Quattro interviste “d’epoca” per ricordare come il Sudafrica ha vissuto la transizione dall’apartheid alla democrazia.

foto di Gianni Sartori

Cinque anni fa, nella notte del 2 febbraio 2016 se ne andava Febe Cavazzutti Rossi. Pastora valdese, trascorse gran parte della sua vita a Padova. Una presenza costante nella chiesa metodista di questa città, come organista e predicatrice, e una testimonianza immensa di fede, serenità e forza d’animo.
Febe era nata nel 1931 a Vicenza (dove in seguito tornerà come insegnante di inglese) e aveva trascorso parte degli anni giovanili a Firenze. In questa città suo padre, il pastore metodista Gaspare Cavazzutti (già collaboratore di Henry James Piggot, sulla cui opera Febe ha realizzato studi e ricerche fondamentali), si distinse per aver salvato molti cittadini di religione ebraica negli anni delle persecuzioni nazifasciste.

febe cavazzutti rossi apartheid
Febe Cavazzutti Rossi con il reverendo boero Beyers Naudé, a Verona il 30 maggio 1987. © G.Sartori

Di quel periodo buio Febe ricordava con particolare amarezza la tragica fine di due ragazze sue amiche, nipoti di un cugino di Einstein, destinate a essere trucidate insieme alla zia per mano dei soldati tedeschi. Un tragico evento (raccontato nel film Il cielo cade) che determinò la morte anche dello zio, suicidatosi per disperazione.
In anni più recenti la lezione paterna si tradusse in un attivo sostegno alle lotta dei nativi del Sudafrica sottoposti al tallone di un nuovo nazismo, quello dell’apartheid. Nonostante dovesse muoversi con una carrozzella (a causa di un incidente stradale per una gomma scoppiata in autostrada tra Vicenza e Padova), Febe era partita per il Sudafrica partecipando a molte iniziative, al punto che il regime la espulse dal Paese.
Chiunque abbia partecipato alle campagne degli anni Ottanta contro il regime razzista di Pretoria la ricorda sicuramente. La rivedo all’Arena di Verona in occasione dell’incontro del 30 maggio 1987 “Sudafrica e noi: strappare le radici dell’ingiustizia. Di quel giorno ricordo anche tanti altri amici presenti in Arena per ribadire un secco NO a Botha, alle fabbriche di armi (molte italiane) che rifornivano il regime di Pretoria (inevitabile pensare a quanto avviene oggi con la Turchia che anche con le armi di Finmeccanica sta massacrando i curdi), alle banche (ancora quelle italiane) che lo finanziavano.
Alcuni di loro purtroppo nel frattempo ci hanno lasciato, come Benny Nato (all’epoca rappresentante dell’African National Congress in Italia), Beyers Naudé (segretario generale del Consiglio Sudafricano delle Chiese e, in quanto boero, chiamato “il grande traditore” dai suoi connazionali bianchi), Davide Maria Turoldo…

febe cavazzutti rossi apartheid
Gianni Sartori con Benny Nato, all’epoca rappresentante dell’African National Congress (ANC) per l’Italia e la Grecia (Arena di Verona, 30 maggio 1987). © G.Sartori

Fra quelli ancora sulla breccia, Alessandro Zanotelli (ex direttore di “Nigrizia”), il vicentino Mario Costalunga (entrambi tra i fondatori dei Costruttori di Pace), il reverendo T. F. Farisani (all’epoca Vescovo vicario delle Chiese Evangeliche Luterane del Sudafrica e vittima della tortura), il comboniano Efrem Tresoldi che in seguito si trasferì proprio in Sudafrica, dove è rientrato il mese scorso dopo un breve soggiorno in Italia (a Verona, dove ho potuto finalmente rivederlo) per ragioni di salute.
Talvolta le inviavo qualche mio articolo che “riveduto e corretto” (e ridimensionato) dalla sua acuta intelligenza, veniva ospitato da “Riforma”, il settimanale in lingua italiana delle Chiese evangeliche, battiste e valdesi. Gli ultimi due: un ricordo di Theresa Machabane Ramashamole, morta nel novembre 2015 (l’unica donna dei Sei di Sharpeville, un gruppo di militanti neri condannati a morte per impiccagione e salvati all’ultimo minuto, di cui mi ero occupato negli anni Ottanta e che in anni più recenti avevo anche conosciuto) e un articolo sulla Resistenza dei curdi a Kobane. Fra l’altro devo dire che ci eravamo ritrovati in sintonia nel considerare la lotta dei curdi analoga a quella dei movimenti antiapartheid del passato. In particolare si mostrava molto interessata e solidale con le donne curde e con il loro protagonismo.
Nel maggio 2004 l’avevo intervistata prendendo spunto da un suo articolo “Riforma”, Dieci anni di democrazia in Sudafrica, dove con la consueta chiarezza analizzava il voto del 14 aprile 2004.

febe cavazzutti rossi apartheid
Il reverendo Farisani, il vescovo ausiliario di Durban Dominic Khumalo e la pastora valdese Febe Cavazzutti Rossi, all’Arena di Verona il 30 maggio 1987. © G.Sartori

Febe era convinta che nel 1994 il Sudafrica avesse realizzato “l’evento più straordinario della sua lunga e sofferta storia”: le elezioni a suffragio universale “aprendo a quei suoi abitanti che fino ad allora non erano che lo scarto umano privo di diritti”. Nel suo articolo sottolineava come tutto si fosse svolto ordinatamente con un’affluenza del 95% su un totale di 20 milioni e 674.926 elettori. Tre giorni dopo Pansy Tlakula, chief electoral officer, poteva già dare i risultati: “Con umiltà sto davanti per dichiarare con orgoglio che abbiamo raggiunto gli obiettivi prefissi. Abbiamo avuto una campagna elettorale forte, in cui i partiti non hanno sfoggiato i meriti della vittoria sull’apartheid, ma hanno affrontato i problemi del nostro Paese. La nostra gente ha esercitato la pazienza e un profondo rispetto per questo atto di libertà”.
In queste elezioni del 2004 l’ANC, il partito di Nelson Mandela, aveva guadagnato il 69% dei voti, con grande distacco dal secondo partito il Democratic Alliance (13%), e Febe ricordava che il presidente del DA, Joe Serename, aveva lavorato lungamente con il South African Council of Churches negli anni bui del razzismo istituzionalizzato, pagando anche un prezzo altissimo a livello personale: l’assassinio di un fratello e di altri familiari da parte delle squadre della morte segregazioniste. Disastrosi invece erano stati i risultati del National Party (il quale, spiegava Febe, “ha praticato l’apartheid con la frusta in una mano e la Bibbia nell’altra”), ridotto soltanto all’1,7%.
Riporto qui alcune mie interviste a Febe (oltre a quella citata del 2004, altre tre rispettivamente del 2007, 2008 e 2009) per onorare questa persona che per tutta la vita si è impegnata al fianco degli oppressi. Un’occasione per “ripassare” la storia recente e non dimenticare cos’era l’apartheid; e soprattutto un modo per ricordare Febe, sapendo che l’ingiustizia, lo sfruttamento e l’oppressione non scompaiano magicamente con la fine di un regime, ma si riproducono sotto altre spoglie. Per cui, va detto, occorre sempre vigilare. Così come Febe insegnava a chi ha avuto l’onore di conoscerla.

