Spesso, solamente a sentir pronunciare il nome di monsignor Marcel François Lefebvre (1905-1991), i più sprovveduti sobbalzano. Altri percepiscono la Fraternità Sacerdotale San Pio X, di cui egli fu il fondatore, come una frangia tradizionalista scismatica disobbediente al Romano Pontefice.
Una lettura troppo sbrigativa per un prelato che dimostrò nell’attività missionaria, come delegato della Santa Sede nell’Africa francofona, una grande capacità evangelizzatrice e fu molto amato nell’ambiente della Tradizione. Nel contesto in cui operò non si distinse per la mera opposizione a Roma, ma per la buona formazione di sacerdoti che nella fede aderirono, dai primi passi della Fraternità fino a oggi, al Magistero perenne.
Su questo sfondo, senza la pretesa dell’esaustività e illustrando le battaglie dottrinali in opposizione al modernismo, si metterà in luce quanto il fondatore e la Fraternità abbiano dovuto subire in difesa del cattolicesimo. Malgrado le autorità romane la definiscano canonicamente “in comunione imperfetta”, essa si sente a pieno titolo nell’alveo della Chiesa di Roma; per questo è interessante esaminare, seppur brevemente, come, nello “stato di necessità” (così la FSSPX afferma di esercitare l’apostolato) si siano svolte le fasi del confronto/scontro tra la FSSPX e Roma.

Prima fase: la fondazione e il Decretum laudis (1970-1974)

Rispettando la legge della Chiesa, la FSSPX venne fondata a Friburgo il 1° novembre 1970, ottenendo l’erezione canonica, l’approvazione degli statuti e l’autorizzazione per la costituzione del seminario di Ecône nella diocesi di Sion in Svizzera. In quell’occasione il vescovo di Losanna, Ginevra e Friburgo, monsignor François Charrière, disse: “Noi imploriamo le Benedizioni divine su questa Fraternità Sacerdotale affinché riesca nel suo principale intento che è la formazione di santi Sacerdoti”. Il cardinale John JosephWrigh, prefetto della Sacra Congregazione del Clero, il 18 febbraio 1971, a nome della Santa Sede inviò una lettera d’incoraggiamento e di apprezzamento alla nuova congregazione.

Seconda fase: le prime sanzioni a la FSSPX

L’opera della congregazione sembrava avviarsi sotto i migliori auspici ma, a causa dell’ostilità del clero “regolare” della vicina Francia, qualche nuvola minacciosa cominciò ad apparire all’orizzonte di Ecône. Il clero francese, nel timore di perdere fedeli a favore della Fraternità che iniziava a esercitare l’apostolato nei territori circostanti, denunciò alla diocesi il seminario che non celebrava la liturgia nel Novus Ordo Missae. In Svizzera il nuovo vescovo di Friburgo, Pierre Mamie, si oppose alla FSSPX, mentre quello di Sion, Nestor Adam – che aveva inizialmente accettato l’apertura del seminario della Fraternità nella diocesi – smise di sostenerla. Come un “venticello”, le delazioni giunsero a Roma e il 26 marzo 1974, dopo un incontro di alti prelati, si decise di fare un’ispezione a Ecône sotto la guida dei monsignori Albert Descamps e Guido Onclin. La visita durò tre giorni. Gli inviati indagarono su docenti e seminaristi, e quest’ultimi rimasero stupefatti dall’approccio poco amichevole dei visitatori. Monsignor Descamps si disse “edificato” (bontà sua) dalla generosità dei seminaristi, ma al contrario considerò i docenti del seminario poco qualificati. Non solo: fu intimato al fondatore della FSSPX di spiegare chiaramente ed esplicitamente la sua adesione alle direttive del Concilio Vaticano II.
Lefevbre si era risentito per l’ispezione e per lui i “magnificentissimi” prelati non rappresentavano altro che il timore di Roma verso i primi consensi positivi alla pastorale della Fraternità, a Ecône e dintorni.
L’istruttoria aveva determinato accuse dottrinali, come il caso dianzi citato della Messa, ma esse non erano state ufficialmente notificate alla Fraternità; non ci fu mai un verbale dell’evento né esistevano registrazioni dei colloqui: niente! Lefevbre anticipò ogni eventuale azione di Roma con la Dichiarazione del 21 novembre 1974: il manifesto del programma dottrinale della FSSPX che lesse alla sua comunità il 2 dicembre e che riportiamo qui in parte:

