuale. L’antropologia serve a farci capire alcuni conflitti etnico-religiosi da cui il mondo attuale è ancora insanguinato.
Dopo l’introduzione, affrontiamo la storia dell’antropologia e il ruolo che riveste e che potrebbe rivestire in misura maggiore in futuro. L’antropologia si occupa di studiare e capire le culture diverse, poiché di indagare la nostra si occupa la sociologia (che usa gli stessi metodi). Le scienze antropologiche hanno diversi approcci al loro interno, ma l’antropologia culturale è metà scienza e metà letteratura, un sapere che sta a cavallo fra più mondi e a livello disciplinare è sapere spurio. Non le si può affibbiare il marchio di scienza pura come la neurologia o la psicologia o la sociologia, in quanto ha a che fare con culture che non essendo sistemi scientifici mettono in crisi la stessa visione dell’antropologo. Non è neppure letteratura in quanto i sistemi di classificazione della parentela, i sistemi di mappatura e demografici sono strumenti scientifici di cui si serve qualunque antropologo degno di tal nome. Un sapere di frontiera che si occupa di comprendere l’altro, il diverso, sia a livelli macro che micro.
Coloro i quali definiscono inutile la disciplina antropologica sono convinti che il nostro stile di vita sia l’unico concepibile, che gli altri non valgano la pena di essere considerati: un fenomeno che in antropologia è definito “etnocentrismo”. Da queste credenze errate nascono i nazionalismi e i particolarismi esasperati che portano conflitti. L’antropologia diventa una pedagogia della politica e della cultura, qualcosa che sta a monte e che i giovani odierni dovrebbero avere in considerazione per possedere la mentalità di cittadini del mondo.
L’antropologia si presenta come il sapere della diversità umana. Questa disciplina non ha una nascita ufficiale ben definita al pari di altre scienze esatte. La si può far risalire circa alla metà dell’800, cioé al periodo in cui le maggiori potenze coloniali europee invadevano e conquistavano Asia, Africa e Oceania. Si può affermare con sicurezza che l’antropologia nacque in Francia, ma un vero e proprio testo antropologico ufficiale è stato stampato negli Stati Uniti sempre intorno alla meta del diciannovesimo secolo.
Però è appunto la Francia con i suoi filosofi illuministi a porsi per prima il problema della diversità degli esseri umani, e di preciso nel 1799 a Parigi si fonda quella “Societa degli osservatori dell’uomo” che sarà il preludio alla nascita vera e propria del sapere antropologico e al suo insegnamento nelle università.
Il filosofo Rousseau scriveva nel Saggio sull’origine delle lingue: “Quando si vogliono studiare gli uomini occorre guardare vicino a sé, ma per studiare l’uomo bisogna imparare a rivolgere lo sguardo lontano; bisogna prima osservare le differenze e poi scoprire le proprietà”. ln questa osservazione di Rousseau, uno dei padri teorici dell’antropologia, sono riassunti i fondamenti dell’antropologia stessa:

  • bisogna andare lontano;
  • si devono osservare le differenze;
  • dalla comparazione delle differenze si possono ricavare tratti fondamentali che determinano l’uomo nella sua esistenza.

Di certo Rousseau non intendeva che dalla somma delle differenze si possa ricavare un sapere unitario del genere umano, ma che scavando al di sotto di tali differenze potremo sperare di conoscere qualcosa dell’uomo. Come è possibile raggiungere questo obiettivo? Rivolgendo il proprio sguardo lontano da sé: cioè a dire che l’umanità non può essere studiata entro il perimetro intellettuale che la nostra tradizione culturale ci ha imposto. Sarebbe come pretendere di studiare la flora e la fauna del nostro pianeta sulla base degli animaletti e delle piante del nostro giardino.