1) Dieci anni di democrazia in Sudafrica (maggio 2004)

Dell’Arena ‘87 ricordo in particolare l’intervento del reverendo Farisani (anche perché lo concluse a pugno chiuso, niente male per un prete). Si muoveva ancora con difficoltà a causa delle torture subite. Farisani, uno zulu, disse di aver fatto parte dell’Inkatha Freedom Party (IFP), ma di essersene allontanato quando si era reso conto che il leader, Bhutelezi (noto anche in Italia in quanto invitato a Rimini da Comunione e Liberazione), faceva il gioco dei razzisti di Pretoria alimentando la violenza tra i Neri. È accaduto qualcosa del genere anche durante l’ultima campagna elettorale del 2004?

In effetti è stata questa l’unica nota stonata e paurosa. Il Kwa Zulu Natal è la roccaforte di Inkatha Freedom Party di Buthelezi che per alcuni anni ha osteggiato il processo di liberazione, uccidendo e devastando, in una guerriglia fratricida e con la confessa connivenza del governo sudafricano di allora. La saggezza di Nelson Mandela, che aveva dato riconoscimento politico all’IFP mettendo Buthelezi a capo del ministero degli Interni, aveva poi prodotto la pacificazione. Si comprende tuttavia come in queste elezioni del 2004 l’IFP abbia rivisto nell’ANC un nemico e abbia fatto nuovamente ricorso a violenze e intimidazioni, soprattutto a Pietermaritzburg. I locali della nostra Chiesa metodista si trovano al centro della città e per tre giorni il pastore Sol Jacob ha dovuto chiudere ogni attività per evitare il peggio. 1)
Va anche ricordato che nel Natal, contemporaneamente alle elezioni nazionali, si sono svolte quelle regionali. Per la prima volta l’ANC ha superato l’IFP col 46,93% contro il 36,82%. Per dare a Buthelezi la maggioranza non è servito nemmeno l’apporto di DA (Democratic Alliance), forse grazie ai 50mila bianchi di Pietemaritzburg che hanno votato per l’ANC, spaventati dalla volontà dell’IFP di trasferire la capitale a Ulundi, nel cuore della terra Zulu.

febe cavazzutti rossi apartheid
Il reverendo Farisani (che in Sudafrica era stato torturato e ridotto in fin di vita) a Verona. Qui con il comboniano Alex Zanotelli (da poco allontanato dalla direzione di “Nigrizia” per aver denunciato il traffico di armi italiane con Pretoria e in procinto di partire per una baraccopoli di Nairobi). © G.Sartori

Lei, mi diceva, considera importante che la maggior parte dei presidenti di seggio in queste elezioni siano state donne. E per quanto riguarda i ministeri?

I ministri del nuovo governo sono stati nominati e hanno prestato giuramento il 28 aprile 2004. Tra di loro c’è una buona presenza femminile; oggi le donne ministro sono 10 su 21 in dicasteri chiave come Esteri, Interni, Giustizia, Istruzione, Salute, Agricoltura, Risorse idriche, Risorse minerarie (oro e diamanti), Pubblica amministrazione, Opere pubbliche.

A distanza di qualche anno sembra quasi impossibile che un regime come quello dell’apartheid sudafricano abbia potuto durare così a lungo in pieno ventesimo secolo. Capita talvolta di sentirsi chiedere: “Ma i Bianchi del Sudafrica cosa pensavano? Come vedevano i Neri? Come giudicavano le scelte, la legislazione del loro governo?”.

I Bianchi sostanzialmente sembravano non interessarsene, non sapevano e non vedevano niente. Forse perché in fondo avevano paura, paura per il semplice fatto di avere i Neri vicino a loro. Era una situazione difficile anche solo da immaginare, il contatto non c’era. Quando si girava per Città del Capo o Johannesburg o Durban, appariva evidente che la massa dei lavoratori era nera (i commessi dei negozi per esempio, ma anche nelle banche); sembrava stessero bene; sembravano “liberi”… Ma nessun Bianco ha mai chiesto a un proprio dipendente: “Dove abiti?”.
Per i Bianchi quelle leggi erano giuste; loro si sentivano intelligenti, loro preparavano un futuro dove anche i Neri sarebbero stati in grado di autogovernarsi. Vedi il grande inganno delle “homelands” dove nessun Bianco sarebbe mai entrato. Le leggi erano considerate giuste per i Bianchi e per i Neri. A volte le regole erano veramente assurde. Basti pensare che la “mamy”che accudiva i bambini nelle ville dei Bianchi, doveva per legge restare sulla soglia della stanza quando il bambino dormiva. Non doveva mai dormire o mangiare in casa, quindi doveva avere una stanza fuori. Sempre per legge in casa non doveva portare nessuno, nemmeno i figli. Il contratto doveva essere di un anno più tre settimane (non pagate) di vacanze. Quindi queste donne a servizio non vedevano i loro figli per un anno e intanto nei loro luoghi di origine le nonne badavano anche a venti o trenta bambini.

febe cavazzutti rossi apartheid
Philips Mokgadi, rifugiato politico condannato a morte in Sudafrica e rappresentante del Pan African Congress (PAC), a Schio per un incontro-dibattito sull’apartheid. © G.Sartori

Ma, mi chiedo, possibile che a una madre bianca non venisse mai in mente che anche quella donna a servizio era una madre, che anche lei aveva dei sentimenti?