Noi aderiamo con tutto il cuore e con tutta l’anima alla Roma cattolica custode della fede cattolica e delle tradizioni necessarie al mantenimento della stessa fede, alla Roma eterna, maestra di saggezza e di verità. Noi rifiutiamo, invece, e abbiamo sempre rifiutato di seguire la Roma neo-modernista e neo-protestante che si è manifestata nel Vaticano II e nel post Concilio, in tutte le riforme che ne sono scaturite.
Tutte queste riforme, in effetti, hanno contribuito e contribuiscono ancora alla demolizione della Chiesa, alla rovina del Sacerdozio, all’annientamento del Sacrificio e dei Sacramenti, alla scomparsa della vita religiosa, a un insegnamento neutralista e teilhardiano nelle università, nei seminari, nella catechesi, insegnamento uscito dal liberalismo e dal protestantesimo più volte condannati dal magistero solenne della Chiesa.

Parole usate d’ora in poi dagli oppositori per condannare le sue tesi. Infatti, il 6 maggio 1975 monsignor Mamie, succeduto a monsignor Charrière nella diocesi di Friburgo, notificò a Lefebvre, “non senza una profonda tristezza” e con il placet del papa, la formale soppressione della FSSPX. Lefebvre non ruppe i rapporti con la Santa Sede e andò a Roma nei primi mesi 1975 a incontrare i capi delle Congregazioni dei Seminari, del Clero e dei Religiosi: una “commissione d’accusa” organizzata contro di lui. Egli difese l’operato della Fraternità e, sulla base di giuste ragioni canoniche, disse che questa non poteva essere soppressa che dalla Santa Sede. Ricorse (senza successo) presso il Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica: gli fu risposto che la soppressione era il risultato dell’inchiesta.
L’uomo di Dio, granitico nelle sue certezze, giudicò nulla la soppressione della Fraternità malgrado i moniti di Paolo VI il quale, a più riprese, gli scrisse varie missive per farlo capitolare. In esse avrebbe voluto fargli intendere che il Vaticano II, per certi versi, sarebbe stato più importante di quello di Nicea I del 325, dove venne formulata la dottrina autentica della Chiesa. La boutade non riuscì a convincere il prelato, che aveva il senso della misura.
Un’altra offensiva romana arriverà nel 1976: fu notificato all’arcivescovo di interrompere l’opera di Ecône e di accettare il Concilio Vaticano II. Il 25 giugno dello stesso anno, monsignor Giovanni Benelli della Segreteria di Stato intimò a Lefevbre, come da mandato papale, di non procedere alle ordinazioni programmate per il 29 giugno. Monsignore non s’intimorì, procedendo come annunciato alle tredici ordinazioni sacerdotali. Durante la Santa Messa egli dirà che “il nuovo rito esprime una nuova fede, una fede che non è la nostra, una fede che non è la Fede Cattolica”, in pratica “è la nozione della messa protestante introdotta nella Santa Chiesa”.
Puntualmente, il 22 luglio gli venne notificata la sospensione a divinis, un’interdizione che avrebbe dovuto privarlo degli esercizi sacramentali. Per tutta risposta, il 29 agosto, il prelato celebrò la Santa Messa a Lille in Francia dinanzi a settemila fedeli. Poi, il 22 agosto, festa del Cuore Immacolato di Maria, citando la lettera con la quale Benelli gli chiedeva un atto di sottomissione, rispose: “Noi siamo con duemila anni di Chiesa e non con dodici anni di una nuova chiesa, una ‘chiesa conciliare’”.
Se nei Sacri Palazzi si scatenò l’ira, in Lefevbre non c’era la volontà di rompere con la Santa Sede né di porsi in urto con il papa: nel settembre dello stesso anno, quando riuscì a incontrarlo a Castel Gandolfo, gli disse: “Rinnovo di tutto cuore la mia devozione verso il Successore di Pietro, Maestro di verità per tutta la Chiesa, columna firmamentum veritatis”. Pregò quindi il pontefice di lasciargli fare l’esperienza della Tradizione mettendo alla prova la mentalità “liberale” di Paolo VI, ma non ottenne alcun risultato. Quest’ultimo – replicando al filosofo e amico Jean Guitton, che gli consigliava di autorizzare il monsignore all’uso del Messale di san Pio V – disse: “Se venisse accolta questa deroga, il Concilio intero ne sarebbe intaccato e così la sua autorità apostolica”. Ciò avrebbe avallato Lefevbre, il quale aveva proclamato a più riprese lo stretto legame tra lex orandi e lex credendi.
Marcel Lefebvre dovette attendere due anni prima di rimettere piede nei Sacri Palazzi. Il 18 novembre 1978 venne ricevuto in udienza dal neoeletto Giovanni Paolo II, sul quale ripose una iniziale speranza (Wojtyla si era espresso a favore del Concilio alla luce di tutta la Santa Tradizione) che in seguito, fino alle estreme e irreversibili conseguenze, si trasformerà in ripulsa. Come se non bastasse, a complicare le cose l’allora prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, Franjo Šeper, allarmò così il papa polacco: “Attenzione, Santo Padre, di questa Messa ne faranno una bandiera”. Il pontefice darà consegna a questo prelato croato (vicino ad ambienti massonici) di regolare la “faccenda” nei confronti di Lefevbre. Risultato: il monsignore venne sottoposto a un nuovo processo davanti all’ex Sant’Uffizio nel gennaio 1979, durante il quale chiese uno statuto giuridico ufficiale, un riconoscimento canonico per continuare senza persecuzioni la sua opera; tutto ciò, naturalmente, gli venne negato.
Gli anni passavano e l’arcivescovo invecchiava con una afflizione: la Fraternità, che era fiorita rigogliosamente nel mondo, come avrebbe potuto continuare il proprio percorso dopo la sua morte? Ma non dobbiamo pensare che si limitasse a preoccuparsi del suo gregge nato da Ecône: la sua angoscia riguardava il futuro dell’intero cattolicesimo.
Il papa polacco su certi argomenti sembrava muoversi nel solco della Tradizione – pensiamo al suo anticomunismo o alla difesa della vita fin dal concepimento – mentre altre volte partiva per la tangente modernista. Qualche esempio: mise mano al diritto canonico alterandolo, chiese unilateralmente scusa per le colpe della Chiesa (in duemila anni non poteva esserne indenne), favorì l’incontro interreligioso di Assisi del 1986.
Monsignor Lefevbre non vide che una soluzione: assicurarsi una successione nell’episcopato per continuare a ordinare sacerdoti secondo la Tradizione. Nella primavera del 1988, venne messa a punto una bozza dal cardinale Joseph Ratzinger, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, per il riconoscimento canonico della FSSPX da parte della Santa Sede. Il protocollo d’intesa prevedeva la piena riconciliazione con il Vaticano e la concessione di un vescovo per la congregazione, ma non si menzionava una data certa. Tutto pareva dunque risolversi per il meglio, e il 5 maggio 1988 al priorato laziale di Albano ebbe luogo la firma del protocollo d’intesa con la Santa Sede.