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Sì, viaggiare

Vediamo come la disciplina antropologica si compone di tre fasi essenziali.
L’etnografia, cioè la fase della raccolta dei dati sul campo. L’etnografo si occuperà di tutti gli aspetti della cultura in cui è andato a vivere, dai termini di parentela alla tipologia abitativa, dalle tecniche di sussistenza alle cerimonie di iniziazione. Quando l’etnografo ha finito la sua ricerca tornando a casa, entra in gioco l’etnologo.
L’etnologia si occupa di trasformare il caleidoscopio comportamentale degli esseri umani nelle fondamentali istituzioni della società. L’etnologia mira a confrontare i gruppi umani per trarne leggi di comportamento, attraverso il metodo deduttivo.
L’antropologo mira ancora più lontano: egli tenta di rimettere l’individuo biologico in un contesto ambientale e sociale tale da trasformarlo in individuo culturale, ma riconoscibile come appartenente a una certa tipologia di vita.
L’antropologia si sforza di fornire un modello del comportamento umano di tipo dinamico, in contrapposizione ai rigidi modelli imposti dalle scienze pure e dalla biopolitica, che tendono a marcare fortemente le differenze culturali, per farne scaturire dei rigidi blocchi monolitici.
L’antropologia vuole sostanzialmente connettere e creare dei ponti teorici, una sorta di pacificazione tra le culture della terra, vuole trovare il modo per cui diverse tradizioni culturali possano funzionare come il sistema dei vasi comunicanti. Ma occorre per precisione aggiungere che le tre distinte figure di etnografo, etnologo e antropologo sono spessissimo riassumibili in una sola persona, che svolge e deve saper svolgere tutti e tre i ruoli.
Dicevamo allora che l’antropologo è un filosofo che viaggia. Sempre Rousseau affermava che “ci sono filosofi che viaggiano e sono i filosofi che fanno meglio alla filosofia”, dunque l’antropologia pone nel viaggio il suo epicentro epistemologico (non sempre necessita di viaggi lontani), perché il viaggiare è sapere.
Ma allora quale sarebbe la differenza tra un esploratore e un antropologo, quale quella tra un pensatore e un antropologo? De Gerando, il “nonno” francese dell’antropologia, esemplifica dicendo “che gli esploratori sono viaggiatori che in genere pensano poco o che non possiedono adeguata preparazione teorica, così come ci sono pensatori che non viaggiano”.
Il viaggiatore filosofo incarnava quel nuovo ideale di conoscenza che era ed è ancora alla base del progetto dell’antropologia moderna. Più il viaggiatore filosofo si allontana nello spazio, più egli risale indietro nel tempo, mettendosi in contatto con umanità che sono le vestigia di epoche passate. Anche se questo, con la mondializzazione imperante, sta diventando pian piano sempre meno vero. Il viaggio antropologico, come afferma Kluckhohn, è un “giro lungo”, un giro mediante il quale usciamo assolutamente dal nostro ordine per tornare a casa dopo essere passati per altri costumi, per altri ordini. Il “giro corto” è quello invece che spinge gli uomini a credere che la loro esperienza sia quella più vera, più “umana”, l’unica accettabile. Nascono così immagini limitate dell’uomo, e soprattutto incomunicabilità che portano anche a conflitti veri e propri.
La maggior parte delle società studiate dagli antropologi non hanno mai avuto un’idea generale di uomo o ne avevano una che coincideva con l’immagine stessa del proprio gruppo. Soprattutto nell’800, ma trascinandosi ancora ineluttabilmente nell’immaginario delle nazioni anche più progredite, tendenti a definire i popoli non civilizzati con termini come “cannibali”, “animali”, “mostri”, “scimmie”. Queste immagini di umanità sono il risultato di un giro molto corto. E se tutta la civiltà occidentale con il fenomeno di massa dell’immigrazione sta migliorando, e certi miti razzisti si stanno attenuando, questo lo si deve sia alla diffusione dei viaggi che hanno permesso a molti occidentali di scoprire culture diverse, sia alla diffusione sempre maggiore della letteratura di viaggio, compresa quella antropologica.

