L’autore di Eritrea. Fine e rinascita di un sogno africano ci racconta di un Paese splendido, pieno di ricchezze naturali, archeologiche ed etnoculturali, ma che vive in uno stato di belligeranza permanente con la vicina Etiopia e di continua vessazione da parte dell’ONU.  

 

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Alessandro Pellegatta, Eritrea. Fine e rinascita di un sogno africano, Besa Editrice, Nardò 2017, 18 euro.

 

L’Eritrea, che all’epoca della conquista coloniale italiana aveva confini di terra scarsamente definiti, è un Paese antichissimo ed è stato testimone di traffici commerciali marittimi e terrestri che hanno messo in contatto tra loro Europa, Penisola Arabica, Africa e India. Ne sono testimonianza la mitica terra di Punt e lo sviluppo della città portuale di Adulis, che ha consentito all’impero aksumita di diventare uno dei più grandi regni della storia antica.
Oggi l’Eritrea sembra caduta vittima di un male oscuro e ha un bisogno disperato di spezzare la cortina di ferro che la tiene isolata e segregata dal resto del mondo. Restano tanti problemi, tra cui la fuga dei suoi giovani davanti al servizio militare illimitato e la scarsità di risorse. Il conflitto tuttora latente tra Etiopia e Eritrea e il mancato rispetto da parte dell’Etiopia delle risoluzioni dell’ONU e delle decisioni della Commissione per la delimitazione dei confini annunciate a l’Aja il 13 aprile 2002, rimangono dei vulnus che rischiano di destabilizzare gravemente tutto il Corno d’Africa.
Percorrere in Eritrea – come le definiva Curzio Malaparte – le “[…]  immense distese di stoppie gialle, sparse di alberi magri, di disegno risoluto e insieme astratto” fa assaporare l’essenza della vita e dell’ingegnosità umana. Chi si avventura in questo Paese e percorre le pietraie, le rovine archeologiche, i maestosi sicomori e il mare cristallino delle isole Dahlak si fa incantare dalle suggestioni storiche di questa terra affascinante e tormentata. Asmara, Massaua, Adulis e le città aksumite poste nei pressi delle antiche vie carovaniere che collegavano la stessa Adulis ad Aksum, attendono ancora di essere valorizzate per il bene dell’Eritrea e del mondo intero.
In Eritrea, dopo la sconfitta di Cheren (1941) si spensero i sogni coloniali dell’Italia fascista. Nel 1991 il popolo eritreo conquistava la sua indipendenza dall’Etiopia dopo una sanguinosa guerra di liberazione durata decenni, combattuta nel silenzio e nell’indifferenza del mondo. Un sogno di libertà, pace e sviluppo spinse il popolo eritreo nella lotta. Ma che fine ha fatto questo Paese? Nessuno ne parla mai, e quando ne parlano i media si sente sempre e solo il solito mantra. L’Eritrea sarebbe una specie di Corea del Nord Africana: tutti scappano dalla dittatura. L’ONU e il suo Consiglio di sicurezza continuano a penalizzare questo Paese, accusandolo di appoggiare i terroristi somali di Al-Shaabab. Ma sarà proprio così?
C’è sempre stato qualcuno, più o meno sistematicamente, che ha esplorato tutto ciò che è out, ma è sempre appartenuto a una minoranza. La “curiosità del mondo” è sempre stata, e lo è ancora oggi, un’eccezione, come ci ha insegnato Ryszard Kapuscinski. I viaggiatori e gli esploratori ci portano sempre preziose informazioni sul mondo, ci fanno comprendere chi sono gli “altri” e ci fanno capire, nel momento della scoperta, chi siamo anche veramente “noi”. È davvero paradossale: con tutto il bombardamento mediatico e il proliferare delle fonti informative, ci sono sempre più luoghi e Paesi – e l’Eritrea è uno di questi – di cui non si sa (o non si è mai saputo) quasi nulla. La nostra conoscenza del mondo è sempre più povera e limitata, ristretta dalle “pillole” del linguaggio televisivo e dei mass media. E così il reportage letterario è costretto a emigrare dalle pagine dei quotidiani e tentare (con esiti incerti) la strada editoriale.
Mi piace molto ricordare un bellissimo pensiero di Simone Weil: “Il presente è qualcosa che ci lega. Il futuro ce lo creiamo nella nostra immaginazione. Solo il passato è pura realtà”.  Attraverso un percorso apparentemente “regressivo”, è proprio solo con la lettura del “passato” forse mai interamente posseduto e compreso dell’Eritrea che possiamo proiettarci nel nostro tempo, penetrando le realtà del “presente” che la banale, superficiale analisi dei media ancora oggi scalfisce soltanto.
Spesso dietro la modernità, la democrazia “da esportazione” e il progresso si nascondono nuove manovre molto insidiose, nuove forme di conquista e di colonialismo, nuove forme sempre più perverse e sottili di assoggettamento politico e di controllo totalizzante. Progresso e modernità significano non solo produrre beni materiali e servizi, migliorare gli standard della vita quotidiana della popolazione locale, ma dovrebbero significare anche la riduzione degli armamenti per attenuare la tensione generalizzata (e nel Corno d’Africa i trafficanti di armi hanno fatto e continuano a fare il bello e il cattivo tempo); la pianificazione della cooperazione economica su scala regionale; il rispetto delle minoranze etniche; il superamento dei conflitti internazionali senza l’uso delle armi (e la comunità internazionale sta facendo ancora molto poco per ricomporre il conflitto tra Etiopia e Eritrea); l’affermazione di un effettivo “relativismo culturale”, che porti al superamento della presunta preponderanza  dei valori occidentali e alla negazione degli ordini gerarchici o di preminenza tra le culture. In una parola, non ci possono essere progresso e modernità senza pace, giustizia sociale e civiltà.


