L’invasione russa dell’Ucraina ha posto al centro dell’attenzione mondiale la “questione slava”. Si sono rispolverati antichi scenari legati all’ideologia panslavista; anche se, come accade in ogni guerra, al di là delle parole, le ideologie poste a giustificazione dei fatti coprono sempre gli interessi, ben più concreti, di matrice economica e strategica che, nel caso in questione, possono sintetizzarsi soprattutto in tre punti:

  • le riserve d’acqua del fiume Dnepr, basilari per la Crimea annessa nel 2014 da Putin dopo averla strappata alla stessa Ucraina, che per ritorsione ne ha deviato il corso;
  • la produzione elettrica della centrale atomica di Zaporižžja, una delle più grandi di tutta l’Europa, che fa gola a una Russia che basa la sua sete di energia su centrali molto più antiquate;
  • i preziosi minerali che si estraggono dal sottosuolo del Donbass, non a caso il territorio conteso fra i due Paesi a causa dei suoi siti minerari, che includono manganese, ferro, titanio, uranio, caolino, grafite, carbone, petrolio e gas naturale; oltre a molte delle cosiddette “terre rare”, indispensabili per la fabbricazione di tutti i prodotti tecnologici all’avanguardia, dai computer agli schermi televisivi ai missili e ai sistemi di puntamento militari.

Alcuni continuano a non comprendere come sia possibile che un popolo slavo aggredisca un altro popolo slavo; non è un caso se anche papa Bergoglio è ricorso all’esempio di Caino che alza la mano sul fratello Abele. In realtà – come affermava il più insigne archeologo e antropologo russo, Leo Klejn, scomparso nel 2019 – se una volta gli slavi erano un’etnia, da molti secoli sono solo una “famiglia linguistica”.
Che Klejn avesse ragione lo dimostra il fatto che quando, con la caduta del muro di Berlino, iniziò la dissoluzione di quell’unità slava costruita dall’impero sovietico e dall’ideologia comunista un po’ dappertutto con la forza, tutto quel carico ideologico svanì ben presto e iniziarono i vari conflitti che hanno interessato negli ultimi decenni tante nazioni slave scontratesi militarmente fra loro (con la sola eccezione della Repubblica Ceca e di quella Slovacca che riuscirono a separarsi pacificamente alla fine del 1992). Si pensi ai conflitti che hanno più volte interessato varie repubbliche dell’ex URSS ormai al di fuori della Federazione Russa; si pensi alle guerre jugoslave combattute dopo la morte di Tito fra serbi, croati e bosniaci, oltre alla tensione ancora esistente fra serbi e kosovari. E adesso ecco l’invasione russa dell’Ucraina, dopo il conflitto a bassa intensità nell’est del Paese che si trascina da anni, nonostante i russi abbiano nella loro retorica sempre considerato gli ucraini un “popolo fratello”.

Essere slavi

Se dunque la storia ci ha insegnato qualcosa, e se cercare l’unità slava nella lingua, nella cultura o nelle caratteristiche somatiche delle persone può portarci fuori strada, sarebbe più corretto chiedersi cosa significhi oggi essere uno slavo. Secondo lo storico Oleg Egorov, la domanda è complicata poiché questo concetto raggruppa varie etnie per un totale di trecento, trecentocinquanta milioni di persone che vivono dai confini tedeschi alle desolate steppe siberiane, raggiungendo a sud perfino Trieste. Non a caso, la prima grande distinzione da operare quando ci si voglia avvicinare alla cultura (o meglio alle culture) dei popoli slavi, riguarda i tre grandi ceppi etno-linguistici in cui si divise la gente slava nel suo stabilirsi nell’Europa a partire dal I millennio a.C.