Penso che all’origine ci fosse una sorta di paura atavica. Un’altra legge molto significativa per capire quel periodo è quella che imponeva a tutti i Bianchi di avere il porto d’armi e di esercitarsi con sagome di forma umana. Naturalmente anche questo generava altra paura.

Tornando alla sua descrizione della massa di lavoratori neri presenti nelle città durante il giorno… Cosa succedeva ad una certa ora?

Alla sera, tra le cinque e le sei, questa massa di gente doveva sfollare, essere fuori. Dopo le sei solo il vento e il silenzio circolavano per le strade…

E i Bianchi?

I Bianchi restavano chiusi dentro per la paura, anche se ormai i Neri se ne erano già andati. Si credeva, o si voleva far credere, che questo modo di vivere fosse una cosa buona, utile per tutti.

febe cavazzutti rossi apartheid
P. Mokgadi e la moglie con il comandante partigiano TAR (Ferruccio Manea, di cui parla Meneghello in Libera nos a malo e in Piccoli maestri). © G.Sartori

Quindi il Nero in un certo senso era un invisibile?

In pratica non lo vedevano. Eppure le township (Alexandra, Soweto…) facevano parte della municipalità. Le township dove abitavano i lavoratori neri erano in generale a una trentina di chilometri dalle città e quasi senza collegamenti, ma alle otto dovevano essere presenti sul posto di lavoro. Un dipendente dopo tre giorni di ritardo veniva licenziato e dopo altri tre giorni senza lavoro doveva andarsene anche dalla città.

Lei ha visto di persona come vivevano i Neri in questa sorta di ghetti. Ce ne può parlare?

Ricordo in particolare un insediamento presso Città del Capo, a circa trenta chilometri dalla città, dove un gran numero di persone viveva in tende dell’esercito dell’ultima guerra mondiale. Eppure nei Neri del Sudafrica, anche quando vivevano in queste misere condizioni, ho sempre trovato una enorme dignità e una grandissima pulizia. Durante quella visita ci eravamo fermati davanti a una tendina dove erano nate due bambine. Quando la mamma è uscita ho visto che le bambine erano con la cuffietta inamidata. E fuori, bada bene, c’era il fango, la melma… Chiesi dove avesse mai trovato l’acqua necessaria e mi rispose che a circa dieci chilometri c’era un cimitero dei Bianchi dove l’acqua pulita non mancava mai. Naturalmente i Bianchi che visitavano il cimitero non si accorgevano di niente, forse nemmeno sospettavano la presenza di quell’insediamento.
A Crossroad (uno dei luoghi maggiormente interessati dagli scontri quasi quotidiani tra i Neri delle baraccopoli e la polizia sudafricana negli anni Ottanta) sono entrata al tempo della rivolta. Conservo due foto di chiese in lamiera e cartone, una cattolica e una battista e ricordo un pastore che aveva come minimo una comunità di centomila persone da seguire. In queste aree i Bianchi non avrebbero potuto entrare neanche volendo perché la polizia non lo avrebbe permesso. Oggi scoprono realtà per loro sconosciute di miseria e degrado, ma la povertà di oggi è il frutto degli anni dell’apartheid. Nel 1985, poco prima che mi dessero il bando (la proibizione di rientrare in Sudafrica per almeno cinque anni), andai da un mio amico che più tardi entrò a far parte del PAC (Pan African Congress) e gli chiesi: “Ci saranno centomila Bianchi dalla vostra parte?”. “No – mi rispose – nemmeno cinquantamila, forse cinquemila”.

febe cavazzutti rossi apartheid
Tre esponenti del sindacato sudafricano COSATU, a Verona nel 1988 ospiti del Congresso della FIOM. © G.Sartori

Eppure l’apartheid, che sembrava destinato a durare in eterno dato lo strapotere economico e militare dei Bianchi, alla fine è caduto. Mi diceva che tra i Neri era chiara la consapevolezza della sua fine prossima e che questa consapevolezza derivava in parte dalla fede.

All’epoca ci si poneva spesso questa domanda: ma quanto durerà? Sembrava impossibile uscirne, soprattutto conoscendo la forza di questo sistema, ma tutti a quel tempo mi dicevano che sarebbero occorsi cinque anni. E cinque anni sono stati. Ricordo anche che nelle chiese si pregava e si era sicuri che il Signore rispondeva, il Signore che tira giù dal trono i potenti. L’inno che ora è diventato inno nazionale del Sudafrica (Dio benedica l’Africa) noi lo cantavamo in chiesa. E Dio ci ha ascoltato.
Non considero una semplice coincidenza il fatto che Mandela sia metodista. Naturalmente si guarda bene dal pubblicizzarlo (per garantire la separazione tra Stato e Chiesa), ma quella è comunque la sua radice.

Ritiene che la componente religiosa fosse presente anche nel 1960, al momento della scelta di Mandela di prendere le armi contro il regime (dopo la strage di Sharpeville, quando la polizia massacrò una folla inerme di Neri che protestavano pacificamente)?

In quel momento Mandela si dovette separare da Luthuli (un predicatore metodista) che predicava la non violenza assoluta, ma lo fece di malincuore. Anche perché, va detto, l’ala armata (Umkhonto we Sizwe: ferro di lancia della nazione) si rese responsabile di azioni discutibili. In genere comunque erano fuori dalla RSA, nello Zambia e in Namibia. Chi tentò effettivamente di portare la lotta armata dentro al Sudafrica fu il PAC, ma durò poco. Vorrei anche dire che in fondo quello di “prendere le armi” fu un ragionamento “da Bianchi”.

Aveva anche accennato al fatto che molti dei problemi attuali del Sudafrica (criminalità, violenza contro le donne…) sarebbero il frutto degli anni dell’apartheid.

Gli anni dell’apartheid sono stati anni terribili, soprattutto per i giovani. Si calcola che furono circa 85mila i bambini incarcerati e torturati. Venivano portati in tribunale come “sovversivi”. Ricordo due gemelline di tredici anni, arrestate anche loro insieme al padre perché durante una perquisizione avevano trovato in casa Arcipelago Gulag. Altri bambini vennero arrestati perché casualmente avevano i quaderni con gli stessi colori dell’ANC (verde, oro e nero). E quando non li arrestavano li “ripassavano” con la frusta. Venivano sospettati per ragioni assurde, per esempio se a scuola dimostravano un eccessivo interesse per la storia o se cantavano a squarciagola. Ugualmente se alle partite facevano il tifo per gli anglosassoni invece che per i boeri. Una volta il figlio di Desmond Tutu venne arrestato mentre assisteva a un processo soltanto perché gli era scappato da ridere. Io lo dicevo sempre: questa è una generazione distrutta. I genitori stessi erano disperati perché vedevano che i loro figli degeneravano. Naturalmente c’era anche la violenza che proveniva da alcuni Neri, come Buthelezi e le sue bande ben organizzate. 2)

Cosa può dirci sui processi che hanno portato i carnefici a confrontarsi con le vittime, a guardarsi negli occhi, ad autodenunciarsi e a venire in qualche modo assolti (talvolta perdonati)?