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“Considero monsignor Lefebvre un esemplare Confessore della Fede e penso sia ormai evidente quanto la sua denuncia del Concilio e dell’apostasia modernista sia fondata e quanto mai attuale”. Monsignor Carlo Maria Viganò.

Terza fase: la rottura e le scomuniche

Purtroppo l’ipotesi di una data per la consacrazione di un vescovo (che non si sapeva ancora da chi dovesse essere scelto) veniva continuamente differita da Roma. Allarmato, Lefevbre inviò una richiesta perentoria a Ratzinger affinché si prendesse una decisione. L’allora prefetto dell’ex Sant’Uffizio rispose che ci sarebbe voluto ancora del tempo. L’ennesimo vago differimento si tradusse una volta di più nella rottura delle trattative. L’arcivescovo ruppe gli argini dell’attesa e annunciò: “Provvederemo noi stessi alle consacrazioni episcopali [usando un significativo plurale] il 30 giugno 1988”.
Fu il capolavoro di monsignor Lefevbre. Roma subodorò che più vescovi gli avrebbero assicurato la successione dopo la sua morte e si accorse troppo tardi di aver fallato canonicamente. Gli stessi teologi che credevano allo scisma dovettero ammettere che, con le consacrazioni episcopali, preti e vescovi della FSSPX avrebbero smesso di essere illecitamente ordinati. I vescovi della FSSPX avrebbero ordinato validamente sacerdoti e altri vescovi: in virtù della successione apostolica, le ordinazioni compiute da vescovi scomunicatisarebbero state valide anche se non ritenute legittime.
Fu inviato dalla Nunziatura di Berna un legato affinché facesse recedere Lefebvre dal proposito, ma egli non cedette. Il giorno dopo, centinaia di sacerdoti e migliaia di fedeli si presentarono sul famoso prato di Ecône.
Furono così ordinati quattro vescovi: Bernard Fellay, Bernard Tissier de Mallerais, Alfonso de Galarreta e RichardWilliamson (espulso il 4 ottobre 2012 dalla Fraternità per questioni disciplinari). Il giorno successivo, l’ufficio stampa della Santa Sede dichiarò che Lefebvre e i quattro erano incorsi nella scomunica latae sententiae prevista dal Codice di Diritto Canonico del 1917. La Fraternità rigetterà le scomuniche e le sanzioni in base al canone 2205, §2, 1) in quanto “agì in stato di grave necessità. per timore grave, anche solo relativamente tale”. Nel caso di specie, lo stato di necessità è a salvaguardia del sacerdozio cattolico in favore delle anime la cui salvezza è la legge suprema, così come è suprema la difesa del Regno sociale di Nostro Signore Gesù Cristo nella società. Non trattandosi di materia di Fede, ma di canoni ecclesiastici, potrà rimuoversi l’imputazione di qualsiasi delitto e il nuovo Codice di Diritto del 1983 confermerà la stessa formula al canone 1323, § 4.
Il 2 luglio 1988, Giovanni Paolo II istituì la commissione pontificia Ecclesia Dei (soppressa nel 2019 da Bergoglio) allo scopo di riunire sacerdoti e fedeli che volessero mantenere le antiche liturgie restando “in comunione” con la Santa Sede. Forse, come diceva un famoso politico “a pensar male si fa peccato, ma a volte ci si azzecca”: la commissione fu probabilmente creata allo scopo di aggirare la Fraternità e di isolare il suo fondatore. Poi, scese il silenzio tra la FSSPX e la Santa Sede. Il vescovo definito “scismatico” da Roma morì il 25 marzo 1991, mentre la sua congregazione continuò la gemmazione in tutto il mondo; prima guidata da padre Franz Schmitberger e successivamente da monsignor Bernard Fellay. I rapporti tra le due parti s’interruppero fino all’Anno Santo del 2000.

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I quattro vescovi della Fraternità.

La ripresa dei colloqui e le proposte canoniche