Blocchi in conflitto

Levi-Strauss, uno dei maggiori antropologi mai esistiti, definiva gli antropologi stessi “straccivendoli della storia”; e in effetti il compito dell’antropologia è trasformare i mucchi di stracci raccolti nei viaggi in sistemi significanti: i riti, i miti, i “costumi”, devono cioè acquisire un senso.
Vediamo allora di capire in breve nel mondo odierno, sempre più unificato e appiattito culturalmente, quali siano i maggiori blocchi culturali tradizionali, che il turismo di massa e le migrazioni “bibliche” stanno attenuando. Sono otto le maggiori tradizioni culturali oggi esistenti: la nostra civiltà euro-americana, quella musulmana, quella induista, quella giapponese, quella cinese, la civiltà africana, quella slavo-ortodossa e quella latino-americana.
La civiltà occidentale è stata la prima a sviluppare una disciplina come l’antropologia, vale a dire una disciplina che s’interessasse al resto del mondo, anche se va ricordato per precisione che l’antropologia, se nacque come diretta discendente dell’Illuminismo, fu subito messa al servizio delle maggiori potenze coloniali europee, quindi per quasi un secolo compì grandi viaggi ed esplorazioni utili alle potenze europee per meglio assoggettare certe popolazioni dalle mentalità troppo differenti dalla nostra. Va però detto che il mondo occidentale ha sempre avuto una maggiore spinta alla conoscenza del diverso, del lontano, del nuovo; forse, paradossalmente, più in passato di oggi, ché le popolazioni una volta invase dall’occidente è come se tornassero a riprendersi quanto era stato loro tolto.
Occorre dire che anche altre culture hanno prodotto loro antropologie, cercando di capire e dare un senso, per esempio, alla nostra. Ed è interessante per una civiltà invecchiata come quella occidentale essere capace di vedersi da fuori, di sapere cosa gli altri pensano di noi e come ci percepiscono.
Un caso interessante può essere quello riguardante l’attuale conflitto islam-occidente (essendovi in gioco interessi economici mondiali è però qualcosa di più complesso della sola antropologia). Un conflitto di civiltà che ha raggiunto il suo apice dopo l’esplosione delle torri gemelle nel 2001. Un conflitto che è stato alimentato in modo irriguardoso dai mass-media occidentali, ma anche da rinnovati atti di terrorismo estremista che meritano una ferma denuncia.
Questo conflitto assume tratti paradossali, ma il clima di allarmismo esagerato verificatosi dopo il 2001 è stato creato ad arte dai governi occidentali al fine di controllare meglio il popolo. Dicevamo, il conflitto assume tratti paradossali poiché se si studiasse approfonditamente la storia si vedrebbe come la cultura greco-occidentale e quella islamica siano sempre state in contatto tra loro, in perenne comunicazione e conflitto. Possibile che la storia dopo circa 2000 anni di vicinanza e stretta parentela (non dimentichiamoci che entrambe, con l’ebraismo, sono religioni monoteiste) non abbia insegnato nulla a entrambe queste antichissime e gloriose civiltà? Certamente visti i risultati odierni verrebbe da dire di no. Ma è un caso che proprio le tre religioni monoteiste siano quelle sempre in maggiore conflitto? Questa è una domanda “antropologica”.

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Claude Lévi-Strauss (1908-2009).

Vediamo che in questa vicenda complessa esce tutto il potenziale ancora inespresso della disciplina e dello studio antropologici: la conoscenza approfondita di culture e storie altre al fine di comprenderle e costruire un terreno comune. Noi proviamo a dare una risposta. La nostra teoria non validata scientificamente è che siano proprio le religioni monoteiste a favorire una concezione di vita che giustifica in parte le guerre sia psicologiche sia fisiche.
Facendo un excursus storico notiamo come le guerre mondiali siano entrambe nate in Europa, nella civiltà occidentale, e che anche le maggiori guerre passate, diciamo da 2000 anni a questa parte, siano quasi tutte appannaggio di queste tre religioni monoteiste nelle relative aree geografiche. Escluso il Giappone, il quale fuori dall’Europa monoteista è l’unica nazione avanzata che ha legittimato le guerre in passato (si parla di guerre di grandi dimensioni spazio-temporali), la storia parla da sé, basta conoscerla e leggerla e non vi è bisogno di validazioni scientifiche. Il punto,
secondo me, è che dalla concezione spirituale scaturisca tutto il resto, cioè la concezione della vita di una data civiltà e di tutte le sue espressioni. Indubbiamente una concezione strettamente monoteista, assolutizza e contribuisce a contrapporre ogni cosa. La concezione della divinità unica, insieme ad altri fattori, ha de facto e sta ancora (il conflitto israelo-palestinese) contribuendo alla soluzione violenta dei conflitti.
Quindi i discorsi demagogici di certi politici che invocano ossessivamente le radici cristiane in Europa paiono arroccamenti inutili. Etimologicamente parlare di radici è errato perché gli esseri umani non possono essere paragonati agli alberi, e inoltre perché l’Europa ha avuto origini plurime (la cultura greca, quella romana, quella anglosassone, quella del Nord Europa, quella slavo-ortodossa a est) che il cristianesimo ha avuto il merito di unificare, di plasmare, ma non di comprimere e appiattire completamente. Si evoca questo spettro, si blandisce questa spada per nascondere le difficoltà attuali dell’Europa di fronte alle sfide globali che l’attendono. Una delle connotazioni positive dell’Europa nell’aver accolto masse di migranti, sta nel fatto che essi provengono dalle culture e tradizioni più svariate. Portandosi così appresso una libertà di culto che resta prerogativa dell’Europa attuale.
Occorre rammentare come la cultura buddhista o quella induista abbiano prodotto nella loro storia assai meno guerre e soprattutto di dimensioni meno rilevanti. Naturalmente questa è una comparazione riguardante il tema delle guerre e il rapporto che esse hanno con la religione, e che pertanto non riguarda un giudizio globale sulla civiltà occidentale o musulmana o quella induista. Vuole mettere in chiara luce che laddove i popoli e le culture non sono strettamente monoteisti si sono avuti minor numero di conflitti e conflitti di minori dimensioni. Io teorizzo che due millenni di storia non possano essere casuali.
Tutto ciò per dimostrare come la visione antropologica del mondo, cioè una visione complessa e mai demagogica, contribuisca a porre domande importanti per costruire un futuro del mondo più armonico. ln quanto disciplina che prevede una conoscenza approfondita della storia e della geografia connesse, l’antropologia culturale può e deve assumere un ruolo maggiore nel mondo contemporaneo, diventare (ma all’opposto) quello che fu quando sostenne le invasioni coloniali del’800. Cioè sostenere o cercare di sostenere un continuo dialogo di culture e tradizioni diverse per evitare più conflitti possibile e creare ponti di comunicabilità reciproca.