slavi guerra russia ucrainaEcco così gli slavi dell’ovest (polacchi, cechi, moravi, slovacchi, sorabi, casciubi); quelli dell’est (russi, bielorussi, ucraini, ruteni); e quelli del sud, o “jugoslavi” (sloveni, croati, bosniaci, serbi, macedoni e bulgari). A questi tre gruppi corrispondono anche le principali differenze culturali e identitarie degli slavi, moltiplicatesi negli ultimi secoli.
Tornando all’attuale conflitto russo-ucraino, la storia evidenzia che di conflitti interni fra “popoli fratelli” il mondo slavo è stato pieno in realtà da secoli. Ed è un timore assai antico, quello che periodicamente riaffiora nei russi, di essere circondati da nemici pronti a invaderne il territorio. Proprio questo, d’altronde, è stato l’elemento fondamentale che, dopo l’innamoramento per l’occidente da parte di Pietro il Grande, ha spesso alimentato la strategia politica internazionale degli zar. Un atteggiamento riemerso ancor più violento nella propaganda militare russa nel corso delle due guerre mondiali; ed è stato l’atteggiamento tenuto anche da Stalin, dapprima nell’opporsi al nazismo, e subito dopo all’occidente europeo finito sotto l’ombrello di difesa americano. Ma questo continua a essere, anche dopo la caduta del comunismo, l’atteggiamento del potere politico di Mosca, grazie alla stretta alleanza del nuovo zar del Kremlino con il patriarca russo Kirill e con l’esercito: quell’armata rossa (come ancora è chiamata) verso la quale ogni presidente dell’Unione Sovietica prima e della Federazione Russa poi ha sempre dovuto concedere meritate (o immeritate) prebende, dato che, come scriveva la giornalista Anna Politkovskaja nel libro La Russia di Putin 1) poco prima di essere assassinata, l’esercito osteggia o sostiene un capo di Stato a seconda della compiacenza che egli mostra nei suoi riguardi.
Ma Putin, già oscuro funzionario dei servizi segreti sovietici, per rafforzare il suo potere personale è dovuto ricorrere anche a forze che prima di lui non esistevano, o erano invisibili e tenute al guinzaglio per non acquisire eccessiva potenza. In effetti la progressiva perdita di democrazia nella Russia di Putin rispetto a quella, sicuramente caotica e inconcludente (come molti affermano) che aveva ereditato da Eltsin, è legata anche all’influenza sempre più forte dei funzionari dei servizi e di personaggi legati alle formazioni di estrema destra, affermatesi in Russia dopo lo scioglimento dell’URSS. Questi elementi hanno offerto adeguato supporto alle mire neo-zariste dello stesso Putin in cambio di una visibilità e di un potere via via crescente negli anni, supportando a loro volta e difendendo da qualunque nemico interno l’uomo forte voluto dal destino per salvare dall’ipotetica frantumazione e dagli ipotetici attacchi di ipotetici nemici la “Grande Madre Russia”.
Nell’attuale Federazione Russa continua ad allargarsi il cuneo, in verità sempre esistito, fra la ricchezza di chi sta al potere e l’estrema povertà delle masse contadine. In questo territorio sterminato, dove il potere centrale non può che delegare a satrapi locali il potere amministrativo delle repubbliche e delle province lontane come se si trattasse di un potere autonomo e personale, l’esigenza dei centri di potere di Mosca di avere per le mani una guerra quotidiana da combattere è un elemento sicuramente assai utile e redditizio per tenere unito il Paese.
Lo è per i grandi oligarchi, i quali ne possono trarre in qualche modo profitto grazie al business delle armi o delle materie prime che possono reperire come “bottino di guerra” fuori dai confini russi.
Lo è per gli alti ufficiali dell’esercito che considerano i propri soldati come schiavi nelle loro mani e li sfruttano spesso per motivi personali.
Lo è per tutte le formazioni paramilitari che sono state impegnate, a fronte di una pur modesta paga, in teatri di guerra vicini e lontani (dalla Cecenia alla Siria, dalla Georgia all’Ucraina), sapendo che possono uccidere al di là delle norme internazionali, con la certezza di rimanere comunque impuniti non essendo soldati regolari e potendo quindi sfuggire alle norme internazionali che, almeno sulla carta, lo Stato russo è tenuto a rispettare.

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Cartina politica della federazione Russa, elaborata da Laura Canali per “Limes”.

