Il mese di luglio si è inaspettatamente aperto con una buona notizia per il gruppo indigeno dei sioux: un giudice federale ha ufficialmente ordinato la chiusura del Dakota Access Pipeline (DAPL), il controverso oleodotto che tra il 2016 e il 2017 era stato protagonista di un’accesa battaglia per impedirne la realizzazione. Il giudice James E. Boasberg ha infatti stabilito che l’impianto, ormai in funzione da più di tre anni e che trasportava 570.000 barili al giorno, deve essere svuotato nel giro di 30 giorni, entro il 5 agosto prossimo e la sua attività bloccata fino a quando non verrà effettuata una nuova e più completa revisione ambientale.

chiusura del dakota pipeline
Il percorso del DAPL.

Si tratta di una vittoria indiscutibile per i nativi che, fin dall’approvazione del progetto e dall’inizio dei lavori, si erano opposti strenuamente a quello che avevano appropriatamente definito Black Snake. La situazione aveva riscosso grande eco mediatica dal momento che il DAPL rappresentava un investimento complessivo da 3,7 miliardi di dollari da parte della potente Energy Partners Transfer, una linea interrata che dal North Dakota giungeva, dopo 1886 km, nelle raffinerie dell’Illinois, velocizzando enormemente il trasporto petrolifero interno.
Il problema è che il serpente nero attraversa il cuore delle terre ancestrali dei lakota, tribù di nativo americani appartenenti alla nazione sioux. L’oleodotto passa sotto il letto del fiume Missouri, transitando nei pressi della riserva indiana di Standing Rock, al confine tra North e South Dakota. I lakota non hanno potuto accettare questa imposizione forzata in quanto da secoli si servono delle acque del Missouri come fonte di approvvigionamento idrico per uso familiare e agricolo, e temevano, giustamente, il rischio di inquinamento nonché l’eventualità, non troppo remota, di una catastrofe ecologica in caso di fuoriuscita del greggio. Inoltre costituiva l’ennesimo sopruso in termini di violazione delle libertà indigene in quanto l’area è anche considerata un luogo sacro, dove riposano gli antenati e, per questo, dall’incommensurabile valore simbolico e spirituale.
Da inizio 2016 un gran numero di membri di tribù indiane e diversi ecologisti hanno allestito nei pressi della riserva un vero e proprio accampamento dove hanno messo in atto sit-in di protesta quotidiani contro la realizzazione dell’impianto, arrivando a coinvolgere quasi 15mila persone e attirando l’attenzione internazionale sulla vicenda. Inizialmente l’amministrazione Obama aveva negato i permessi per la costruzione dell’oleodotto, invece il neoeletto Trump aveva firmato un ordine esecutivo per portare rapidamente a termine il progetto, senza prestare troppa cura agli interessi ambientali in gioco. Nei primi mesi del 2017 i manifestanti erano stati fatti sgomberare con la forza dalla polizia che non risparmiò, in alcuni casi, l’utilizzo anche brutale di violenza gratuita.

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Proteste a Standing Rock.

Si era così giunti al maggio 2017 quando purtroppo il DAPL venne inaugurato e iniziò la sua attività. Nonostante l’ingiustizia i rappresentanti dei lakota non si sono dati per vinti e hanno continuato a combattere per tentare di far sospenderne l’esercizio. I primi risultati sono arrivati lo scorso marzo quando una corte distrettuale di Washington, presieduta dallo stesso Boasberg, ha accolto il ricorso indigeno sancendo che la costruzione dell’oleodotto non aveva seguito tutti gli standard ambientali poiché non prendeva in considerazione l’impatto stesso sulle tribù native e, di conseguenza, sarebbe stata necessaria un’ulteriore valutazione ambientale decisamente più approfondita rispetto a quella svolta anni prima dallo United States army corps of engineers (USACE), che è invece stata giudicata gravemente carente.
Il 5 luglio, il giudice ha definitivamente sentenziato che il DAPL non risulta conforme agli standard ambientali ordinandone la chiusura e il blocco dei lavori per almeno un anno, in attesa che giungano le conclusioni di un rapporto complessivo sull’impatto ecologico dell’opera. Per il momento infatti si ritiene che il progetto violi apertamente il National environmental policy act (NEPA), la principale legge statunitense sul diritto ambientale, procurando danno alla riserva di Standing Rock a causa delle trivellazioni troppe invasive svolte per l’installazione della pipeline, che hanno deturpato la zona.
In aggiunta, ma non meno importante, il tribunale ha anche riconosciuto che l’oleodotto viola anche i principi basilari della Dichiarazione delle Nazioni Unite sui popoli indigeni, in particolare alle voci relative al diritto alla salute, all’acqua e ai mezzi di sussistenza. Quest’ultimo risulta un passaggio fondamentale in ottica di tutela delle minoranze etniche dal momento che di fatto i giudici hanno ammesso l’importanza dei luoghi sacri e delle pratiche tradizionali della cultura autoctona che hanno tutto il diritto di0 non scomparire né di subire, ancora dopo secoli, ulteriori vessazioni.
Non abbiamo la certezza che il DAPL venga chiuso e smantellato in modo permanente e che i lakota possano tornare ad essere liberi nei loro territori, tuttavia questa sentenza è un importantissimo passo in avanti nella lotta per la salvaguardia dei popoli indigeni.