Con il putiferio che si sta scatenando attorno ai rom – ormai utilizzati come pallone tra squadre di opposti schieramenti politici – vale la pena di spendere qualche considerazione “etnistica” sull’argomento.
Ci sono tre modi per conoscere gli zingari. Quello dei politici e dei giornalisti radical chic e terzomondisti, che consiste nel sentirne solo parlare dagli altri senza averne mai visto uno di persona: della loro opinione non credo freghi assolutamente niente a nessuno. Quello dei normali cittadini, mamme e pensionati, che vivono in zone periferiche ad alta densità di campi rom, e le cui opinioni non si possono in alcun modo definire “preconcetti” o “pregiudizi”, bensì “concetti” o “giudizi” in quanto determinati dall’esperienza. Quello di una limitata categoria di individui che, per lavoro o per studio, hanno frequentato gli accampamenti.
Mi scuso se ricorrerò a episodi personali, ma gran parte di queste note sono basate proprio sull’appartenenza alla terza categoria in almeno due circostanze.

Artigiani, diciamo

La prima occasione risale agli anni ’80, quando “Etnie” cominciava ad avere una certa fama e nel nostro gruppo c’erano personaggi come Guido Aghina, il grande Gustavo Buratti e Miro Merelli. Aghina era assessore alla Cultura del Comune di Milano, mentre Buratti risiedeva a Biella. Un giorno “Tavo” mi telefona per parlarmi di una tribù di rom kalderasha che si era rivolta a lui per aiuto. Non sanno dove andare, mi dice, sono ospiti in un terreno privato ma è una sistemazione provvisoria. Sono bravissime persone, non potreste trovare una soluzione a Milano?
Con Aghina ci attivammo, individuando una zona verde a Baggio, un quartiere nella periferia occidentale. I rom arrivarono, si insediarono ufficialmente, e io presi a frequentare il nuovo campo, diventando anche amico del capo (di cui ho scordato il nome) e della sua famiglia. Ora, qual è la mia testimonianza?

Incinta
Una donna incinta nel campo nomadi torinese dell’Arrivore, fotografata da Dino Fracchia nel 1991

Ebbene, dei rom si dice che svolgono mestieri tradizionali, come cavallari (soprattutto nell’Est) o artigiani del rame (in particolare i kalderasha). Lo stesso capo mi raccontò che loro lavoravano il rame, ma sia chiaro che in tante giornate trascorse al campo non ho mai visto qualcuno svolgere attività di calderaio né ho mai notato manufatti di quel metallo. È invece noto a qualsiasi commissariato di polizia che queste comunità sono specializzate nel furto di cavi elettrici da cui, questo sì, ricavano il rame da rivendere.
Un’altra caratteristica del “gruppo dirigente” era una forte presa di posizione contro i componenti delle altre tribù, indicati come ladri e disonesti in contrapposizione a sé stessi e con una netta distinzione rispetto alla propria onestà. Interessante e forse superfluo notare che la “generalizzazione”, qui, viene operata proprio dal gruppo etnico che dovrebbe esserne vittima.
La “nostra” tribù chiese e ottenne anche un numero civico e un’apposita fermata d’autobus per “portare i bambini a scuola”. Ma sia detto che si poteva arrivare in visita a ogni ora del giorno e ritrovare tutti quanti i piccoli amici, nessuno escluso, intenti a razzolare tra le roulotte.
Per farla breve… Persa di vista la comunità e trascorsi un paio d’anni, un giorno capitai a Baggio e, in un bar nei pressi del campo, chiesi notizia dei suoi abitanti, lasciandomi sfuggire che li conoscevo. Per poco i presenti non mi sbatterono fuori a calci, e probabilmente sarei stato linciato se avessi aggiunto che ero corresponsabile della situazione. Gli abitanti del quartiere – mi dissero – erano alla disperazione a causa delle razzie perpetrate dai bravi calderai, che nel frattempo erano diventati centinaia. Una bazzecola preistorica, se si pensa che oggi Baggio è teatro degli scontri tra rom e popolazione locale, con auto bruciate e porte sfondate.