Con l’avvento del Giubileo, la Fraternità ottenne di poter pregare con i fedeli di tutto il mondo nella Basilica di San Pietro; fu l’occasione di dimostrare l’attaccamento della congregazione e del mondo tradizionalista alla sede di Pietro, voluta dal fondatore. A guidare il pellegrinaggio a Roma fu monsignor Fellay, superiore generale dal 1994. Fu la giusta circostanza per ricucire gli scambi diplomatici con la Santa Sede, rappresentata dal cardinale Castrillon Hoyos, presidente della Pontificia Commissione Ecclesia Dei.
Nell’agosto 2005, Ratzinger, che a suo tempo aveva dovuto affiancare Giovanni Paolo II nel comminare la scomunica a Lefebvre, divenuto Papa, incontrò monsignor Fellay e auspicò che “si chiudesse la ferita aperta con i lefebvriani”. Benedetto XVI, il 7 luglio 2007, nel Motu proprio Summorum Pontificum autorizzò la celebrazione della Messa di Pio V nella “forma straordinaria”, rispetto a quella ordinaria (il Novus ordo Missae)secondo il Messale Romano di Giovanni XXIII del 1962. Ancor oggi, in àmbito tradizionale ci si chiede se fu un atto misericordioso o una forma di normalizzazione.
Intanto il riavvicinamento e l’interlocuzione tra le parti ripartivano dopo anni. Il 21 gennaio 2009, una lettera del prefetto della Congregazione dei Vescovi rimetteva le scomuniche ai quattro vescovi della Fraternità, facendone cessare gli effetti giuridici, auspicando “la realizzazione della piena comunione con la Chiesa di tutta la Fraternità San Pio X”. Bisogna però fare attenzione a esprimere piena soddisfazione, poiché la questione è molto più complessa. La remissione delle condanne riguarderà i vescovi consacrati ma non i loro consacratori. Monsignor Lefevbre e monsignor De Castro Mayer erano dunque morti scomunicati, ma senza aver mai negato alcuna verità di Fede rivelata. A nostro avviso hanno potuto confidare nella misericordia di Dio, il Giudice Supremo.
I colloqui tra le parti ripresero: per la FSSPX partecipò monsignor Alfonsode Galarreta, i padri de Jorna, Gleize, e De La Roque; per Roma, monsignor Guido Pozzo, i padri Charles Morerod, Ocariz e Becker. Durarono due anni, alla fine dei quali la questione dottrinale si risolse in un assoluto nulla di fatto a causa delle posizioni inconciliabili. Se sulla dottrina tutto si arenò, i colloqui continuarono sulle bozze per il riconoscimento canonico della Fraternità Sacerdotale San Pio X. Alla fine del 2012 si arrivò a un passo da tale riconoscimento. Il testo sembrava mettere d’accordo tutti, ma il papa teologo bloccò l’accordo sulla questione della “libertà religiosa”, necessaria per l’accettazione del Vaticano II nella sua “interezza”. Necessità o pretesto, fatto sta che la richiesta non poteva essere che irricevibile per la FSSPX e andò tutto a monte.
Nel 2013, nelle circostanze che sappiamo, fu eletto Bergoglio, evento che sembrava dovesse vanificare ogni prospettiva di riconoscimento canonico. Al contrario, il nuovo papa non interruppe i rapporti con la FSSPX e ne incontrò i superiori per proseguire i colloqui con la commissione Ecclesia Dei. Due grandi eventi sembrarono andare verso un riconoscimento canonico: nel 2015, durante il Giubileo della Misericordia, il papa concesse ai preti della FSSPX la possibilità di assolvere validamente e lecitamente i fedeli; il secondo fu la concessione della delega da parte delle diocesi alla celebrazione dei matrimoni, anche se la Fraternità in ragione dello “stato di necessità” questo sacramento lo amministrava già da anni.
Nella primavera del 2017, quando le proposte di un riconoscimento stavano accumulandosi sui rispettivi tavoli, intervenne il cardinale GerhardMüller, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede. Una sua lettera inviata a monsignor Fellay conteneva la seguente diffida: la FSSPX avrebbe dovuto riconoscere la legittimità del Novus Ordo Missae e tutti gli insegnamenti del Vaticano II, altrimenti ogni tipo di riconoscimento canonico sarebbe stato definitivamente escluso. La voce di Müller era in qualche modo la voce stessa del papa: o il Concilio Vaticano II o niente.

