La canzone albanese Moj e bukura more è nota anche con il titolo Lule Lule, preso dal suo ritornello, ma si tratta di un caso curioso di cui parlerò tra poco. La frase significa “O mia bella Morea”.
Morea è un antico nome per il Peloponneso; il Despotato di Morea era una provincia dell’impero bizantino che fu creata a metà del ‘200 e poi conquistata dai turchi nel 1460.
Moj e bukura More è più precisamente una canzone degli arbereshe. Con la conquista dell’Albania da parte dell’impero ottomano nel XV secolo vi fu un esodo di albanesi in Italia, dapprima nel 1460 quando l’imperatore Carlo III, dopo la sconfitta da parte dei turchi e l’invasione del castello di Coroni nel Peloponneso, incaricò Andrea Doria di portare greci e albanesi nella penisola, e in un secondo momento quando un altro gruppo consistente migrò in massa dopo la morte di Scanderberg, il patriota albanese, nel 1467.
I profughi crearono numerosi insediamenti in Puglia, Calabria e Sicilia: queste popolazioni albanesi presero il nome di Arbereshe. 1)
Arberia era infatti uno degli antichi nomi dell’Albania, successivamente chiamata dagli albanesi Sqiperia. Attualmente Arberia indica, senza delineare confini geografici precisi, il complesso delle regioni italiane in cui si ritrova la presenza di comunità albanesi.
La canzone Moj e buka more è stata considerata a lungo un canto di nostalgia per la propria terra perduta, ed è tra le canzoni più diffuse nelle zone arbereshe. Queste popolazioni mantennero fino a tempi relativamente recenti una loro identità culturale, grazie alla conservazione della lingua, del rito ortodosso e della tendenza a sposarsi all’interno della comunità, osservando determinate feste e celebrandole con canti e danze tramandati da generazioni. Questa identità culturale da un lato si è conservata nel tempo, come spesso accade nelle popolazioni che migrano da un posto a un altro, dall’altra si è consolidata negli ultimi due secoli, contribuendo a costruire un senso di patria albanese fortemente voluto dagli intellettuali romantici nel periodo della creazione della nazione albanese.

Andando alla ricerca delle origini di questa canzone, troviamo che il testo viene citato nel 1908 dal filologo, orientalista e albanista Michele Marchianò all’interno della sua opera sui canti popolari. 2) Come egli stesso dichiara, le poesie esposte nella raccolta sono canti già noti e pubblicati da studiosi come Vigo, Camarda, De Rada e altri. A loro volta questi letterati prendono i testi dei canti da tradizioni precedenti più che da una ricerca sul territorio. Per esempio Lionardo Vigo nella sua opera Canti popolari siciliani dichiara: “A lui [monsignor Giuseppe Crispi] e al suo dotto allievo N. Spata, e al loro concittadino Gabriele Dara, devo i canti greco-albanesi che abbellano questa raccolta… I primi sono ricordi dell’antica patria, che amano con amore religioso, tanto che ogni anno a 24 giugno (forse annovale della partenza) sino a pochi anni orsono, soleano ascendere a popolo sul Monte delle Rose, e da lì a’ primi raggi del nuovo giorno, rivolti all’oriente sciogliere lamentevole canto con il triste intercalare: O bella Morea non ti vedremo più”. 3)
In questo volume abbiamo una versione scritta della nostra canzone, con sottotitolo La patria abbandonata.

O’ ebùcura Morée
Cù cuur te gliee nengh te pee;
Atì càm ù zootintàt
Ati càm ù memen t’ime
Atì càm ù t’im velua.
O’ ebùcura Morée
Cù cuur te gliee néngh te pee

O bella Morea
da che ti lasciai, non ti vidi più 4)
Quivi trovasi mio padre,
Quivi la madre mia,
Quivi i miei fratelli sepolti vi ho lasciati 5)
O bella Morea
Da che ti lasciai non ti vidi più