In questi processi i due presidenti erano Desmond Tutu e Khoza Mgojo, pastore metodista (la Truth and Reconcilation Commission era suddivisa in tre commissioni specifiche, e loro erano i presidenti di una di queste). Hanno avuto poco aiuto, ma hanno fatto un lavoro enorme. Tutu in particolare è un grandissimo organizzatore e in questo gli è stata di grande aiuto la moglie. La gente si iscriveva per parlare; per primi venivano le vittime e da questo nasceva il collegamento con i responsabili (i torturatori, le squadre della morte, i “vigilantes”…) che venivano convocati. Ovviamente erano incontri laceranti, ma in qualche modo in grado di ricomporre rapporti umani.

È probabile che i mandanti di eccidi e torture non si siano neanche presentati…

Anche De Klerk, non parliamo poi di Botha (il primo parzialmente, il secondo totalmente) si sono rifiutati di dare testimonianza. Botha è stato particolarmente sprezzante nel rifiutarsi di comparire. Ma è importante sottolineare che non ci sono state vendette, faide, perché la cultura dei Neri sudafricani, degli anziani soprattutto, era questa; per me è stato l’ultimo atto di una testimonianza di grande civiltà, di una cultura tradizionale che rischia di scomparire. In qualche modo ha smentito coloro che consideravano la questione del Sudafrica prettamente politica, legata in qualche modo al rischio del “comunismo” (anche se il partito comunista in Sudafrica era soprattutto un partito di Bianchi, comunque una corrente di pensiero politico minoritaria); si trattava di una menzogna pretestuosa destinata a giustificare e perpetuare l’apartheid. Io penso che i principi religiosi siano stati fondamentali, che la resistenza derivasse dalla profonda spiritualità degli africani, qualunque fosse la forma religiosa di appartenenza compresa la tradizione animista.

Ha avuto modo di conoscere personalmente persone depositarie di queste tradizioni che, presumo, saranno state in gran parte sradicate dall’opera di “evangelizzazione” degli europei?

Io non so cosa fosse esattamente la religione dei Neri prima della seconda metà dell’800, ma una volta, a duemila metri di altezza, siamo arrivati in un villaggio di circa duemila anime avvolto nella nebbia. Erano tutti animisti. C’erano anche quattro suore che avevano aperto una scuola. Ricordo una suora molto giovane, irlandese, che parlava sia zulu che afrikaneer. Un’altra era esperta in agricoltura, una medico e un’altra, ingegnere, costruiva i pozzi per l’acqua. Era una zona dedita all’allevamento del bestiame: alla mano d’opera nera era permesso solo di bere dalle stesse pozze del bestiame con conseguenze sanitarie immaginabili.
Io, che sono sempre un po’ sospettosa, ho cominciato a far domande: mi risposero che tra quella gente avevano imparato molto, anche in materia di fede. Quando nasceva un bambino era normale chiamarlo con nomi il cui significato era “Grazie a Dio”, “Benedetto dal Signore”…
Nella loro scuola c’erano circa 600 allieve. Chiesi: “Voi insegnate a leggere, a scrivere… Catechizzate anche?”. Mi risposero che avevano smesso di farlo. Quando raccontavano una storia della Bibbia venivano ascoltate molto volentieri, anche perché alcune vecchie regole (per esempio nel Levitico) erano identiche a quelle dell’antica religione animista praticata dagli abitanti del villaggio.
Io temo che anche il cristianesimo, “esportato” con la nostra mentalità, abbia fatto dei danni in Africa. Penso per esempio al problema della contraccezione che veniva praticato in modo naturale, con l’uso delle erbe…

La divisione tra Bianchi e Neri si riproduceva anche all’interno delle diverse Chiese?

Le due comunità, bianca e nera, non si incontravano; nelle chiese dei Bianchi i Neri non c’erano. Quando Desmond Tutu divenne vescovo a Johannesburg in una Chiesa anglicana bianca, in chiesa non andava più nessuno. Lo ricordo bene perché andai a trovarlo ed era solo, disperso, in mezzo a tutti quei banchi ottocenteschi.
Va anche detto che forse nelle chiese protestanti, dove vige una maggiore libertà, le cose erano un po’ più facili. Tutte le decisioni vengono prese dalla base, non dall’alto e quindi nel Sinodo ci si incontrava; a tale proposito c’erano dei permessi speciali (già nei primi anni ‘80 il presidente di turno della Chiesa Metodista era un africano nero).
Una volta Beyers Naudè mi disse. “La cosa che mi rattrista di più è che in questo modo i Bianchi perdono la fraternità dei Neri”. Ho compreso realmente cosa intendesse dire dopo aver partecipato a un incontro in una chiesa frequentata solo da neri. In Sudafrica si canta sempre, alla cerimonia si arriva mezz’ora prima perché si canta e poi si canta anche alla fine. Ci si mette in fila e si esce ordinatamente sempre cantando. Quella volta mi avevano messo in mezzo e tutti, cantando, sono venuti a darmi la mano, in fila. A un certo punto venne avanti piano una vecchietta che zoppicava un po’ e intanto frugava. Mi ha preso le mani mettendoci un rand (circa mille lire) dicendo: “Questa è l’unica cosa che possiedo e la voglio dare a te che sei venuta fin qui a trovarci…”. Poi naturalmente l’ho dato al pastore.

febe cavazzutti rossi apartheid
Monsignor Dominic Khumalo, vescovo ausiliario di Durban (in rappresentanza dell’arcivescovo cattolico D.E. Hurley a cui era stato impedito di lasciare il Sudafrica) a Verona nel 1987. © G.Sartori

Qualche volta sento dire che forse il prezzo pagato per abbattere l’apartheid è stato troppo alto e i risultati inferiori alle legittime aspettative. Cosa ne pensa?

