La terra degli avi ed il suolo che si calpesta ogni giorno − anche quando la lingua è “tagliata” − garantiscono la coscienza perenne dell’identità. Tutti i conquistatori-civilizzatori della Sardegna ben compresero l’importanza della distruzione dell’uno e dell’altra per un’assimilazione più rapida e sicura. L’ipotesi di una proprietà “perfetta” da due secoli indice di una colonizzazione “scientifica”.

Viaggiando attraverso la Sardegna, ad un occhio attento non sfugge la peculiarità dell’organizzazione del territorio rurale, fonte di apparenti contrasti e contraddizioni: se si eccettuano infatti le zone montane meno utilizzabili od interessate ad attività non agricole ed alcuni territori come quelli della zona di Palmas Arborea,1 appare chiara una frammentazione a tutta prima in contrasto con la bassa densità abitativa2 e la distribuzione dei comuni isolani3. Tale frammentazione è un fenomeno tuttora assai rilevante dal punto di vista economico, ma lo è anche − e questo forse appare a tutta prima meno evidente − dal punto di vista strettamente storico, perché frutto della progressiva stratificazione di interventi finalizzati ad un profondo e radicale cambiamento dell’intera struttura sociale dell’isola. Ciò vale anche per le eccezioni a questa situazione: si possono citare gli insediamenti di coloni veneti nell’oristanese avvenuti 50 anni or sono, con introduzione di nuove colture quali il riso, e con la conseguente e contemporanea nuova sistemazione del territorio. In questo spazio è comunque interessante trattare di quegli interventi più remoti nel tempo che possono renderci conto dell’attuale situazione. A chi si occupi di cose sarde del passato, non può sfuggire il dato fondamentale di una organizzazione del territorio, e del suo sfruttamento, basata essenzialmente, anche se non esclusivamente, sull’esistenza di rilevanti proprietà collettive: già la “Carta de Logu d’Arborea” (1395) ne regola corollari importanti (basti citare la difesa dei terreni dai danni degli animali liberi).

Il territorio era articolato in zone più vicine agli abitati, tenute di solito a coltivazioni pregiate; zone intermedie, che subivano rotazioni colturali annuali o poliennali con relative protezioni temporanee; ed infine in zone più lontane, generalmente incolte e destinate al pascolo degli animali bradi. Soltanto con l’insediamento degli ordinamenti feudali tale struttura venne profondamente mutata: da un lato vennero acquisiti al regno e ai feudi quei territori, ed erano la maggioranza, sempre appartenuti alle comunità, lontani ed incolti; dall’altro si assistette ad una stabilizzazione della proprietà su quelle zone intermedie soggette a coltivazioni protette temporanee con la mancata rotazione colturale e l’erezione di protezioni permanenti. In tale modo fecero la loro comparsa nuovi problemi legati ai diritti d’uso ed alle forme in cui venivano esercitati (ademprivio, cussorgia, ecc.). Così l’ademprivio era in origine proprio “il complesso dei diritti spettanti alla comunità del villaggio sulle terre di sua pertinenza. In seguito ha significato il diritto di raccogliere ed appropriarsi i prodotti naturali o industriali del suolo, senza riguardo ai diritti di proprietà”4.

Già una prima riflessione può essere fatta: la modificazione della struttura socio-economica è cosi profonda che si può ben pensare ad essa come ad un grandissimo passo verso la distruzione dell’identità nazionale sarda. E’ però con il passaggio dell’isola ai Savoia che il problema dell’assetto territoriale si pone in termini più drastici. Il miglioramento delle condizioni agricole è solo un pretesto per l’accentuazione del “riordino” territoriale. Già nel 1776 V.F.Gemelli sosteneva che le tristi condizioni dell’agricoltura fossero dovute al “difetto di libera proprietà delle terre per la comunanza o quasi comunanza di esse”, ed, in particolare, al “difetto di chiusura intorno ai fondi”5. Nel 1806 un editto promovente la coltivazione degli olivi consentì la chiusura dei terreni a ciò destinati, anche se insistenti su “vidazzoni”. Si giunge così alla legge del 6 ottobre 1820, meglio nota come “legge sulle chiudende”.

E’ utile, per la brevità, riportare qui i primi tre articoli dell’editto:

“I – Qualunque proprietario potrà liberamente chiudere di siepe, o muro, o vallar di fossa, qualunque suo terreno non soggetto a servitù di pascolo, di passaggio, di fontana, o d’abbeveratoio.

II – Quanto a terreni soggetti a servitù di pascolo comune, il proprietario, volendo fare chiusura, o fossa, presenterà la sua domanda al Prefetto; il quale, nella sua qualità d’intendente, sentito, in Consiglio raddoppiato, il voto delle Comunità interessate, procederà secondo le norme che saranno stabilite.

III – Qualunque comune potrà esercitare sopra i terreni, che gli spettano in proprietà, gli stessi diritti assicurati ad ogni proprietario dall’art. I della presente legge.”