In questi ultimi anni Eritrea ed Etiopia sono state menzionate dalla stampa internazionale quasi sempre in occasione degli eventi drammatici che le hanno sconvolte (siccità, carestie, guerre, emigrazioni di massa). Questo ha fatto dimenticare al mondo che questi due Paesi possiedono uno dei più ricchi patrimoni culturali e archeologici di tutta l’Africa, inferiore per importanza solo all’Egitto. Questi due Paesi, oggi ancora in conflitto, occupano l’Acrocoro etiopico-somalo e i bassipiani a esso adiacenti, e costituiscono un vero e proprio mosaico ambientale e culturale. Dal punto di vista etnico siamo in presenza di un vero e proprio “museo di popoli”, con popolazioni parlanti lingue semitiche, cuscitiche e nilo-sahariane suddivise a loro volta in numerosi sottogruppi che praticano svariate economie. Essendo poste all’incrocio tra Africa e Arabia e tra Mediterraneo e Oceano indiano, Eritrea ed Etiopia sono da secoli aperte a contatti esterni, che hanno a loro volta prodotto un meltic pot di culture e una storia umana incredibilmente complessa.
L’Eritrea oggi è un piccolo Paese dalla grande storia che viene continuamente demonizzato: anche a causa delle sanzioni internazionali (adottate per il presunto appoggio alle milizie islamiche somale) e del conflitto tuttora latente con l’Etiopia, appare sempre più isolato dal resto del mondo. Visitarlo non è facile: visti, permessi e autorizzazioni continue non aiutano certo chi intende conoscerlo. Alcune località del Paese – come la Dancalia – restano off limit, e all’epoca del mio viaggio mi è stato negato addirittura l’accesso dei monasteri copti: anche la visita di Adulis mi è stata interdetta fino all’ultimo, ed è stato solo l’interessamento del direttore del Museo di Massaua che mi ha permesso di accedere al sito archeologico più importante dell’Eritrea, che venne esplorato dal Paribeni nel 1907 ed è ancora oggi oggetto di scavi da parte di un team di archeologi italiani. Eppure gli eritrei sono un popolo ospitale e accogliente, e adorano gli italiani. Anche l’Asmara è una città tranquilla e può essere visitata in tutta sicurezza persino di notte.
Il caldo afoso delle pianure costiere, la desolata essenzialità delle Dahlak, l’architettura modernista di Asmara e le rovine archeologiche delle città aksumite dell’altipiano eritreo non vi daranno forse mai il benvenuto. Dovrete conquistarvi tenacemente il vostro viaggio e niente sarà facile e scontato. Giorno per giorno, cercherete tenacemente la vostra salvifica dose di verità in questo Paese aspro, complesso e meraviglioso, da cui tornerete stanchi e felici.
L’Eritrea oggi purtroppo è ancora un Paese in bilico. Lo stato di belligeranza permanente continua a drenare preziose risorse per armare l’esercito e fronteggiare l’aggressione (reale e percepita) di un Paese confinante, l’Etiopia, molto più potente e ricco e alleato alle superpotenze occidentali: quello che oggi rappresenta un border totalmente militarizzato fu nell’antichità una frontiera aperta, dove transitavano le vie carovaniere dirette dal porto di Adulis verso Aksum, e che passavano a ridosso del monastero di Debra Damo . Le infrastrutture viarie e ferroviarie eritree sono ancora quelle del colonialismo italiano. Non ci sono soldi per i musei e per tutelare le aree archeologiche, che sono state depredate fin dall’antichità e di recente dagli stessi etiopi durante la guerra di liberazione. Gli italiani hanno restituito la stele di Aksum, ma gli eritrei stanno ancora aspettando la restituzione dei beni archeologici depredati dagli etiopi dalle città aksumite dell’altopiano eritreo (tra cui, in primis, Matara).
Gli abitanti di Massaua vivono ancora tra le macerie degli edifici bombardati, nei pressi di un porto che funziona a singhiozzo. E l’appello di Pietro Laureano per la salvezza di questa città, nata dopo la fine di Adulis e a seguito della colonizzazione islamica della costa eritrea, è rimasto inascoltato.
Nelle campagne i contadini combattono coraggiosamente la grande sfida dei mutamenti climatici e della siccità con strumenti antidiluviani e spesso senza poter disporre di energia elettrica: solo la loro grande tradizione e il rispetto per il territorio li ha aiutati nella battaglia quotidiana contro nuove carestie e la desertificazione incombente. Ci sarebbe bisogno di nuovi piani di rimboschimento per arrestare l’avanzata del deserto, e bisognerebbe sfruttare maggiormente le energie alternative per impedire il consumo di legna. I poveri hanno bisogno di combustibile per cucinare, e non di progetti faraonici: basterebbe qualche impianto fotovoltaico per rivedere le foreste di ginepri che un tempo ricoprivano l’altipiano eritreo.