Qui possiamo vedere un’altra versione di questo testo, si tratta della riproduzione pubblicata nel 1866 dal filologo arbereshe Demetrio Camarda (1821-1882). 6)
Il testo della canzone è scritto in lingua albanese con caratteri greci. Il fatto di leggere un componimento albanese in caratteri greci dapprima mi ha fatto pensare alla necessaria influenza che due popoli così vicini, e in alcuni casi anche coabitanti nello stesso territorio, devono per forza avere esercitato reciprocamente, magari anche mescolando in parte le proprie tradizioni.
Ma leggendo la prefazione dello stesso Camarda, si scopre che l’alfabeto albanese fu unificato e fissato in una versione ufficiale soltanto nel 1908 al Congresso di Manastir.
Nel travagliato periodo che va dalla seconda metà dell’Ottocento per arrivare, nel 1912, alla proclamazione dell’indipendenza dell’Albania dall’impero ottomano, contestualmente all’aspirazione verso l’autonomia espressa dagli intellettuali albanesi nelle varie aree del territorio, si era molto ravvivato l’interesse al recupero e alla pubblicazione della tradizione popolare albanese in Italia, anche nella prospettiva della creazione di un sentimento di appartenenza.
Sempre più si chiariva “l’urgenza della produzione libraria in lingua albanese, la quale, però, affrontava il serio ostacolo della mancanza di un alfabeto standardizzato. Si esprimeva così il nesso tra l’alfabeto e l’educazione, fondamentale per la costruzione di una coscienza sociale e culturale che doveva tracciare i primi passi dell’esistenza nazionale albanese”. 7)
Nelle zone settentrionali albanesi continuava a essere usato il cosiddetto alfabeto tradizionale dei vecchi scrittori, un alfabeto latino completato da qualche segno speciale che rendesse i suoni non presenti nella lingua latina. Era utilizzato soprattutto dal clero cattolico; i poeti musulmani utilizzavano l’alfabeto arabo, mentre gli autori della parte meridionale albanese usavano l’alfabeto greco.
Gradualmente, all’interno del dibattito intellettuale e politico albanese cominciò a prendere forma l’idea di indire un congresso nazionale, che si occupasse della questione dell’alfabeto connessa ai diversi problemi culturali e politici. L’iniziativa fu presa dal club Unione, di Manastir, che decise di tenere la prima riunione il 14 novembre del 1908 e di chiamare all’appello gli intellettuali da tutte le parti dell’Albania, compresa la zona arbereshe d’Italia.
Il 22 novembre è stato proclamato “giorno dell’alfabeto”, in ricordo della data in cui fu definitivamente concordata la grafia albanese dal congresso di studiosi e linguisti tenutosi a Manastir (che oggi si chiama Bitola e si trova nella Repubblica della Macedonia del Nord).
Ma al di là della storia del testo nella sua espressione documentale, ancora più interessante è un altro aspetto già menzionato di questa canzone, ovvero il fatto che venisse cantata in varie comunità albanesi siciliane e calabresi in un particolare momento dell’anno, la fine della primavera. 8)
Ho chiesto lumi a Francesco Altimari dell’Università della Calabria, il quale mi ha inviato due suoi saggi in cui ricollega la canzone al rito delle Russalle e nei quali indaga sulla probabile origine precristiana di questo mito:

Un po’ tutte le fonti che abbiamo esaminato concordano nel riportare l’uso di questa tradizione in un arco di tempo non ben definito e comunque non prima di Pasqua e oltre la fine della primavera. Un importante elemento di interpretazione è quello fornitoci dal Dorsa, secondo cui il canto Mori e bukura Moré 9) faceva parte dei canti delle Russalle o feste patrie antiche. Il termine resbal (anche nella forma rshal o sbal o rwhal) è diffuso in tutte le aree albanesi e in buona parte dell’area balcanica. In diverse parlate italo-albanesi esso viene oggi adoperato nell’espressione e sbtuna e shales con cui viene comunemente indicato il sabato di Pentecoste. L’origine di questo termine è da ricercare nel latino rosaliae, con cui si indicava nell’antichità, soprattutto in Macedonia, in Grecia e in Italia, la commemorazione dei defunti, che aveva luogo verso la fine della primavera. 10)