Tutto questo mentre contestualmente tanti giovani di leva, arruolati nei battaglioni della periferia federale (musulmani del Caucaso o asiatici vicini ai confini del Kazakhstan, della Cina o della Mongolia), finiscono col diventare carne da cannone da sacrificare nel silenzio, anche per agevolare le carriere militari di pochi e rinsaldare dall’altro lato il potere dello stesso Putin, pronto a sbarazzarsi subito di ogni dissidenza che provi a manifestarsi attorno a lui, con qualunque mezzo.
La libertà, in un contesto di questo genere, è un bene troppo prezioso perché possa insinuarsi nelle pieghe di un potere che si regge su delicatissimi equilibri dove non contano nemmeno le persone in quanto tali, costrette a essere solamente parti di un ingranaggio volto a realizzare incondizionatamente perfino gli azzardi politici di chi è al potere.
La verità è che, per quanto il comunismo risulti defunto, appare ancora lontano un equilibrio politico basato su un pacifico sviluppo socio-economico di quell’immenso Paese che è da secoli la Russia, avviluppata sempre più nel tentativo di giustificare agli occhi degli altri slavi (oltre che del mondo intero) sia il proprio nazionalismo, sia il proprio imperialismo, sia ancora il proprio militarismo (elemento basilare per i primi due): si tratta di elementi che sono stati ininterrottamente dal ‘700 a oggi il collante capace di tenere insieme uno Stato gigantesco e disomogeneo che, pur di illustrare esaurientemente la propria storia e la propria identità, ha perfino rifiutato di considerarsi multietnico, definendosi semplicemente “russo”, anche se milioni dei propri cittadini parlano una delle duecento altre lingue del suo immenso territorio.
In un simile contesto, ogni anelito di reale libertà è un lusso che Putin non può sicuramente concedere, così come non lo poterono concedere tanti suoi predecessori del periodo bolscevico, ma che probabilmente nelle condizioni attuali non potrebbe permettersi di concedere nessun altro presidente che dovesse giungere in un modo o nell’altro al potere, se non generando lo stesso caos emerso dal dopo Gorbaciov.
Che questo atteggiamento (ma forse anche questa paura) non appartenga solamente alla nomenklatura al potere, è attestato dalle percentuali di consenso che i vari capi insediatisi al Kremlino hanno sempre avuto nell’opinione pubblica, anche se tale consenso è stato ottenuto con ogni mezzo possibile (ciò vale anche per altri Paesi legati “profondamente” a Mosca, come la Bielorussia di Aljaksandr Lukašėnka). Del resto, ancora oggi oltre il 70% dell’opinione pubblica russa, sull’onda della propaganda e dei media controllati di fatto dallo Stato, pensa di essere davvero assediata dall’occidente, percepito come un nemico… anche se gli hamburger del McDonald (non solo per i più giovani) e le borse di Prada (per chi se le è potute permettere) sono entrate nell’immaginario collettivo, quanto meno di chi abita nelle grandi città come Mosca e San Pietroburgo; come lo fu il piccolo ma tanto ambito appartamento monofamiliare di pochi metri quadrati all’epoca di Krusciov in ogni città dove si cercava di sviluppare l’economia locale, costruendo industrie di ogni tipo senza pensare un attimo ai problemi di inquinamento che ne sarebbero derivati.
Non deve neanche stupire se il 65% della stessa popolazione rimpianga ancora oggi, a distanza di tanto tempo, lo scioglimento dell’Unione Sovietica; o se pressoché tutti i russi, quanto meno all’apparenza, approvino l’“operazione speciale” voluta da Putin in Ucraina, così come hanno approvato alcuni anni addietro quella in Cecenia o le truppe inviate dallo stesso Putin a supporto dell’esercito siriano di Assad dopo che questi era già stato accusato dalla comunità internazionale di efferati e documentati crimini di guerra.
Sia nell’uno sia negli altri casi, in assenza di una vera libertà di stampa e di informazione, per la Russia è prima di tutto una questione di sopravvivenza: in caso di disaccordi con i popoli e gli Stati vicini, ci si affida alle armi laddove anche il “popolo fratello” non la pensi allo stesso modo, proprio per evitare che prenda piede anche all’interno della Federazione Russa quello spirito “autonomistico” ormai chiaramente evidenziato dagli altri slavi dell’Europa centrale, che hanno “tradito” il panslavismo rifugiandosi sotto le ali protettrici dell’Unione Europea, della NATO e quindi del nemico per antonomasia: l’occidente. 2)