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L’archeologa Serena Massa fa parte della missione italiana che sta portando alla luce la città perduta di Adulis, definita la “Pompei africana”.

Anche l’Italia non è ancora riuscita a porre la parola “fine” alla sua avventura coloniale. Il “meticciato” in Eritrea rappresenta ancora un grave problema politico e sociale irrisolto, visto che sotto il colonialismo italiano nacquero migliaia di individui dalle unioni tra italiani e donne eritree. Questa degli italo-eritrei che dal 1953 chiedono invano la cittadinanza è davvero una storia infinita. Sulla necessità di riconoscere i figli naturali delle unioni miste, senza necessità che il padre cittadino debba necessariamente sposarne la madre, si erano già invano espressi Adelgisio Ravizza nel 1916 e Alberto Pollera nella sua monografia La donna in Etiopia del 1922. Nel 2004 il ministro degli Italiani all’estero Mirko Tremaglia, figlio di un militare morto nel 1942 in Eritrea, in occasione della sua visita all’Asmara spiegò che la Farnesina si stava impegnando per risolvere i problemi posti dalla legge italiana. Ma anche in questo caso le promesse sono cadute ancora una volta nel vuoto.
Ma qualcosa sta finalmente cambiando. Asmara è una città meravigliosa, e siamo stati noi italiani a crearla dal nulla. Da sempre instrumentum regni, l’architettura diventò nelle mani della dittatura fascista un formidabile mezzo di consolidamento del potere e di orientamento delle masse. La fascinazione di queste opere è sopravvissuta alla caduta dell’impero coloniale e ancora oggi, dopo oltre settant’anni, ha qualcosa di sbalorditivo. Edifici come quello della FIAT Tagliero e del Cinema Impero sono ancora lì a esprimere tutta la loro suggestione e bellezza. E fa davvero piacere oggi vedere nell’architettura di Asmara uno dei simboli della rinascita e dell’identità dell’Eritrea. È davvero singolare come uno dei miti del colonialismo diventi oggi uno strumento di educazione e di valorizzazione e, ancora di più, uno dei simboli che alimenta l’immaginario collettivo degli eritrei e il loro senso di nazione.
Asmara sta vivendo una sua seconda vita e a breve (luglio 2017) dovrebbe entrare nel patrimonio dell’UNESCO, e ad Adulis gli archeologi italiani stanno conducendo un’importante campagna di scavi. Questa cittadina portuale affacciata sul Mar Rosso apparteneva alle stazioni dello jus gentium poste fuori dall’impero tolemaico, e in essa sbarcavano merci pregiate dall’Arabia Felix, dall’India, dalla Cina e dall’interno dell’Africa. Fu sepolta nell’antichità da un’immane inondazione del torrente Haddas, ma oggi torna a vivere grazie alle attività di una missione archeologica italiana, che negli ultimi cinque anni si è dedicata alla ricostruzione del suo valore non solo archeologico ma storico e di collegamento con l’altipiano etiopico: quello di Adulis potrebbe diventare a breve un parco archeologico di straordinaria rilevanza, e rappresentare anche un’importante fonte di reddito per la popolazione eritrea.