Dico che, nonostante tutto, non c’è confronto con l’epoca dell’apartheid. Certo si pensava che le cose cambiassero più in fretta, ma credo comunque che ne valesse la pena. Pensiamo soltanto al problema delle famiglie divise, lacerate. Spesso gli uomini, per lavorare, dovevano vivere in condizioni indegne negli “ostelli”, lontano dalle famiglie, con contratti di due anni (e quattro settimane di ferie). Io ho potuto vederli solo dopo la fine dell’apartheid. Esistevano due livelli di controllo, la polizia esterna e quella interna. In alcuni casi uscivano solo attraverso dei tunnel per recarsi al lavoro, per esempio in miniera. Dormivano in sedici per stanza; i letti erano a castello, ma non erano sufficienti; il refettorio aveva al centro una lunga tavola in cemento, le sedie fissate al suolo. Questi lavoratori vivevano in condizioni orribili. L’unica cosa che negli “ostelli” circolava in quantità e a buon mercato era una pessima qualità di birra che distruggeva i reni. Dieci-dodici anni di questa vita e ne uscivano abbrutiti. Quando tornavano a casa avevano ormai dimenticato le loro tradizioni, o meglio, no, non le avevano dimenticate, ma non ne erano più i portatori.
Le donne nel frattempo li avevano sopravvanzati ed erano loro ormai al centro della vita stessa; era come se loro non servissero più a niente. Le conseguenze oggi sono stupri e violenze sulle donne, come conseguenza di quegli anni.
Nelle township, arrivati a quindici anni i figli dovevano andarsene nella homeland alla quale erano assegnati a seconda della lingua imparata dalla madre. Era lo smembramento di un popolo. Naturalmente in qualche caso oggi si assiste anche alla perdita di posti di lavoro, come in molte miniere dove non c’era mai stata innovazione tecnologica, dato che la mano d’opera a basso costo era in grande quantità; oppure in alcune vaste estensioni di terra vicino alla Namibia. Qui, sulle grandi proprietà delle immense fattorie, la mano d’opera viveva senza diritti, ma avendo comunque la possibilità di viverci; le donne e i bambini che lavoravano e anche la mano d’opera esterna, venivano pagati in modo irrisorio; oggi questo non è più possibile e i proprietari bianchi hanno cacciato dai loro terreni la mano d’opera che non sono disposti a pagare secondo le nuove norme.
Certo, risalire la china è duro, ma ora almeno possono risalire. Basta guardare cos’è successo alle ultime elezioni [di aprile 2004]. Una partecipazione del 90%; in soli tre giorni tutti i risultati erano disponibili. Non per niente la persona responsabile dell’organizzazione delle elezioni era una donna, Pansy Tlakula.

2) A che punto è il Sudafrica? (maggio 2007)

In Sudafrica, uno dei problemi più gravi è la pandemia di Hiv/Aids.

Il quadro complessivo rimane tragico e la pandemia appare inarrestabile. Dal 1990, quando la situazione ha cominciato a essere monitorata, fino a oggi la diffusione dell’Aids è aumentata del 25%. Sono maggiormente colpite le donne, in particolare le giovani fra 24 e 34 anni di età. Secondo dati aggiornati al 2005, le donne fra 20 e 24 anni ne sono colpite al 30%. Quelle fra 25 e 30 sembrano le più esposte, con una crescita della percentuale che passa dal 30 al 40%.
Il morbo appare  in aumento (dal 15 al 30%) anche tra le donne al di sopra di 30 anni. La regione più colpita è il KwaZulu Natal, passato dal 10% all’attuale 40%.

Il sistema sanitario è stato in grado di comprendere la gravità della pandemia e farvi fronte?

Non abbastanza, purtroppo. Va sottolineato, comunque, che l’attuale sistema sanitario cura i malati, anche se in maniera ancora insufficiente. Il problema è enorme. Tuttavia, tenendo conto della situazione, bisogna dire che si sta facendo tantissimo.
Non dimentichiamo che sull’Aids si è fatta tanta confusione. Inizialmente si sosteneva che non esistevano cure efficaci. In realtà ci sono, ma sono molto costose. Mandela aveva chiesto un accesso ai medicinali senza dover pagare i diritti per i brevetti alle case farmaceutiche, ma l’Occidente ha negato questa possibilità. Mentre l’India ha cominciato a produrli in proprio, il Sudafrica è stato bloccato e il contenzioso è ancora in corso. La fascia di età maggiormente colpita è quella della popolazione attiva, tra i 25 e i 45 anni. E gli effetti si vedono. C’è scarsità di dipendenti pubblici (insegnanti, agenti di polizia, operatori sanitari) perché non si riesce a sostituirli.

In che modo la forte incidenza della malattia tra la popolazione femminile si riflette sulla situazione sociale e familiare? Come ha reagito la società civile?

La malattia sicuramente aggrava la situazione di esclusione e di oppressione delle donne, con un aumento della violenza fisica e psichica su mogli, madri e sorelle e il frequente abuso sessuale nei confronti delle ragazze e delle adolescenti.
Quanto alla risposta della società civile, ricordo che nel Paese ci sono varie associazioni molto attive. Assieme a queste, la Chiesa Metodista ha promosso campagne di informazione per la difesa e l’educazione delle donne e anche per la formazione della consapevolezza della parte maschile. In particolare nel KwaZulu Natal, con The Methodist Hiv/Aids community care project, diretto da reverendo Salomon Jacob, un amico fraterno con cui collaboro dall’epoca del massacro di Soweto del 1976. Naturalmente questa iniziativa, sostenuta anche da Desmond Tutu, è interreligiosa, aperta a tutti i gruppi della popolazione locale senza alcuna discriminazione.
Tra il 25 novembre e il 10 dicembre 2006 gli attivisti per la lotta alla violenza contro le donne hanno indetto una campagna nazionale di quindici giorni e l’iniziativa ha avuto vasta risonanza.  

Questa situazione non è in contrasto con l’alto numero di donne presenti e attive in tutti i settori pubblici e in modo particolare nella politica?