Opposti nazismi

Lo aveva previsto alcuni anni fa anche Richard Pipes, storico della Russia ed ex consigliere del presidente americano Reagan: per lui ciò che sarebbe avvenuto nel dopo Gorbaciov non era il pericolo di un ritorno prima o poi del comunismo, ormai morto e sepolto, ma una fiammata di nazionalismo violento e di antioccidentalismo; cosa che è puntualmente avvenuta. E quindi appare sempre più chiaro che il rapporto difficile, talvolta conflittuale, della Russia con l’occidente caratterizzerà con ogni probabilità il nostro secolo esattamente come ha caratterizzato i secoli passati, nonostante la parentesi del grande innamoramento di Pietro il Grande e poi, forse, di Gorbaciov e di Eltsin.
La “Nuova Russia” di Putin sarebbe quindi giunta fino alla necessità di doversi inventare un continuo conflitto con un sempre nuovo nemico per dare un senso alla sua missione nazionale e al tempo stesso panslavista. L’obiettivo vero? Ristabilire, dopo i fasti zaristi e poi dell’Unione Sovietica, l’autorità “imperiale” di Mosca almeno dove ancora le è possibile. Quindi, se oggi i carrarmati non possono più invadere l’Ungheria o la Cecoslovacchia come poté accadere nel secolo scorso, i russi odierni non possono almeno farsi sfuggire altri confinanti come la Cecenia, la Georgia o l’Ucraina; e per raggiungere questo scopo ogni arma è buona, comprese la propaganda di regime e le fake-news. Per questo il potere di Putin si regge sul controllo estenuante e asfissiante dello Stato su tutta la vita dei propri cittadini, attraverso ogni mezzo, a partire ovviamente dall’informazione.
Ma questa, da sola, non sarebbe di certo sufficiente a fornire adeguato supporto a Putin e alla nomenklatura oggi al potere a Mosca: fra gli altri poteri che appoggiano il nuovo zar del Kremlino vi è, come già detto, anche quello di Kirill, patriarca della “Chiesa Ortodossa di tutte le Russie”; e vi è, chiaramente, quello dei grandi oligarchi che hanno accumulato immense ricchezze in modo più o meno lecito negli ultimi anni in cambio della fedeltà assoluta al regime.
Ma a reggersi vicendevolmente alla sommità del potere russo sono ovviamente i rapporti sempre più intensi di Putin con gli alti gradi dell’esercito e con i capi delle organizzazioni sicuramente borderline, come i mercenari del Gruppo Wagner capeggiati da Dmitri Utkin, le bande di Lupi della Notte di Alexander Zaldostanov, e la Legione Imperiale di Denis Gariev, o ancora i giovani skinhead del gruppo OB88, e i tanti altri anonimi gruppetti di pirati informatici che obbediscono agli ordini del regime nella loro cyber-guerra quotidiana contro le infrastrutture, le grandi aziende strategiche e la finanza dell’occidente, laddove a essere colpiti non siano gli stessi Stati stranieri (come accaduto di recente all’Estonia).
Intendiamoci, nell’attuale guerra i nazionalismi non sono soltanto da una parte. Anche altrove la situazione non è esente da pantani o, peggio, da buchi neri, se è vero che a Kiev le manifestazioni pro-Europa del 2013 (che hanno poi spianato la strada all’elezione di Zelenskij) furono propiziate dal Pravy Sekto, gruppo neonazista da cui ha preso forma il battaglione paramilitare Azov (che ha combattuto fino all’ultimo nella battaglia di Mariupol); mentre a rinforzare le truppe regolari nella difesa del territorio ucraino di fronte all’invasione russa ci sono anche i paramilitari di estrema destra del Gruppo Ajdar, che prende il nome dal fiume nella regione di Luhansk dove, dal 2014, i suoi uomini sono stati impegnati nel silenzio dell’occidente contro le milizie filo-russe e, in alcuni casi, anche contro la popolazione russofona; per non parlare dei gruppi che fanno capo al Sich.14, fondato nel 2010 come struttura giovanile del movimento di estrema destra Svoboda, in contatto da anni con vari gruppi neonazisti di tutta l’Europa.