Anche le Dahlak sono rimaste un paradiso naturalistico e aspettano uno sviluppo turistico equo ed eco-compatibile. Queste isole madreporiche conservano ancora una biodiversità marina incredibile, minacciata dalla pesca di frodo e dall’inquinamento. Sono inoltre una preziosa testimonianza storica della colonizzazione islamica e degli strumenti dell’ingegno umano per procurarsi l’acqua negli ambienti più aridi.
Molte sono le opportunità, ma altrettante sono le minacce per l’Eritrea: i giacimenti petroliferi e di gas presenti off shore vicino alle isole Dahlak e ancora totalmente inesplorati attirano sempre più le multinazionali. Se da un lato lo sfruttamento delle risorse minerarie dell’Eritrea (tra cui rientra anche l’oro) rappresenta una grande opportunità per questo Paese, dall’altro c’è il rischio di una nuova colonizzazione economica che potrebbe comportare, a sua volta, anche una grave compromissione ambientale.
L’Italia continua a rivivere la sua storia all’Asmara, con i suoi caffè e i suoi cinema, con la sua cultura. Gli italiani arrivarono in Eritrea nel 1869 con la Compagnia Rubattino per solcare i mari del mondo, rilevarono la baia di Assab andando a rimorchio delle grandi potenze coloniali europee. L’avanzata nell’entroterra eritreo e in Dancalia comportò violenze, sconfitte e perdite umane. Ma l’Eritrea rimase al centro del grande sforzo coloniale italiano per decenni, e portò alla creazione dell’impero coloniale e all’annessione dell’Etiopia e della Somalia: Asmara divenne la città del futuro, e l’esaltazione patriottica rimosse il lato oscuro della colonizzazione.
Oggi parlare dell’Eritrea significa ricordare al mondo l’importanza storica di un Paese che può tornare a vivere, a prosperare e a raccontare tutto il suo fascino al mondo intero. Facciamolo per le future generazioni, per i giovani eritrei e per la nostra umanità. “Gli eritrei furono splendidi. Tutto quello che potremo fare per l’Eritrea non sarà mai quanto l’Eritrea ha fatto per noi”, ha detto Amedeo Guillet, che con le sue truppe di straccioni indigeni a cavallo continuò a combattere anche dopo la caduta di Cheren.
Oggi l’Eritrea continua a lottare per una propria presenza autonoma nel mondo, contro le sanzioni dell’ONU, contro i tentativi di invasione, contro l’isolamento, le ingerenze e per un Corno d’Africa libero da intromissioni imperialiste, contro le predazioni e le colonizzazioni. Trent’anni di lotta non le sono bastati. Ma la sua forza sta nella sua storia. Il cuore di Asmara batte in nome dell’intero continente africano.