Nell’opera Mbi malin e truntafilevet (sul Monte delle Rose) dello scrittore siculo arbereshe Francesco Crispi Glaviano 11) citato da Altimari, viene raccontato il rito tradizionale che gli albanesi di Palazzo Adriano svolgevano il 23 giugno sul Monte delle Rose, per ricordare la patria d’origine, la Morea, che avevano lasciato in seguito alle invasioni degli ottomani. In questa occasione veniva cantato Moj e bukura Morè.
Un’altra fonte più antica, che secondo Francesco Altimari fu la probabile ispirazione per il poeta Crispi Glaviano, è l’opera Rapsodia di un poema albanese, 12) in cui si racconta che la nostra canzone veniva cantata per esprimere il rimpianto e la tenerezza per la patria perduta in occasione di cerimonie che avvenivano “nella primavera, stagione anniversaria della loro migrazione, da sopra i monti del loro paese e col volto all’oriente”.
Anche nell’opera di monsignor Giuseppe Crispi sulle usanze nelle colonie arbereshe siciliane 13) si racconta questo uso di salire sul Monte delle Rose, a Palazzo Adriano, verso la fine della primavera e di cantare Moi e bukura More rivolti verso est.
Vediamo dunque che tutte le fonti concordano nel situare l’uso di questa tradizione in un periodo dell’anno non ben definito, ma che si posiziona tra il momento che precede il carnevale la fine della primavera. 14)
A tale proposito sono molto interessanti le osservazioni di Francesco Altimari in un ulteriore suo contributo, il saggio La ballata del fratello morto e la cavalcata fantastica. 15)
La vigilia della domenica di carnevale secondo il calendario ortodosso è un tempo sacro, chiamato Psycosabbaton, o Sabato delle anime. Nella cultura albanese che segue il rito cristiano ortodosso, ci sono due momenti dell’anno dedicati alla festa dei morti: uno è appunto lo Psycosabbaton, l’altro corrisponde al sabato di Pentecoste (in albanese E shtuna e shalës), che si situa verso la fine della primavera. L’espressione albanese ci riporta, come dicevamo poco sopra, al rito del ricordo degli antenati, le Rosalia, festa delle rose, dette anche Russalle, che veniva praticato in età precristiana in tutta l’area balcanica e anche nell’Italia meridionale. Durante questi riti gli antichi si coronavano di rose e coronavano le tombe dei morti. 16)

Les anciens se couronnaient de rose set ils en couronnaient les morts et les tombeaux, parce que cette fleur, qui dure peu, symbolisait pour eux la vie sitôt finie de ceux qui meurent avant le temps. Les Grecs n’employaint pas exclusivement les roses à cet usage; ils recouraient aux fleurs de la saison…Cet usage fut répandu en Italie plus qu’en Grèce, à ce point qu’on appeal rosalia les fêtes des morts. Celles-ci avaient lieu à la fin du printemps; le jour était laissé au choix de la famille ou de la confrérie..L’usage des rosalia est très répandu, principalement en Macédonie.

Qui val la pena di ricordare brevemente che con il processo di cristianizzazione la commemorazione degli antenati, che nelle tradizioni dell’area mediterranea avveniva a fine primavera, viene inquadrata in un periodo sacro più ampio coincidente con il periodo pasquale e con il passaggio rigenerante dall’inverno alla primavera.
Come momento di avvio dell’intero periodo pasquale si situa il Sabato delle anime, Psycosabbaton, di cui abbiamo parlato prima. In questo arco di tempo, secondo le tradizioni popolari religiose di queste genti, i morti tornano tra i vivi. Tradizione, tra l’altro, testimoniata anche in altre aree dell’est europeo: per gli antichi slavi il risveglio della natura era dovuto agli antenati che si ridestavano attraverso la vegetazione. 17)
È difficile non pensare al collegamento tra queste tradizioni e il mito di Demetra e Core. La dea Demetra è divinità antichissima collegata al mito della Grande Madre, precedente all’instaurarsi del patriarcato: parliamo quindi di più di cinque millenni avanti Cristo.
Demetra, madre di Persefone, detta anche Core, è la dea dell’agricoltura e delle messi. Quando la figlia scompare, dapprima la madre si mette a cercarla dappertutto; ma venendo a sapere che Persefone è stata rapita dal re degli inferi, Ade, e che Zeus è intenzionato a dargliela in sposa, Demetra per il dolore e la collera decide di far appassire ogni pianta, provocando una spaventosa siccità e mettendo a rischio la sopravvivenza di tutti i viventi.
A questo punto Zeus invita Ade a restituire Core al mondo dei vivi, ma deve scendere a patti con Ade, il quale ha dato da mangiare a Core un chicco di melograno, cibo dei morti, legandola a sé per sempre. In base al compromesso, Core potrà tornare sulla terra sei mesi all’anno (la primavera e l’estate) e dovrà tornare negli inferi per altri sei mesi (autunno e inverno).