Un ulteriore tassello per comprendere il senso e la logica del conflitto fra Russia e Ucraina (e nel contempo la logica dell’avversione di tanti altri Stati slavi europei per la Russia odierna dopo il periodo in cui ne furono soggiogati) è legato alle macerie che la guerra e i combattimenti stanno causando: non si tratta solo delle distruzioni che l’armata rossa sta infliggendo all’Ucraina nell’àmbito delle infrastrutture nazionali, né delle perdite di mezzi militari che ovviamente si aggiungono alle morti di combattenti e, giocoforza, di “eventuali” civili come vittime collaterali; qui parliamo anche della sistematica distruzione di siti, edifici o monumenti che fanno parte del patrimonio culturale della nazione ucraina.
Razzi e bombe stanno distruggendo alcune delle antiche chiese in legno del ‘700 sparse sul territorio del Paese; ma anche tanti altri edifici religiosi, pure moderni, per il solo fatto di appartenere ora al Patriarcato Ortodosso di Kiev, riconosciuto da quello di Costantinopoli ma non da quello di Mosca che, non a caso, fino a pochi anni fa espandeva il suo “potere” religioso, oltre che alla Bielorussia, anche all’Ucraina.
Nel corso delle varie battaglie, inoltre, sono stati danneggiati o sono andati polverizzati memoriali e monumenti a eroi nazionali, sono stati bombardati e incendiati biblioteche, musei e perfino scuole di ogni ordine e grado, anche se tutti sanno che ogni atto di questo genere è una sistematica violazione della Convenzione dell’Aja del 1954 sui crimini di guerra, siglata anche dalla Russia.
Ma l’obiettivo russo è proprio quello di distruggere e cancellare la storia e la cultura degli ucraini nel tentativo di assimilarli alla propria, in un revival di panslavismo “a senso unico”; e in questo atteggiamento rientra perfino la strategia di radere sistematicamente al suolo intere città che, secondo le intenzioni di Mosca, verranno poi ricostruite con un altro nome, chiaramente di matrice russa.

Nostalgie imperiali

E tuttavia, che il conflitto da anni strisciante nell’est dell’Ucraina si potesse trasformare prima o poi in una guerra aperta e assai più pesante per i due fronti e per la popolazione civile, c’era da aspettarselo. Non ci si dovrebbe quindi meravigliare di quanto sta succedendo da quelle parti, dato che si tratta di una triste ripetizione di storie passate. Perché scandalizzarsi, allora, di ciò che sta facendo ancora una volta la Russia? Semmai c’è da chiedersi perché l’occidente nulla abbia fatto negli anni passati per evitare che si arrivasse a questo; o che nulla abbia fatto per impedire in passato l’intervento di Mosca in Cecenia e in Georgia, in entrambi i casi strappando parti di territorio dei due Stati e creando territori autonomi in modo farlocco – quello dell’Abcasia e dell’Ossezia del Sud –  annessi poi di fatto alla Federazione con la scusa che erano abitati da popolazione “russa”.
Ma potremmo aggiungere tanti altri casi. Per esempio, sempre in territorio europeo, quello della Transnistria, occupata militarmente dai filo-russi nel 1990 per creare una repubblica indipendente dalla Moldavia, poi riconosciuta dalla sola Russia.

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Per quanto innescata, attizzata dai poteri economici e dalla élite globalista, l’aggressività “imperiale” di Putin e compagni non è certo un parto della fantasia, ma ha alle spalle una lunga tradizione storica.