In effetti questa è ancora una grossa contraddizione, soprattutto se pensiamo che attualmente il vicepresidente della Repubblica del Sudafrica è una donna, Phumzile Mambo-Ngcuka, e altre donne reggono ministeri chiave. A Johannesburg le donne contano circa il 28,8% dei consiglieri; la vicesegretaria generale dell’African National Congress (ANC) è Sankie Mthembi-Mahanyele che, stando alle previsioni, alle prossime elezioni amministrative potrebbe diventare sindaco di Città del Capo, una delle più difficili al mondo da governare.

febe cavazzutti rossi apartheid
I partecipanti all’iniziativa del 30 maggio 1987 a Verona contro l’apartheid. © G.Sartori

C’è poi la questione dell’immigrazione clandestina.

Attualmente moltissimi immigrati si accalcano alle frontiere del Sudafrica, provenendo da tutte le regioni esposte alle guerre e alle carestie del continente. Sono persone in fuga dalle catastrofi naturali, dalla crisi economica, dall’instabilità politica. Secondo un calcolo di Human sciences research council of South Africa, i clandestini già presenti nel Paese sarebbero tra due milioni e mezzo e quattro milioni e mezzo.
Tra i politici sudafricani esistono opinioni diverse sulle risposte da dare. Una minoranza mette in evidenza gli effetti positivi per la crescita generale del Paese, anche se non esclude la possibilità di un impatto negativo sulla stabilità istituzionale. Ma la maggioranza giudica l’immigrazione come la piaga del XXI secolo, dagli effetti devastanti in quanto farebbe aumentare la spirale della violenza e del crimine. Inoltre produrrebbe un carico abnorme sul fragile sistema dei servizi sociali, avviato da poco e ancora deficitario.
Si teme poi che l’immigrazione contribuisca a innalzare ulteriormente il tasso già pesante della disoccupazione e alimentare una diffusa xenofobia.
Molti lavoratori sono convinti che i clandestini abbiano un effetto deprimente sul livello dei salari, dato che “sono disposti a tutto”, a qualsiasi paga e orario.
Inoltre, per paura, eviterebbero ogni rapporto con i sindacati e le lotte in difesa dei diritti. Alcuni sindacati hanno sottolineato come la clandestinità esponga questi lavoratori al peggiore sfruttamento, mettendo a repentaglio anche le loro vite. In certi casi i proprietari delle fattorie hanno assunto operai agricoli alla paga settimanale di 80 rand (7 euro e mezzo). Una volta terminato il lavoro, li hanno denunciati e fatti arrestare come clandestini. Anche uccidere un clandestino è facile, dato che è privo di documenti. Attualmente si concentrano soprattutto nelle piantagioni di canna da zucchero del KwaZulu Natal, nelle province del Nord e nel Mpumalanga.

In un suo articolo aveva scritto che non bisogna dimenticare il contesto in cui l’immigrazione clandestina si inserisce.

Attualmente il 34% della forza lavoro sudafricana è disoccupata e 18 milioni di cittadini sono ben al di sotto della soglia di povertà. Aggiungiamo il fatto che molti clandestini arrivano in grave stato di denutrizione e sono esposti a malattie endemiche come il colera, la febbre gialla, la tubercolosi e l’Aids. Questo grava enormemente sul servizio pubblico sanitario gratuito e sugli ospedali. L’impatto negativo ricade poi su tutti gli altri settori della vita pubblica: l’istruzione, l’alloggio e il sistema giudiziario. L’aumento dell’immigrazione ha esteso fuori da ogni controllo l’appropriazione abusiva del suolo pubblico (il fenomeno dello “squatting”) con il diffondersi delle baraccopoli prive di acqua e di servizi primari.
La maggioranza dei cittadini non approva che il Sudafrica diventi il rifugio di queste masse vaganti di profughi: il 25% vorrebbe la chiusura totale delle frontiere, mentre il 45% vorrebbe quote controllate di immigrazione. Soltanto il 17% sarebbe disponibile a leggi flessibili con quote a seconda della disponibilità di occupazione e meno del 6% è favorevole a una politica di libera immigrazione.

Recentemente sono state mosse critiche all’ANC, al potere ormai da tredici annni, per il permanere di forti disuguaglianze sociali e per le contestate misure della “discriminazione positiva”.

Io ritengo che chi critica tanto aspramente l’ANC forse non conosce la storia di questo Paese. Personalmente, anche se mi occupavo del Sudafrica da diversi anni, quando ho potuto visitarlo nei primi anni Ottanta mi resi conto di essere sbalestrata, di non capire. Eppure avevo visto documenti, filmati non ufficiali (girati e diffusi clandestinamente), conoscevo persone impegnate nella lotta contro l’apartheid, raccoglievo sistematicamente notizie. Mi confondevano cose apparentemente piccole che, fino a che non le toccavo con mano, sembravano assurde, incomprensibili.
Arrivata all’aeroporto, vidi che tutti quelli in divisa della polizia erano neri. Il regime si reggeva sui neri, dato che i bianchi erano poco più di quattro milioni. Mi avvicinai a un poliziotto per chiedere dove fosse l’uscita, ma non mi rispose. Semplicemente non poteva, perché ero bianca. In teoria lo sapevo, ma cascai ugualmente dalle nuvole.
Episodi del genere si ripeterono numerose volte. Per esempio in banca vidi che allo sportello c’era un nero. “Ma come? – mi dissi – Allora non  è vero che sono discriminati”. Poi però notai un piccolo particolare: l’impiegato era in piedi. Infatti la legge diceva che i neri potevano svolgere solo attività che non comportassero lo stare seduti! Ovviamente non avevano nemmeno la stessa paga di un impiegato bianco. Pensiamo poi alle migliaia di lavoratori che vivevano chiusi nei cosiddetti “ostelli”, controllati da una polizia interna privata e da quella esterna di Stato. Uscivano ogni due anni per due settimane, non retribuite, con un contratto che si rinnovava ogni volta.
Nelle aree agricole la mano d’opera era nera, ma senza diritti. Tutti lavoravano, anche le donne e i bambini, ma venivano pagati pochissimo. L’istruzione (prima e seconda elementare) veniva garantita solo se nella fattoria c’erano almeno 35 bambini. Avevano il diritto di abitare sui terreni del proprietario, ma spesso non avevano l’accesso all’acqua. Soltanto a quella dei pozzi per il bestiame, con ovvie conseguenze: malattie infettive, soprattutto tifo, alta mortalità infantile…
Nelle miniere parte dei geologi erano neri, ma veniva istruito, addestrato solo chi serviva; per tutti gli altri c’era l’analfabetismo. La scolarizzazione obbligatoria per i neri era ridotta alla prima e seconda elementare, e questo spiega la situazione attuale. Oggi gli studenti a cui provvedere sono più di trenta milioni e alcune regole (che potremmo anche definire “discriminatorie”) servono a garantire l’accesso all’istruzione e la presenza di lavoratori neri in ogni azienda.