Demetra.

Il periodo della primavera è quindi il momento in cui si aprono le porte del regno dei morti e si lascia risalire Core. Molto interessante il collegamento con l’usanza di sotterrare in inverno una bamboletta di spighe per disseppellirla in primavera: il rito sopravvisse nelle campagne anche in epoca classica, ed è illustrato da pitture vascolari dove si vedono uomini che con le picche liberano Core da un monticello di terra, oppure aprono la testa della Madre Terra con le scuri. 18)
Quanto detto si lega armoniosamente alle tradizioni mediterranee e orientali che vedono questo momento dell’anno come un momento di convivenza dei vivi con i morti.
La canzone di cui ci stiamo occupando ha quindi profondi legami sia con il culto dei morti, sia con le canzoni d’esilio. Una terza valenza di questo canto è quella sviluppatasi nel corso del XIX secolo tramite il cosiddetto romanticismo albanese, che operò in senso prettamente intellettuale per realizzare uno slittamento di senso dalla tradizione popolare folclorica e religiosa nella direzione dell’affermazione patriottica, e nella costruzione di una emancipazione politica e culturale della nazione albanese, come abbiamo già accennato parlando del problema dell’unificazione dell’alfabeto. In tal senso le antiche tradizioni conservatesi nella penisola italiana contribuirono alla costruzione di una identità culturale della nuova Albania.
Come afferma Mircea Eliade, nelle società in cui il mito è ancora vivo vanno distinti i miti, o storie vere, dai racconti, o storie false. La caratteristica dei miti, rispetto alle storie, è che devono essere cantati o rappresentati soltanto in momenti particolari, durante il “tempo sacro”, nel periodo che ricorda l’origine. La potenza del rito risiede nel fatto che può far rivivere il mito originario; la comunità lo riattualizza rinforzando la propria identità e unità etnica. 19)
A questo proposito, come osserva la studiosa Eda Derhemi, “è interessante vedere come il valore simbolico del canto sia condotto senza contraddizioni, dagli elementi luttuosi legati al contenuto originario del canto funebre, per il padre, la madre e il fratello defunti, alla nostalgia per la patria”. 20) Un passaggio arricchito in anni recenti di una nuova sfumatura, la nostalgia dei migranti albanesi dopo gli anni ‘90 per l’Albania di adesso: “Da commemorazione funebre, il canto era diventato un canto patriottico di arbereshe; mentre ora viene reinterpretata sulla base dell’identificazione della vecchia patria degli arbereshe con la nuova patria dei non arbereshe, ed è cantata dallo stesso immigrato”. 21)
Nella mia ricerca ho ascoltato molte versioni di questa canzone, e ho verificato l’esistenza di molte varianti sul piano lessicale che rendono difficile stabilire con certezza il tempo e il luogo in cui è nata. Quello che si può affermare è che la presenza del ritornello Lule Lule (o Lule Lu) indichi un periodo successivo rispetto alla versione originale senza ritornello.
Da notare anche l’esistenza di versioni di Lule Lule come canzone a sé stante. Non solo, esistono anche altre canzoni arbereshe in cui il ritornello è Lule Lule.
Presento qui il testo che ho trovato più frequentemente dell’intera canzone, con il ritornello: 22)

Moj e bukura more
Si të lash e më stë pash
Moj e bukura more
Si të lash e më stë pash
Si të lash, si të lash
Si të lash e më stë pash
Si të lash, si të lash
Si të lash e më stë pash
atje kam une zonjen meme
atje kam untim at
atje kam atje kam atje kam
edhe tim vella
Moj e bukura more
Si te lash e me ste pash
Moj e bukura more
Si te lash e me ste pash
E lule-lu
E lule-lule, macë-macë
E u per tij
E u per tij dal pace
E dal pac
E dal pac q ështe e vertetë
Se zemra i
Se zemra ime je ti vete

O bella Morea
ti ho lasciata, e non t’ho più vista
o mia bella Morea
ti ho lasciata, e non t’ho più vista
ah, come ho fatto a lasciarti, 23)
come ho fatto a lasciarti e non t’ho più vista
come ho fatto a lasciarti,
come ho fatto a lasciarti e non t’ho più vista.
Lì, ho io la signora madre
lì ho mio padre
lì ho, lì ho, anche mio fratello
O bella Morea,
ti ho lasciata e non t’ho più vista,
o Bella Morea,
ti ho lasciata e non t’ho più vista.
o fiore, fior,
o fiore, fior a mazzi mazzi,
perché io per te,
perché io per te uscirò pazza,
ed esco pazz,
ed esco pazz è la verità,
perché il mio amore,
perché il mio amore sei proprio tu.