Le sollevazioni popolari si protrassero per più di un decennio, sempre soffocate nel sangue. Questa la descrizione in un saggio sulla proprietà collettiva in Italia, pubblicato nel 1890: “Forse furono commesse pure alcune usurpazioni di terreni comunali. Ne vennero alcune piccole sommosse: furono distrutti dei muri; incendiate delle siepi, riempite delle fosse, alcuni terreni devastati. Furono presi dei provvedimenti e il malcontento si acquietò”6. Come commento a questa citazione possono bastare le parole di Melchiorre Murenu, poeta ucciso forse da chi ebbe vantaggi dalle “chiudende”: “Tancas serradas a muru / fattas a s’afferra afferra; / si su chelu fit in terra / bo chi lu serraizis puru” (Tanche chiuse a muro / ottenute arraffando; / se il cielo stesse in terra / anche quello vi sareste chiuso!). Il feudalesimo venne abolito in Sardegna solo nel 1838 e con la “Carta Reale 26 febbraio 1839” le terre ex-feudali, incamerate al patrimonio regio, vennero divise in tre categorie: private, comunali e demaniali, e vennero stabilite norme precise per il riordino fondiario, basate sulla determinazione di un fabbisogno di 10 starelli metrici (uno starello equivaleva a 40 are) di terreno ademprivile per abitante fino alla concorrenza della misura di 1/4 degli abitanti. La R.Delegazione Feudale fu incaricata di deliberare al riguardo, e questa era la sua composizione nel 1844: il Viceré; il Reggente la Reale Cancelleria; l’intendente Generale delle Regie Finanze; il Presidente di Classe; il Censore Generale sopra i Monti di Soccorso; tre giudici della Reale Udienza; l’Avvocato Fiscale Generale Patrimoniale; l’Avvocato Fiscale Generale7. L’obiettivo era quello di una proprietà “perfetta”, cioè non gravata da alcuna servitù: la sopravvivenza degli ademprivi era un ostacolo troppo ingombrante. Inoltre, non va dimenticata l’introduzione in Sardegna della legge mineraria, entrata in vigore nelle altre province del Regno nel 1840: siamo nel 1848 e l’attività estrattiva era rimasta fino ad allora su livelli non troppo dissimili da quelli del sec. XIV.

Anche per ciò che riguarda questo aspetto dell’economia sarda è utile un breve raffronto fra un passato che sembra remotissimo e la situazione del 1848: il “Breve di Villa di Chiesa” del XIV sec. regola in maniera dettagliata la coltivazione dei giacimenti iglesienti; non si fa cenno dei proprietari della superficie, nè di indennità che il minatore dovesse dare loro; anzi, lo scopritore di una vena metallifera in sito non ancora esplorato (in montagna nuova) riceveva un premio in denaro8. E quanto fosse fiorente l’industria estrattiva nel XIV sec. ce lo dice l’ipotesi fatta dal Baudi di Vesme di una rendita di 4.800.000 lire annue. La legge del 1840, invece, distingue “le giaciture contenenti minerali metalliferi, combustibili, fossili, ecc. da quelle delle materie lapidee, terre, torbe, ecc. Le seconde sono spettanti al proprietario del suolo, mentre le prime danno luogo alle miniere. Le ricerche necessitano dell’autorizzazione del Prefetto (Intendente nel 1840) e dell’assenso del proprietario del terreno. In caso di diniego senza motivi ragionevoli il Prefetto può accordare il permesso”9. Come per l’editto sulle “chiudende”, l’introduzione della distinzione fra proprietà del suolo e del sottosuolo distrugge ogni residuo di proprietà comunitaria anche nelle zone meno sfruttate in senso agricolo. La necessità di liquidare gli ademprivi residui si fece sempre più pressante: leggi al proposito furono emanate o soltanto tentate nel 1851,’52,’53,’54,’57, ’58, ’59. In ques’ultimo anno le polemiche si fecero roventi, perché la legge sull’abolizione degli ademprivi giunse ad un passo dall’approvazione. Si invocò l’unità del nuovo Stato, il disprezzo verso l’assolutismo del passato perché fosse approvato tale decreto; ma, contemporaneamente, vennero a galla posizioni molto più interessate e meno nobili, come la seguente: “Sarebbe uno sprecamento di parole il voler ritrarre con larghe tinte cosa sia la pastorizia errante, di che tempra siano gli uomini che si dedicano a questo mestiere. Non si dà classe di abitanti peggiore di questa. Separati come sono dal consorzio civile, altro non veggono che la vastità dei campi che li circonda: la solitudine li rende incapaci di veri sentimenti sociali: quindi nascono, crescono e muoiono sotto l’impero dell’egoismo, della forza elevata a diritto, delle usanze tramandate dai loro avi. Avvezzi a spaziare coi loro armenti in immense estensioni del terreno, credono che ogni porzione di terra a loro tolta sia una violazione dei propri diritti, un danno irreparabile alla pastorizia”10. Nel 1862, intanto, 200.000 ha di terreni ademprivili (su un totale dell’intera isola di 2.302.514 ha) vennero ceduti alla società italo-inglese che avrebbe dovuto appaltare le strade ferrate della Sardegna. La società fallì; i comuni che avrebbero dovuto privarsi di terreni nel rispetto di tale accordo (270.000 ha di proprietà “perfetta” da distribuirsi a privati) non eseguirono tale disposto, ed i terreni vennero incamerati da latifondisti ed imprenditori sia locali che stranieri. Nel 1865, con la legge 23 aprile, gli ademprivi vengono aboliti. Ma la liquidazione di questi antichi diritti non fu cosa nè facile nè breve: proroghe alla legge del 1865 vennero emanate nel 1870, ’75, ’77.