Una situazione che sta peggiorando

La seconda occasione deve attendere il 1991. Il giovane etnista appassionato e rincoglionito ha lasciato il posto a un uomo un po’ più scafato, che viene spedito da un mensile a svolgere un’inchiesta dal taglio investigativo sui campi nomadi, con il sostegno del fotografo Dino Fracchia. Il risultato è umanamente e socialmente desolante. Più che riassumerlo qui, consiglierei vivamente di leggere l’articolo, con la sua variopinta galleria di personaggi, non perché sia di chissà quale valore, ma in quanto rarissimo esempio di inchiesta in cui una testata appartenente alla cosiddetta stampa ufficiale tenta davvero di capire i retroscena del problema, e non si limita a sparare le solite minchiate sul razzismo.
La sua collocazione nel lontano 1991 ha un risvolto positivo e uno negativo. Tra i pro abbiamo una società non ancora completamente impazzita per l’etnicamente corretto – non esistevano né le Boldrini né le apposite commissioni europee – talché si può ancora sentire un magistrato come Livia Pomodoro affermare letteralmente nell’intervista:

“Quanto alle reazioni dell’opinione pubblica, non le giudico immotivate. È imputabile agli zingari gran parte degli scippi e dei furti in appartamento. Per adesso siamo a questo livello, però già si profilano episodi di spaccio di droga e prostituzione minorile. Se un fenomeno del genere non impressiona la cittadinanza, mi dica lei quale potrebbe essere… È chiaro”, conclude il procuratore, “che il problema si risolverà superando l’approccio meramente giudiziario a favore di un intervento sociale. La soluzione e l’inserimento nella comunità dei cittadini, come chiedono gli stessi nomadi. Ma loro devono decidersi ad accettare le norme del vivere civile. Chi vive di furti non può aspettarsi comprensione in nessuna società umana”.

Il risvolto negativo è che la situazione di 24-25 anni fa non era che un pallido simulacro di quella odierna. Ormai non si profilano più timidi episodi di spaccio di droga e prostituzione minorile, ma aggressioni alla cittadinanza in alcuni casi anche con armi da fuoco. Alcuni quartieri cittadini sono letteralmente assediati. Al crollo hanno concorso l’ascesa di politici locali che hanno praticamente garantito l’immunità ai delinquenti, purché appartenenti a etnie ideologicamente d’élite; e l’arrivo di decine e decine di migliaia di altri nomadi dai nuovi Paesi della UE, che si sono aggiunti alle preesistenti tribù iugoslave e albanesi.

Non neghiamo l’evidenza, per favore

Dopo queste esperienze (irrobustite da una mezza dozzina di visite a campi sinti e rom per motivi più “scientifici”) sono arrivato ad alcune conclusioni.
1) In ogni campo – ignoro se frutto del caso o di calcolo – è sempre presente una figura o un insieme di figure che pretendono di rappresentare la parte sana e onesta della comunità, si definiscono vittime di una minoranza di farabutti, vorrebbero mandare i bambini a scuola ma per qualche motivo le autorità frustrano questa aspirazione, svolgono attività lecite e legate alla tradizione. Poveri ma onesti. È in bocca a queste persone – in realtà delinquenti pieni di soldi – che finiscono di solito i rari giornalisti che vogliono provare il lavoro (letteralmente) sul campo: per lo più ingenuotti alle prime armi che si fanno infinocchiare come niente, felici di tornare in redazione e poter finalmente scrivere “razzismo”, “emarginazione” e “guerra tra poveri”.
2) Sostenere che gli zingari hanno un elevato tasso di criminalità è peggio che una generalizzazione, oltre a essere ormai penalmente perseguibile dall’eurofascismo: è ridicolo. Gli abitanti di un campo nomadi sono virtualmente tutti individui che delinquono per il semplice fatto che nessuno di loro lavora. E a nessuno di loro, che siano bambini o adulti intimamente alieni dalla malvivenza, è permesso chiamarsi fuori dalle attività collettive: di fatto, non gli sarebbe consentita la permanenza nell’insediamento.
3) Le analisi sociologiche che parlano di degrado, emarginazione e povertà hanno il valore scientifico proprio di chi non mette piede fuori casa. Non ci vuole un economista, basta un ambulante per capire che se hai chili d’oro addosso, roulotte lunghe sette metri e Mercedes adatte a trainarle sei ricco. E anche se nessuno sembra avere il fegato di mettere le mani nei loro conti correnti, basta la testimonianza della cassiera della Coop che cambia ogni mattina le elemosine della zingara con biglietti da cento esentasse.
I poveri, i paria, gli schiavi – che pur esistono nei campi nomadi – non sono tali per colpa dei “gagè” ma delle loro stesse famiglie.
Stabilito questo, noi continueremo a studiare la cultura di queste etnie e a difenderle, persino ad amarle, ma senza censurare il tema della delinquenza, e per due motivi.
1) Lo studio antropologico di una comunità deve comprenderne tutti gli aspetti, non saltando come si usa molto oggi quelli sgradevoli: un atteggiamento tipico dei regimi fascisti, quello di inventarsi la scienza di stato, come il lyssenkoismo in Urss e l’antropologia razziale nel Terzo Reich.
2) L’antropologia etnica, almeno come la intendiamo noi, è anche lo studio dei rapporti tra le comunità, ovvero l’analisi dei conflitti e non la negazione degli stessi. E che esista un conflitto doloroso tra autoctoni e nomadi è un fatto innegabile.