Di questa canzone si trovano molte registrazioni; alcune – forse le più antiche – sono prive di ritornello e in genere eseguite da un coro polifonico arbereshe e senza l’intervento di strumenti.
Eda Derhemi sottolinea come nella canzone siano presenti prestiti dall’arabo che deriverebbero per assonanza dall’italiano: 24) e ndala pak, anche in altre versioni come e dal pazz’ o e ndala pazz o anche dal pace, dal pac sarebbe mutuato dall’espressione italiana “uscire pazzo”.
Interessante per noi è soprattutto il fatto che nella canzone tradizionale sia stato aggiunto, non si sa quando, questo ritornello che snatura completamente il senso funebre della canzone O e bukura Morea, inserendo l’elemento erotico della canzone d’amore. Il fatto che siano presenti delle espressioni arabe potrebbe far pensare a una derivazione moresca successiva all’insediamento degli arbereshe in Sicilia, oppure potrebbe ricondurci a un periodo antecedente al loro trasferimento dall’Albania all’Italia in una fase di compresenza con la realtà dell’impero ottomano.

L’esodo albanese si compie principalmente nel XV secolo, al tempo in cui gli ottomani appaiono e iniziano a radicarsi in Albania… l’esodo si verificò dunque in un periodo di transizione, di passaggio dalla vita cristiana bizantina alla vita turco-orientale. Le tracce di questa transizione sono visibili al meglio nella lingua e nella poesia popolare degli Arbereshee d’Italia… nella poesia italo-albanese si conserva l’epoca del medioevo pre-turco dell’Albania e, connessa ad essa, la prima epoca turca. 25)

L’antichità dei canti, come dei testi, sarebbe testimoniata dalla loro presenza presso popolazioni di zone diverse, la Sicilia e la Calabria, per esempio.

“Un’ulteriore testimonianza della [loro] antichità è la forma esteriore, il verso… Com’è noto, la poesia dei popoli neolatini, nello specifico la poesia italiana, si basa principalmente sulla rima e sul numero di sillabe, da cui l’accento è in totale dipendenza. Il verso della poesia albanese in Italia non si basa né sul numero delle sillabe, né sulla rima. Esso si basa su un principio metrico completamente diverso, quello del ritmo. 26)

Senza addentrarci nella trattazione di Eqrem Ҁabei, che rischia di diventare un po’ troppo tecnica per questo contesto, ci basti sapere che la quantità (lunghezza) delle sillabe nella lingua albanese oggi non è significativa se non presso alcune parlate del sud, mentre si conserva presso gli Albanesi d’Italia anche nella lingua parlata. Ciò suggerisce appunto l’antichità di tali forme poetiche.
Queste ultime argomentazioni, unite alle osservazioni di Eda Derhemi sui prestiti arabi all’interno del testo, suggeriscono nuovi indirizzi di indagine per quanto riguarda la possibile stratificazione temporale che interessa questa canzone.
La versione con il ritornello amoroso Lule Lule è presente in un’interpretazione molto famosa in occidente della Barcelona Gypsy Balkan Orchestra: la melodia e il testo della parte principale della canzone sono però differenti. Ecco il testo: 27)

Ku vate moti
Oj ç’ish nje here
Qe u e ti vashe
Dushime shumë mire
Ku vate moti
Qe nde tru me mbanje
E se disnje nga malli
Nj’ore çe menge me shinje

Dove è andato quel tempo,
c’era una volta,
quando io e te fanciulla,
ci amavamo tanto 28
dove è andato quel tempo,
in cui mi portavi con te 29)
e morivi, dalla mia mancanza,
quando mi vedevi solo un’ora.

Viene da chiedersi se si tratti di due canzoni differenti con lo stesso ritornello, cosa non infrequente nella musica popolare, o se più semplicemente la canzone Moi e bukura More non avesse originariamente il ritornello, ma l’avesse mutuato in un secondo tempo dall’altra canzone. Questa seconda ipotesi mi sembra più plausibile, visto che il contenuto amoroso del ritornello Lule Lule non ha alcun nesso con l’originario contenuto funebre del brano.