L’idea che la prospettiva dell’integrazione europea possa aprirsi in un futuro non troppo lontano all’Ucraina fa traballare la sicurezza di una Federazione Russa la quale, nel frattempo, si è del tutto allontanata dalle idee e dalla politica di Gorbaciov, tornando a isolarsi come aveva fatto per secoli, temendo stavolta non solo l’atavico accerchiamento ai suoi confini di probabili o improbabili nemici, ma anche la semplice infiltrazione di idee liberali che potrebbero mettere a repentaglio la stessa sopravvivenza di un regime che non è mai riuscito ad accettare la democrazia come metodo di gestione e di organizzazione della vita politica. Un regime incapace di organizzare, governare e amministrare uno Stato fondato sulla corruzione imperante in ognuno dei suoi gangli centrali e periferici e che appare sempre più come un semplice coacervo di nazionalità pronto a disintegrarsi al minimo segnale di debolezza del potere centrale e di scollamento delle varie forze che questo potere alimentano. In questa logica vanno viste le alleanze in funzione anti-europea, anti-americana o semplicemente anti-occidentale portate avanti da Putin, pur consapevole di tutta l’arretratezza economica e logistica esistente ancora sul territorio russo.
Grande giocatore d’azzardo, Putin può essere sostanzialmente considerato l’architetto di una sorta di silente patto sociale stipulato con il popolo russo, fondato sullo scambio fra sicurezza e libertà, che gli ha consentito di conquistare un potere sempre più saldo e personale, istituendo un regime che sul piano formale non è una dittatura, ma che sul piano pratico è come se lo fosse (lo stesso dicasi per Lukašėnka nella sua Bielorussia).
Quella democrazia incompiuta che l’occidente aveva inizialmente considerato, sbagliando chiaramente prospettiva e previsioni, come un periodo di transizione verso una società completamente liberale e democratica, si è lentamente trasformata in un ibrido, una “democratura” (sgraziato neologismo inteso a indicare una democrazia autoritaria vicina alla dittatura) dove la libertà di stampa, i diritti umani e la voce del dissenso sono ben lontani dalle abituali considerazioni dei Paesi dove vige una reale democrazia come l’intendiamo noi.
Evidentemente Putin ha cavalcato ben altre ambizioni, guidato da idee che ben pochi all’inizio capirono, come quelle esposte nel 2005 in un suo discorso che oggi viene spesso riesumato da alcuni storici e analisti politici: “La dissoluzione dell’Unione Sovietica è stata la più grande catastrofe geopolitica del ventesimo secolo: un dramma per decine di milioni di connazionali abbandonati fuori dai confini della Russia”. Chiaramente, in quelle parole vi era in nuce il senso di ogni azione intrapresa dall’esercito russo o dalle varie milizie al soldo del Kremlino al di là dei confini internazionalmente riconosciuti della Federazione in difesa dei russi (in Cecenia o Georgia, in Crimea o adesso nel Donbass): tutto fa parte degli esiti di quella “narrazione” che fa da sfondo alla guerra in corso.
E se Putin ormai fa di tutto per essere considerato il nuovo zar al pari di chi aveva fatto grande la Russia, lo si deve a una lenta ma inesorabile “costruzione” del suo personaggio pubblico. Un nuovo zar lo è diventato giocando sulla duplice nostalgia della Russia zarista e di quella sovietica, non senza un retroterra mistico-letterario poggiato su figure opache come Lev Gumilëv: è soprattutto grazie alle sue idee che Putin si è sentito investito della missione di riportare la Grande Madre Russia dalla periferia per lui imperfetta e arretrata del sistema storico-geografico europeo a una realtà sostanzialmente autonoma, “euroasista”, dotata di propri ritmi e finalità. Le prove di forza, quindi, per Putin e gli uomini a lui più vicini divengono strumenti di sopravvivenza anche personale, cioè di conservazione del proprio potere in un’ottica e in una strategia volte a lasciare alla storia una traccia di sé e del proprio operato, come avvenuto nel passato da parte di zar e capi del PCUS diventati in qualche modo eroi nazionali.
E allora, in questo caso, non potendo cambiare nel conflitto russo-ucraino ciò che sta avvenendo sui campi di battaglia se non con una altrettanto nefasta prova di forza opposta, la responsabilità da parte dell’Europa di una risposta efficace e non distruttiva passa dal superamento in chiave diplomatica, e prima possibile, delle logiche che finora hanno generato e alimentato questa insensata guerra.
Così come avvenne nel 1950 – quando la Germania Federale e la Francia cancellarono secoli di rivalità per avviare, dopo l’esperienza terribile della seconda guerra mondiale, il processo di unificazione europea, basato su una pace in cui non c’erano più vincitori e vinti, rivolgendosi come ulteriori interlocutori agli altri Paesi dell’Europa democratica e occidentale – allo stesso modo la perdita della dignità e della forza morale della Russia di Putin, che vale per il resto del mondo ben più di una sconfitta militare (anche se sul campo di battaglia accadrà con ogni probabilità il contrario), dovrà prima o poi aprire la strada a una nuova conferenza sulla pace e sulla sicurezza nel continente europeo, sul modello degli accordi siglati a Helsinki nel 1975, ricomponendo proprio la frattura fra il mondo slavo al suo interno e fra questo e quei mondi mediterraneo e anglosassone-scandinavo che furono alla base del pensiero espresso poi nel 1989 da uomini come Mitterrand e Gorbaciov.
Solamente portando avanti un progetto, seppur rinnovato, come quello di Helsinki, con la rinuncia a illusorie sovranità assolute e la condivisione di una strategia che preveda immancabilmente il rispetto dello Stato di diritto, la difesa di ogni nazionalità e, contestualmente, la garanzia per tutti i cittadini e i popoli europei delle più elementari libertà come elemento di base della vita sociale e del progresso civile, l’Europa nel suo complesso finirà di essere ancora un nano politico e potrà riprendere la sua strada nella storia evitando nel contempo di retrocedere dal ruolo di protagonista a quello di possibile comparsa nello scacchiere geopolitico del futuro.


N O T E

1) Anna Politkovskaja, La Russia di Putin, Adelphi, Milano 2022.
2) Per approfondire gli argomenti trattati dall’autore in questo articolo, consigliamo il suo recentissimo libro Gli slavi: un popolo, tanti popoli [NdR].