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Le correnti storiche

Per concludere vorremmo fare una breve storia delle maggiori correnti antropologiche. La moderna antropologia culturale sorge con l’Illuminismo in Francia, ma quasi contemporaneamente a quello spirito positivista che in Gran Bretagna e nei nascenti Stati Uniti d’America diede luogo al progresso e all’industrializzazione. Per cui vide la luce quella corrente che si chiama evoluzionismo, stretto parente di quello biologico. Fu il paradigma evoluzionista che maggiormente spinse l’antropologia a considerare i selvaggi come inferiori da civilizzare (e ancor oggi sappiamo quanti danni produsse quella forzata “civilizzazione”). D’altronde in un’epoca di enormi e incredibili scoperte scientifiche, anche il mettere in discussione quelle verità immutabili proposte dalla visione religiosa fu positivo. Ripetiamo che il paradigma evoluzionistico in antropologia fu usato più politicamente dalla Gran Bretagna e dagli Stati Uniti (si pensi all’esempio dei nativi americani).
Un’altra corrente della storia antropologica fu quella funzionalista, che si sviluppò in seguito all’evoluzionismo e di cui fu debitrice intellettuale. II funzionalismo teorizzava che la comprensione di una società nel suo insieme fosse possibile solo se di questa società si esaminavano in modo dettagliato tutte le parti principali. Quindi, produrre le cosiddette monografie etnografiche su specifici aspetti di una società (economia o religione o piuttosto le filiazioni e la parentela) poteva contribuire a conoscerla meglio nel suo insieme connettendone tutti i suoi vari aspetti. Malinowski, che insegnò alla London School of Economics, ne fu l’esponente principale.
Con lo strutturalismo, l’antropologia era già cresciuta, considerata scienza ufficiale e insegnata nelle maggiori università del mondo. Lo strutturalismo vide Levi-Strauss come suo esponente principale, un intellettuale di levatura mondiale conosciuto oltre i confini dell’accademia specialistica. Lo strutturalismo teorizzava che la società si componesse di strutture già in precedenza fissate e che ogni struttura sociale già precostituita fosse dimostrabile dai dati storici. Ecco perché Levi-Strauss definì gli antropologi “straccivendoli della storia”, in onore a questa visione della società. Ovvero: gli antropologi come dimostratori di dati storici che nell’insieme danno la prova dell’esistenza di determinate identità culturali e tradizionali differenti.
Per chiudere, va detto che oggi non vi è un paradigma dominante, ma con le nascenti antropologie di altre civiltà (quella giapponese in primis, ma anche quella indiana) e la crescente urbanizzazione nei Paesi del terzo mondo, si è resa necessaria un’antropologia che tenga conto del cosmopolitismo e delle continue migrazioni che provocano cambiamenti nella sfera geopolitica del globo.