In conclusione?

Potremmo concludere con una constatazione. La giovane Repubblica del Sudafrica, uscita dagli orrori dell’apartheid senza guerre fratricide e nata alla democrazia senza ricorrere alla violenza e alla vendetta, attualmente è in un mare di guai. Ha dimostrato tuttavia di possedere tali capacità di reazione e ancora tante energie positive che si può ben sperare e condividere la comune visione di quel popolo arcobaleno per un futuro migliore.

febe cavazzutti rossi apartheid
Benny Nato (ANC) a Vicenza per un incontro-dibattito sull’apartheid. © G.Sartori

3) La lotta contro l’Aids (luglio 2008)

In Sudafrica è arrivato l’inverno, il tempo più duro per i bambini, gli ammalati, i poveri.
Quest’anno, al freddo si sono aggiunte le alluvioni e la ripresa di conflitti xenofobi che hanno sconvolto la vita di migliaia di persone.
I recenti disordini (una “guerra tra poveri” da manuale) provenivano da quella parte della popolazione che sopravvive con meno di 30 euro al mese, e l’opposizione di questi poveri era rivolta contro i circa nove milioni di immigrati, in maggioranza clandestini, provenienti da altri Stati africani, oltre che dal Pakistan e dalla Cina. Si è diffusa rapidamente l’idea che gli immigrati siano portatori di malattie e che stiano “rubando” il lavoro ai locali. Migliaia di persone sono fuggite dalle baraccopoli cercando rifugio nelle chiese, nelle stazioni di polizia, nelle scuole.
La piccola scuola di Merryland Playcentre a Pietermaritzburg (KwaZulu, Natal) ospita 124 bambini fra tre e sei anni di tutte le etnie, prendendosi cura globale dei bisogni dei piccoli e delle loro famiglie, in maggioranza madri sole. Fondata trent’anni fa, “resiste come ha resisttito negli anni duri dell’apartheid”, spiega Febe Cavzzutti Rossi, pastora valdese, che sta seguendo anche un “progetto pilota metodista per la cura e lotta all’Aids”, sempre a Pietermaritzburg.
Le abbiamo chiesto qualche precisazione.
“Il nostro intento”, risponde, “è offrire cura materiale e spirituale, consapevolezza, educazione, consiglio, supportare e riabilitare gli ammalati, sostenere e istruire i familiari per lenire l’umana sofferenza nella malattia e nella morte”.
Il progetto si sta prendendo cura di 63 famiglie colpite dal morbo e da malattie secondarie dovute all’Aids, di 89 bambini orfani e di 13 bambini con Aids conclamato. Con le offerte ricevute, raccolte con iniziative ecumeniche, è stato possibile distribuire gratuitamente provviste, con particolare attenzione alla dieta degli ammalati. In base alla composizione familiare “vengono distribuiti mais bollito e fagioli, farina di maize, pesce, morite (una varietà di sorgo zuccherino), zucchero, latte in polvere, lenticchie e tè. Il cibo viene acquistato all’ingrosso e poi suddiviso, impacchettato e consegnato personalmente dai volontari” nelle townships e nelle baraccopoli sparse nel Kwa Zulu. Naturalmente vengono distribuiti anche medicinali e “ogni operazione, dall’acquisto alla distribuzione, viene seguita passo passo dal pastore dr. Sol Jacob che mantiene incontri regolari con gli operatori (le infermiere, altri assistenti alla persona, volontari delle Comunità nere…), pianificando insieme con loro gli interventi e la soluzione dei vari problemi”.

febe cavazzutti rossi apartheid
Beyers Naudé, ex segretario del SACC a Verona il 30 maggio 1987. © G.Sartori

Le condizioni di salute dei bambini e degli ammalati adulti sono monitorate mensilmente in modo da adeguare le cure e l’assistenza alle loro necessità.
“In particolare, ci siamo resi disponibili in ogni momento per dare assistenza in episodi acuti: la probabilità di entrare in fase terminale della malattia; crisi fisiche, psichiche e morali; perdita di controllo del proprio fisico e della mente; il lutto di famiglie ripetutamente falcidiate dalla morte degli adulti che erano il sostegno materiale e affettivo dei sopravvissuti, spesso vecchi e bambini. Questa è l’opera che ci impegna più a fondo e prende tutte le nostre energie” .
Quando la malattia avanza, gli operatori “prendono in cura tutta la persona (in genere donne e uomini rimasti soli); tagliano barba e capelli, lavano chi è allettato, aiutano a fare ancora un po’ di movimento, fanno il bucato e badano all’igiene del letto e della stanza. Al tempo stesso, addestrano sia i pazienti che i familiari a mantenersi  il più possibile autonomi, perché le loro giornate e la loro vita non perdano di senso”. Ovviamente il progetto “si rivolge a tutti indipendentemente dall’etnia, dal colore, dal genere e dalla fede professata dagli assistiti”.
In aprile 2008 si è tenuto un corso di istruzione e workshop per trentacinque giovani neri della vicina township che si sono offerti per collabirare al progetto. Il corso è stato tenuto “sia in inglese dal dr. Jacob che in lingua zulu dalla capo infermiera Dladla”.

4) Elezioni presidenziali vinte da un personaggio discutibile, Jacob Zuma (maggio 2009)

Il Sudafrica ha votato per la quarta volta, sedici anni dopo le prime libere elezioni. Circa 20 milioni di elettori, su una popolazione di 47, hanno atteso pazientemente in lunghe file. Molti osservatori hanno riconosciuto che gran parte del merito per il buon funzionamento della macchina elettorale spetta a Brigalia Ntombemhlophe, una predicatrice locale metodista che dirigeva la Indipendent electoral commission.
Come previsto ha vinto l’African National Congress (ANC), il partito di Nelson Mandela. Con il 66% dei suffragi, ha sfiorato i due terzi che gli avrebbero consentito di modificare unilateralmente la Costituzione. Non era invece scontata la decisa vittoria del candidato dell’ANC, Jacob Zuma.
“Il nuovo presidente”, spiega Febe Cavazzutti Rossi, profonda conoscitrice delle problematiche sudafricane, “è un populista capace di reggere le accuse di corruzione, riciclaggio di denaro sporco e stupro, per altro stranamente decadute, per un vizio di forma, poche settimane prima delle elezioni”.