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Don Davide Pagliarani, riminese, è dal 2018 superiore generale della FSSPX.

Lo status quo

Il 22 novembre 2019 don Davide Pagliarani, Superiore della Fraternità San Pio X, si recò a Roma su invito del cardinal Luis Ladaria Ferrer, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede. Durante l’incontro con le gerarchie vaticane si ribadì che la questione di fondo restava dottrinale, non eludibile né dalla FSSPX né da Roma. Don Pagliarani ultimamente ha concesso un’intervista al sito cattolico della tradizione “Corsia dei Servi”, dicendo cose importanti sulle figure degli ultimi pontefici:

Con Giovanni Paolo II, per esempio, nonostante tutto quello che possiamo deplorare, certi punti della dottrina cattolica restavano intoccabili. Con Benedetto XVI, si aveva ancora a che fare con uno spirito legato alle radici della Chiesa. Il suo considerevole sforzo per realizzare la quadratura del cerchio, benché votato al fallimento, conciliando la Tradizione con l’insegnamento conciliare, rivelava comunque una preoccupazione di fedeltà alla Tradizione. Con Francesco, una tale preoccupazione non esiste più. Il pontificato che viviamo è una svolta storica per la Chiesa: dei bastioni che ancora sussistevano sono stati demoliti per sempre, umanamente parlando; e in parallelo, la Chiesa ha ridefinito, rivoluzionandola, la sua missione nei confronti delle anime e del mondo.

Se la congregazione (che nel 2020 ha celebrato il 50°anniversario della fondazione) verrà convocata a Roma, vi andrà per testimoniare la Fede, conscia della sua missione e a costo di subire sanzioni canoniche e l’apparente isolamento nel quadro ecclesiale.

 
N O T E

1) Il canone 2205 del vecchio Diritto Canonico recita: “La violenza fisica assoluta esclude il delitto. Il timore grave anche relativo, la necessità, il grave incomodo tolgono per lo più il delitto nelle leggi puramente ecclesiastiche; però se l’atto è intrinsecamente cattivo o ridonda in disprezzo della fede, dell’autorità ecclesiastica o in danno delle anime, le cause suddette diminuiscono, ma non tolgono l’imputabilità. La legittima difesa contro l’ingiusto aggressore, se moderata, toglie il delitto; se no, lo diminuisce come nella provocazione”.