Qui al Foglio ci piacerebbe che la Turchia avesse un governo laico, che rispettasse le libertà di giornalisti e accademici (e di tutti in buona sostanza) e che riuscisse a trattenere le pulsioni aggressive contro i curdi. Ma in questo articolo di oggi non si parla di quei dossier dolorosi e ci si concentra sull’equivoco enorme che molti fanno a proposito della questione dei profughi siriani e dei confini dell’Europa. Vediamo titoli come “il ricatto di Erdogan” e “Erdogan spinge i profughi verso l’Europa”. Ebbene, il fatto è semplice: Erdogan ha ragione. I profughi che scappano a milioni verso l’Europa non sono turchi, sono siriani e vengono dalla Siria in guerra. E non sono in fuga da Erdogan, sono in fuga da una campagna militare del governo di Bashar el Assad e della Russia. Se gli aerei di Assad e della Russia non li bombardassero tutti i giorni, non si sposterebbero di un metro dalle loro case in Siria. Invece scappano verso la Turchia perché è la loro unica via di salvezza e perché c’è una campagna militare che li prende deliberatamente di mira e non c’è nessuno nella comunità internazionale – nessuno – che voglia occuparsi di loro. E però piuttosto che riconoscere questa realtà lineare, diamo a Erdogan una colpa che non ha: quella di produrre milioni di sfollati disperati.
I siriani di Idlib non sono “vittime collaterali” della guerra, come succede spesso in altri conflitti. Non ci sono finiti in mezzo per sfortuna. Sono il bersaglio di una campagna violenta e mirata che ha proprio lo scopo di depopolare la regione di Idlib per favorire l’avanzata dell’esercito di Assad. Gli sfollati non sono un prodotto di scarto delle operazioni di combattimento di questi mesi, sono l’obiettivo delle operazioni di combattimento di questi mesi. Jamil Hassan, che all’epoca era capo dell’intelligence di Assad, teorizzò questa soluzione nell’agosto 2018: “Meglio dieci milioni di siriani leali verso il presidente che trenta milioni di criminali”, disse. “Dopo otto anni di guerra, la Siria non accetterà la presenza di cellule cancerose, devono essere rimosse completamente. Il gregge va filtrato”. È la vecchia lezione di Mao: la gente è lo stagno in cui nuota il pesce della rivoluzione. Il che vuol dire che dal punto di vista del regime un gran numero di siriani va cacciato dal paese: che si arrangino a trovare una sistemazione, in Turchia oppure in Europa.
A Damasco e a Mosca sanno che se permettessero alla popolazione siriana di restare nelle città e nei villaggi di Idlib potrebbero avere di nuovo gli stessi problemi del 2011, l’anno delle rivolte. Le forze di sicurezza del regime non riuscivano a controllare la situazione allora, figurarsi oggi che sono dissanguate da dieci anni di controinsurrezione. Ogni volta che costringevano una zona ribelle a capitolare permettevano agli elementi che non volevano finire di nuovo sotto il controllo del regime di trasferirsi a Idlib in cambio della resa. La soluzione assadista è riprendersi il territorio, non la popolazione. Ma ora a Idlib ci sono tre milioni e mezzo di persone che non hanno più altri posti dove andare; e l’unica salvezza per loro potrebbe essere superare il muro di confine a nord, raggiungere la Turchia e unirsi ai tre milioni di altri profughi siriani che sono là da anni. Il totale teorico è superiore ai sette milioni e i governi dell’Europa, dove siamo sull’orlo di una crisi di nervi per ventimila immigrati l’anno, pretendono che Erdogan se li accolli tutti e per sempre, che gestisca la crisi da solo. Non vogliono sentire parlare di bombardamenti russi o di torture di Assad. Non vogliono vedere che la Turchia si limita a fare da coperchio alla pentola, ma il fuoco sotto la pentola sono gli assadisti e la Russia. La crisi non è al confine fra Turchia e Grecia, la crisi è dentro alla regione di Idlib. È lì che occorre ottenere una tregua il prima possibile.
Nel settembre 2018 Erdogan e il presidente russo, Vladimir Putin, si incontrarono a Sochi e raggiunsero un accordo per creare una zona di sicurezza a Idlib. In pratica l’accordo sospendeva le operazioni militari e funzionava come un possibile preludio alla spartizione della regione. Russia e Siria si sarebbero prese l’autostrada M5, che è strategica perché collega la capitale Damasco alla seconda città del paese che è Aleppo, ma avrebbero risparmiato la parte di regione fra l’autostrada e il confine turco, e là si sarebbero ammassati i civili. L’accordo di Sochi, come si capisce dalle notizie di questi giorni, è morto. Il regime avanza per riprendersi tutto, i suoi aerei e quelli russi bombardano gli ospedali, i forni che fanno il pane, le scuole e persino le tendopoli dei campi profughi con lo scopo preciso di rendere la vita impossibile alla popolazione. Tra aprile e dicembre i bombardieri hanno colpito sessanta fra ospedali e ambulatori. Nel tentativo di offrire un minimo di protezione dai bombardamenti, le Nazioni Unite hanno compilato una lista con tutti gli ospedali e gli ambulatori usati dai civili e l’hanno consegnata alla Russia ma ventinove siti sono stati bombardati lo stesso.
C’è il sospetto fortissimo che il regime e i russi abbiano usato la lista dei luoghi da non colpire come una lista dei bersagli da colpire. A maggio gli aerei russi ne hanno bombardati quattro nel giro di dodici ore. È chiaro che distruggere gli ospedali è un modo per spingere via la popolazione. Dovremmo credere che si sia trattato di un caso? E anche quando i bombardamenti cessano, c’è sempre il pericolo delle prigioni di Assad. Si ricorderà il caso di Cesar, il disertore delle forze di sicurezza assadiste che riuscì a fuggire dalla Siria portando con sé le foto di undicimila prigionieri ridotti a scheletri dalla fame, torturati e infine uccisi. Era il 2014, sei anni dopo la situazione non è cambiata. In molti hanno creduto nelle offerte di riconciliazione fatte di recente del governo anche se sul loro capo pendeva l’accusa di essere dissidenti, sono tornati nelle loro case nelle aree controllate dagli assadisti e sono spariti nel nulla.
Pensavamo di appaltare a Erdogan tutta la questione degli sfollati per poter ignorare la questione siriana, non sta funzionando. Il governo turco da mesi chiede alla Russia di negoziare una soluzione per Idlib e chiede all’Europa di intervenire nei negoziati con il suo peso (il 5 marzo Erdogan vede Putin). Per ora la linea politica dell’Europa è aspettare nella speranza che la crisi si risolva da sola. Non succederà. Quindi ora è inutile meravigliarci se Erdogan tenta di allargare il problema sfollati – che potrebbe raddoppiare in dimensioni nel giro di poche settimane – anche all’Unione europea. Se siamo vittime di un ricatto turco è perché è la posizione che per ora ci piace di più.

Daniele Raineri, “Il Foglio”.