Ma allora come è stata possibile la sua schiacciante vittoria?

Il personaggio è dotato di grande carisma, che nasce in primo luogo dalla sua storia: di umilissime origini, senza studi, a sedici anni era già un coraggioso militante dell’ala armata dell’ANC. Zuma è l’immagine dell’uomo fatto da sé, allegro, facondo, ottimista. Dice e disdice, si mescola alla gente facendosi paladino delle altrui istanze, quali che siano. Zuma sprizza decisionismo e accende simpatia, ma queste qualità non gli sarebbero bastate per la vittoria. Per questo è ricorso al suo scaltro fiuto politico.

Qual è stata la sua strategia elettorale?

Chi conosce il Sudafrica sa che, così come le Chiese sono state il laboratorio politico della liberazione, ancora oggi tutto passa attraverso le comunità religiose. Prima della campagna elettorale, Zuma ha visitato il Paese seminando lì dove ci sono i numeri: le Chiese africane autoctone, pentecostali e carismatiche, e le evangelicali a carattere letteralista, tanto che un gruppo di queste lo ha nominato pastore.
La cosa appariva discutibile a molti sudafricani, ma ha prodotto i suoi effetti. A Kempton Park, città a 11 chilometri da Johannesburg, ha riunito un gran numero di leader religiosi che gli hanno posto alcune esigenze etico-morali, alle quali ha risposto con un rassicurante patto di fedeltà.

Senza dimenticare il “colpo di teatro” finale, portare Mandela al suo comizio…

Infatti, in chiusura della campagna elettorale, ha portato davanti alla folla straripante il mitico padre della patria, Nelson Mandela. Debolissimo, vestito nei colori tradizionali dell’ANC, Mandela non ha pronunciato ma registrato il suo discorso, scarno nei contenuti, forte e appassionato nell’appello all’unità del suo popolo, cosa che in sommo grado gli sta a cuore. Non ha neppure sfiorato il nome di Jacob Zuma. E la folla è impazzita di ammirazione.

Le altre organizzazioni politiche non hanno sollevato critiche nei confronti di Zuma?

A levare la voce contro la figura morale di Zuma per porre un freno alla sua ascesa, ci hanno provato in tre: l’Alleanza Democratica (DA) in buona parte bianca, il Congress of the people (Cope) con il vescovo metodista Dandala, e l’Inkatha freedom party (IFP) di Buthelezi, conquistato alla democrazia dalla saggezza di Mandela.    

L’Inkatha era noto anche all’epoca dell’apartheid come una forza tendenzialmente collaborazionista. Le altre due organizzazioni invece sono meno conosciute. Ce ne può parlare?

Il DA è condotto dal 2007 da una notevole figura di donna, Helen Zille: 51 anni, discendente da emigranti tedeschi e da nonni ebrei, giornalista già attivista contro l’apartheid e sindaco della Grande Città del Capo. Zille ha portato la disoccupazione dal 20 al 17% e ridotto la criminalità del 90%, il Prodotto interno lordo è cresciuto e il debito pubblico diminuito. Ha guadagnato solo il 16% dei consensi nazionali, ma il 51% nella regione del Capo occidentale.
Il neonato Cope ha candidato un leader apprezzato per integrità morale e più volte onorato con premi per la pace, il vescovo Mvuve Dandala. Già presidente della Methodist Church of Southern Africa, Dandala si è rivolto alla classe media nera entro le Chiese storiche. Forse per un errore di calcolo si è ritagliato solo un dieci per cento. Attualmente queste Chiese soffrono il declino in numero di membri, ripiegate su sé stesse tendono a subire, più che affrontare, i gravi problemi sociopolitici del Paese.

Un suo giudizio finale sui risultati delle elezioni e sulle future prospettive politiche.

L’elezione a presidente di un personaggio come Zuma indigna e delude. Ma non deve sfuggire un aspetto fondamentale della realtà: quale poteva essere il frutto di cinquant’anni di regime, spesi al raggiungimento della violenta emarginazione del popolo nero, al furto dei suoi diritti umani e allo smembramento della sua cultura?
Consumato nel dolore il forte carattere paziente e solidale dei vecchi, come poteva configurarsi la nuova generazione nata e cresciuta senza istruzione nella violenza quotidiana?
Ma il popolo del Sudafrica, nei suoi colori con la dominante nera, nella sua radicata coscienza democratica, tiene in serbo una quantità di potenzialità. Vale la pena di guardare agli eventi giorno per giorno e sostenerlo con un’opinione pubblica criticamente attenta, ma partecipe e pronta alla generosità.

febe cavazzutti rossi apartheid
Padre David Maria Turoldo, tra gli organizzatori dell’evento di Verona (30 maggio 1987). © G.Sartori

 

N O T E

1) Il reverendo Sol Jacob, pastore emerito della Chiesa metodista e docente di Etica al Federal theological seminary, è stato presidente dell’associazione delle chiese metodiste. Ha partecipato alla lotta di liberazione dall’apartheid, è stato incarcerato e posto in isolamento. Sfidando il regime, nel 1977, nella regione del KwaZulu ha fondato una scuola materna interrazziale e interreligiosa che attualmente ospita circa 150 bambini. Nel 2008 ha avviato un progetto di lotta all’Hiv-Aids che si prende cura in particolare degli orfani. Dirige una catena di assistenza alla povertà estrema, con distribuzione di cibo, corsi di formazione e cura dei bambini di strada. Ha operato in campo ecumenico nel South African Council of Churches e presso l’ONU per la Commissione rifugiati e migranti.
2) Soprannominato “Quisling” in quanto collaborazionista, Buthelezi – lo ricordo per giovani e smemorati – veniva invitato a Rimini da Comunione e Liberazione e fu anche un riferimento per certa destra “tercerista” nostrana. Un po’ come avvenne per l’Angola con Savimbi (deceduto, o forse tolto di mezzo, nel 2002), leader dell’UNITA (União Nacional para a Independência Total de Angola). Tale organizzazione era sostenuta – guarda caso – da Pretoria e nei suoi ranghi si sarebbero integrati, negli anni settanta, alcuni noti neofascisti italici per contrastare il Movimento Popular de Libertação de Angola – Partido do Trabalho (MPLA).