Dodici anni non sono pochi. Soprattutto se sono quelli trascorsi dalla scomparsa, dal sequestro di tuo padre, che da allora non hai più rivisto e di cui non conosci la sorte.
È successo a Sammi Deen, una giovane donna di 23 anni che vive con la madre, i fratelli e le sorelle a Mashkai, nel Belucistan sottoposto all’amministrazione pachistana. Aveva solo undici anni quando il padre, Deen Mohammad, venne rapito da alcuni uomini armati e da allora non ha mai smesso di chiedere, indagare su quanto è avvenuto.
Sequestri, rapimenti e sparizioni in Pakistan sono ordinaria amministrazione, soprattutto nei riguardi delle minoranze. Ma Sammi non si è mai rassegnata e insieme alla sorella prosegue nelle sue azioni dimostrative avviate fin dall’infanzia. Da qualche tempo i loro sforzi si concentrano sul tentativo di far conoscere anche fuori dai confini pachistani le violazioni dei diritti umani che affliggono il Paese. Per raggiungere e scuotere l’opinione pubblica internazionale, per lo più indifferente in merito alle persecuzioni, alle ingiustizie subite dai beluci.
I giornalisti incontrano molte difficoltà per entrare in Belucistan e soprattutto, spiega la giovane, “ai media è proibito occuparsi delle sparizioni forzate”. Infatti, “allorché un reporter si occupa delle sparizioni forzate, a sua volta rischia di essere minacciato, sequestrato, talvolta ucciso”. Del resto anche le due sorelle ricevono costantemente minacce di morte.
In una recente intervista Sammi ha raccontato che suo padre, medico in un ospedale di Ornach, qualche giorno prima di essere rapito aveva preso appuntamento con un ospedale di Quetta per una delicata operazione a cui lei doveva sottoporsi. Nel giorno stabilito, ricorda, “eravamo andati tutti a Quetta, ma mio padre venne chiamato dall’ospedale di Ornach per un’emergenza”. Rimase appena il tempo necessario per attendere che lei, la figlia operata, si risvegliasse dall’anestesia, “scusandosi in quanto doveva rientrare a Ornach (un viaggio di circa sei ore), ma rassicurandomi che sarebbe tornato di sicuro entro due giorni”.
Da Ornach aveva anche fatto in tempo a chiamarla; ma poi, il 29 giugno 2009, alle cinque del mattino arrivò una telefonata da parte di Peon Ramzan, un altro medico beluci di Ornach che li informava dell’avvenuto sequestro. Opera di “persone pesantemente armate che erano entrate nell’ospedale verso le 23,30 e, dopo aver torturato mio padre, lo avevano costretto a salire su un veicolo portandolo via”. Da quel momento, racconta, “io ho cominciato a lottare per ritrovare mio padre”.

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Sammi Deen con la foto del padre. Il dottor Deen Mohammad era un esponente del BNM, il movimento nazionale beluci.

Tentativi inutili

Le sorelle si erano recate immediatamente al posto di polizia presentando una denuncia per la sparizione e deponendo una richiesta presso l’Alta Corte del Belucistan. Non avendo ottenuto risposta, avevano “inoltrato la richiesta alla Corte Suprema del Pakistan, ma ancora senza risultati”.
Continua Sammi: “Nel 2011 abbiamo deposto una domanda presso la commissione delle sparizioni forzate istituita dal parlamento pachistano”, ricavandone varie promesse – regolarmente non mantenute – di ulteriori indagini. Per sollecitare una risposta, e per impedire che su tali vicende calasse il silenzio, le due giovani hanno intrapreso alcuni scioperi della fame e sottoposto il caso alle Nazioni Unite e ad Amnesty International.
Inoltre entrambe hanno partecipato alla marcia di oltre tremila chilometri organizzata insieme ad altri familiari dei desaparecidos: da Quetta a Karachi e poi a Islamabad, le principali città dove si sono concentrate le indagini.
Sempre insieme alla sorella, la giovane porta sempre con sé alcune fotografie del padre alla ricerca di qualcuno che lo abbia visto e possa identificarlo. Nonostante il costante dolore causato dall’incertezza, il filo per quanto tenue della speranza non si è mai spezzato. Per esempio, qualche anno fa alcuni prigionieri vennero rimessi in libertà e qualcuno tra loro avrebbe riconosciuto nelle foto il medico sequestrato, raccontando di averlo visto in prigione, nelle celle adibite alla tortura.
Nel marzo del 2021 avevano anche incontrato, insieme ad altre tre famiglie di desaparecidos, il primo ministro Imran Khan cui avevano consegnato un dossier completo sulle sparizioni forzate. L’uomo politico aveva dato assicurazione che avrebbe fatto quanto era in suo potere per liberare i beluci imprigionati e per scoprire quale fosse stata la sorte delle persone scomparse. Ma, almeno finora, non si son visti progressi.
“Tutta la mia vita e quella dei miei familiari”, spiega Sammi, “è consacrata a cercare qualche traccia di nostro padre, a conoscere la sua sorte”. Per questo “abbiamo bussato a tutte le porte, usato tutti i mezzi legali, ci siamo rivolte a tutte le organizzazioni in difesa dei diritti umani, agli esponenti politici, ai rappresentanti dei governi…”.
In conclusione, la giovane sostiene che quello subìto dai beluci in Pakistan (un Paese dominato dai militari, così simile alla Turchia) si configura come potenziale genocidio. Aggiungendo che chi osa parlarne rischia – esattamente come chi critica la politica dello Stato pachistano – di essere rapito illegalmente e senza processo. Ben sapendo che “la maggior parte delle persone rapite vengono ammazzate”.