 

N O T E

1) “Arbereshe è la forma rotacizzata di Arbenesh, albanesi”. Martin Camaj, Albanian grammar, 1984.
2) Michele Marchianò, Canti popolari albanesi delle colonie d’Italia, Foggia 1908. Michele Marchianò è lo scopritore del cosiddetto Codice Chieutino, un importante manoscritto del 1708 opera di don Nicolò Figlia, un sacerdote di rito greco-bizantino originario della comunità albanese di Mezzoiuso, una delle più antiche e vivaci comunità arbereshe della Sicilia, che contiene una raccolta quasi completa di canti tradizionali italo-albanesi. Si veda Nicolò Figlia, Il codice Chieutino, edizione critica e concordanza a cura di Matteo Mandalà, Comune di Mezzoiuso 1995.
3) Canti popolari siciliani raccolti e illustrati da Lionardo Vigo, Tipografia dell’Accademia Gioenia, Catania 1857.
4) Il Vigo segnala: “Nota salmo 136 sulla cattività babilonese”.
5) Di nuovo il Vigo: “Nota paragone con Odissea lib 3 v. 109”.
6) Demetrio Camarda, Appendice al Saggio di Grammatologia Comparata Sulla Lingua Albanese, Tip. Alberghetti, 1866.
7) Esmeralda Hoti Dani, Le istituzioni educative in Albania dal 1878 al 1913. Il ruolo della manualistica scolastica nella formazione dell’identità nazionale albanese, 2014.
8) Vedi più sopra la citazione di Vigo.
9) sic.
10) Francesco Altimari, Mito e folclore nell’opera di Francesco Crispi Glaviano, Atti del X Congresso Internazionale di studi albanesi, Palazzo Adriano 1982.
11) Francesco Crispi Glaviano, Mbi malin e truntafilevet, Centro Internazionale di Studi albanesi, Palermo 1963.
12) Rapsodie d’un poema albanese, raccolte nelle colonie del Napoletano, tradotte da Girolamo De Rada e per cura di lui e di Niccolò Jeno de’ Coronei ordinate e messe in luce, Tipografia di Benito Nencini, Firenze 1866.
13) Mons. Giuseppe Crispi, Memorie storiche di alcune costumanze appartenenti alle colonie albanesi di Sicilia, Palermo 1853.
14) Francesco Altimari, cit. pag.79.
15) Francesco Altimari e Giovanna Nanci, La ballata del fratello morto e la cavalcata fantastica, in Omaggio a Girolamo de Rada. Atti del V Seminario Internazionale di Studi italo-Albanesi a cura di Francesco Altimari e Emilia Conforti. Università della Calabria, 2003.
16) Dictionnaire d’archeologie chrétienne et de liturgie, tomo 15, parte prima. Libraire Letouzey et Ané, Paris 1950.
17) Altimari cita Bianca Marabini Zoeggler, Il carnevale russo antico in Etnie n. 8 Milano 1984 e La sagra della primavera nella vecchia Russia, Etnie n. 10, Milano 1985.
18) Robert Graves, I miti greci, Longanesi, 1955.
19) Mircea Eliade, Mito e realtà, Rusconi, Milano 1974.
20) Eda Derhemi, La storia della più antica canzone albanese “O e bukura More” e la sua evoluzione. Articolo apparso su BalkanWeb, 20 shathor 2015.
21) Eda Derhemi, cit.
22) Traduzione di Fabio Qemal.
23) L’espressione Si të lash e më stë pash è resa dal traduttore in due modi: dapprima letteralmente “ti ho lasciata”; la seconda in modo più libero, come espressione, grido di disperazione, un pianto per aver abbandonato la propria terra: “quanto dolore ho provato a lasciarti, e poi non ti ho più visto!”
24) Eda Derhemi, cit.
25) Eqrem Ҁabei. Tra gli albanesi d’Italia. Studi e ricerche sugli Arbereshee. A cura di Matteo Mandalà, Besa Muci, 2021.
26) Eqrem Ҁabei. cit.
27) Traduzione di Fabio Qemal.
28) Letteralmente, tanto bene.
29) Letteralmente, mi portavi nel tuo cervello.