Nonostante cinque giorni – e soprattutto cinque notti – di scontri e almeno tre vittime, il 17 maggio le autorità locali mostravano sicurezza parlando di “una situazione più tranquilla”. Ma dovendo escludere almeno tre quartieri “fuori controllo” di Nouméa (Kaméré, Montravel e la Vallée du Tigre), dove fino a quel momento le forze di polizia, forse in attesa di nuovi rinforzi, non erano ancora entrate.
Già mercoledì il governo aveva annunciato l’invio di un primo migliaio di membri delle forze dell’ordine, in aggiunta ai circa 1700 sul posto.
Al momento i blindati pattugliano le “zone calde” sia per consentire la ripresa del traffico veicolare, sia per evitare scontri tra gli indipendentisti e i “gruppi di autodifesa” della destra locale filo-francese. Le proteste proseguono “a macchia di leopardo”, così come saccheggi, vandalismi e incendi.
Nel frattempo rimangono in vigore i divieti per le riunioni, il trasporto di armi e la vendita di alcol. Così come il coprifuoco, dalle 18 alle 6 del mattino). Situazione comunque non risolta, preoccupante, se già si parla di “penuria di scorte alimentari”.
Si parva licet, alcune centinaia di turisti sono rimasti bloccati tra Nouméa e alcune isole. Anche perché all’aeroporto di Noumea-La Tontouta, sotto il controllo dei soldati, sono stati sospesi tutti i voli commerciali almeno fino alla prossima settimana.

Turchici in trasferta

Hanno suscitato un certo scalpore le accuse esplicite di “ingerenza” nei confronti dell’Azerbaijan formulate dal ministro dell’Interno francese, Gérald Darmanin. Ovviamente vien da chiedersi quali siano gli interessi di Baku per un arcipelago a circa 14mila chilometri di distanza. Forse, azzardo, una ritorsione per il sostegno (peraltro blando assai) all’Armenia?
In realtà l’accusa di Darmanin in un successivo intervento (Télématin, France 2) appariva più circostanziata: “Regimi autoritari come la Russia, l’Azerbaijan e anche la Cina approfittano della minima debolezza nelle nostre società per esasperare il dibattito e per creare caos”. Esprimendo comunque “rammarico per il fatto che gli indipendentisti si siano accordati con l’Azerbaijan”.
Dello stesso avviso Raphaël Glucksmann, figlio di André Glucksmann (con Bernard-Henri Lévy uno dei più noti tra i nouveaux philosophes) e candidato PS/Place Publique alle elezioni del 9 giugno. Per l’eurodeputato (che ha presieduto una commissione del parlamento europeo sulle ingerenze straniere) tali infiltrazioni di Baku sarebbero attive “già da diversi mesi” allo scopo di “approfittare dei problemi interni per spargere sale sulle ferite e rendere ancor più tesa la situazione”.
La causa scatenante (ma sotto la cenere ardevano da tempo le faville) è stata sicuramente la contestata riforma elettorale con cui Parigi il 2 aprile ha approvato un disegno di legge che concede la possibilità di votare alle elezioni provinciali (2025) ai francesi residenti nell’arcipelago da 10 anni. Ufficialmente per “scongelare le liste elettorale bloccati dagli Accordi di Nouméa del 1998”, ma in realtà per indebolire ulteriormente il peso politico della popolazione autoctona, già socialmente marginalizzata.
Da segnalare che al fianco degli autonomisti e indipendentisti stavolta si sono schierati anche molti prelati ed esponenti religiosi. In un comunicato della conferenza episcopale del Pacifico, diffusa dal segretario generale James Shri Bhagwan, si commenta l’attuale ribellione definendola “una manifestazione della frustrazione di una comunità che ha visto costantemente minati i propri diritti indigeni e politici”.

Chiesa pro autonomisti

Per cui “la conferenza delle Chiese del Pacifico è profondamente solidale con le nostre sorelle e i nostri fratelli di Kanak in questo momento di crisi politica che ha portato all’esplosione della violenza negli ultimi giorni”. Arrivando ad accusare il governo francese di “stringere più forte sulla gola del popolo kanak, il quale continua a gridare dal profondo del cuore per ottenere la propria storia di libertà, equità e fraternità”, e paventando addirittura il “rischio concreto di una guerra civile”.
Pur dotato di un suo governo autonomo (almeno formalmente), questo “territorio d’oltremare” non ha mai cessato di rivendicare il diritto all’autodeterminazione, in particolare da parte del fronte di liberazione nazionale kanak. Tuttavia in ben tre occasioni (2018, 2020 e 2022) i referendum per l’indipendenza sono stati vinti dal NO. Nel 2022 i gruppi indipendentisti avevano chiesto – invano, ça va sans dire – che la consultazione venisse rinviata per consentire alle famiglie kanak e caledoniane, pesantemente colpite dal Covid-19, di elaborare il lutto. Al rifiuto della Francia, gli indigeni risposero con il boicottaggio “per non collaborare con il complotto del colonialismo francese”. Un riferimento alla decisione di decretare la rinuncia definitiva all’indipendenza nel caso di tre referendum successivi con la vittoria del NO.