Il processo, però, è ormai irreversibile: il problema non è più rappresentato da resistenze alle nuove norme da superare, ma dai frutti dell’applicazione delle norme stesse. Nel 1881 “cessate le costruzioni ferroviarie nell’isola erano cessati i barbari tagli che si facevano nei boschi svincolati i quali in massima parte dopo la distruzione delle piante di quercia rovere, di cui erano popolati, sono stati divisi e chiusi in “tancati” e destinati alla coltura agraria”11. La relazione Salaris del 1885 mette in rilievo la dannosità dell’estremo frazionamento fondario, ma non può o non vuole comprendere nè cause nè rimedi. Si tratterebbe, infatti, di mettere in discussione scelte di politica non solo economica, che ancora sono troppo recenti ed attuali (anche se i danni già si possono vedere). Il Salaris si limita a scrivere che “è vero che in ogni angolo d’Italia, anche nella parte meglio coltivata, nella Lombardia, vi sono le minime particelle della terra; ma in nessuna parte il frazionamento raggiunge quello che nell’isola si osserva. Dappertutto vi sono i latifondi, vi ha la media e piccola proprietà; ma la media è ben costituita e prevalente. In Sardegna i latifondi si contano sulle dita di una mano: tutti possiedono della terra; ma la proprietà non è regolamente costituita; la proprietà è nel più completo disordine. Quelli che passano per proprietari possiedono i 200, i 300 ed anche i 400 microscopici appezzamenti non solo divisi, ma quel che è peggio distanti i due, i tre chilometri l’uno dall’altro”12.

Così si può parlare dello “scarso spirito associativo della popolazione agraria sarda”13. E come unico ricordo sbiadito del passato restano le Casse Ademprivili di Cagliari e Sassari, fino a quando anche il credito non viene effettuato da istituti di credito a ciò istituiti, o con sede nel continente. Così, in nome di interessi estranei e stranieri, venne abbattuto uno dei pilastri dell’identità nazionale sarda, che aveva consentito secoli di sviluppo ordinato, razionale e fruttifero. Quant’altre volte poi i tentativi di distruzione del tessuto socio-culturale della nazione sarda siano stati attuati non sta a me ripeterlo. Resta certo la coscienza di una pesante oppressione che non può dirsi ancora conclusa e la speranza che anche la conoscenza del passato possa ispirare un migliore avvenire.

 

Note

1P.Pinna La Sardegna. Il riordino fondiario, in “Politica e Mezzogiorno”, genn. marzo 1965, p. 125.

2La densità abitativa della Sardegna è di 67 ab./Kmq. (dato del 1982. Le regioni in cifre, ISTAT, 1984).

3I comuni al 31.12.1983 erano 368, nel 1856 erano 373 (da Itinerario generale della Sardegna, Torino, 1856).

4A. Cencelli Perti, La proprietà collettiva in Italia. Le origini. Gli avanzi. L’avvenire, Roma, 1890, in Guidetti-Stahl, Un’Italia sconosciuta, Milano, 1977, Jaca Book ed, p. 56.

5V.F. Gemelli, Rifiorimento della Sardegna, Torino 1776, in U. Dessy, Quali banditi?, Verona, 1977, Bertani ed., p. 323.

6A.Cencelli Perti, op. cit., p. 60.

7 Sull’abolizione degli ademprivj in Sardegna, Cagliari, 1859, Tipografia a. Timon, p. 19.

8Q.Sella, Relazione alla commissione d’inchiesta sulle condizioni dell’industria mineraria nell’isola di Sardegna, 1871, p. 7.

9Ivi, p. 14.

10Sull’abolizione…, op. cit., p. 32-33.

11A.Cossu, L’isola di Sardegna, Milano, 1916, Soc. Ed. Dante Alighieri, (2° ediz.), p. 204.

12Atti della Giunta per l’inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola, vol XIV, fascicolo I e II, Relazione del commissario Francesco Salaris, Deputato al Parlamento sulla XII Circoscrizione (Provincie di Cagliari e Sassari), Roma 1885

13L.V. Bertarelli, Guida d’Italia del Touring Club Italiano-Sardegna, Milano, 1918, 1° ed., p. 51.