Salendo verso le valli del Piemonte sud-occidentale, ci lasciamo alle spalle paesi che hanno perso negli ultimi settant’anni la funzione di cerniera identitaria tra la pianura e le zone montane. Queste ultime, un tempo crocevia d’incontro tra le valli, fungevano da teatro dei rapporti tra le popolazioni autoctone avvenuti su cresta piuttosto che a fondo valle. Gli interscambi e i flussi migratori, fino a un decennio dopo la fine della seconda guerra mondiale, si svolgevano a cavallo dei confini politici tra gente che possedeva una lingua, una cultura e una fede simili.
La cesura politica e il cosiddetto boom economico su entrambi i lati di questo confine spostarono, di fatto, l’antropizzazione verso la pianura con il conseguente e inevitabile oblio della peculiarità linguistica. Inoltre (e lungi dall’essere filo germanisti) le valli provenzali cisalpine soggette al diritto romano sono state depauperate dalle conseguenze del frazionamento della proprietà che riguardavano i fabbricati alpini.
In Alto Adige, invece, attraverso l’istituto giuridico del “maso chiuso” (Geschlossener Hof) nato dal diritto germanico, si è scongiurata la frammentazione fondiaria. Il termine Hof designa, approssimativamente, la corte, il podere; la parola maso deriva dal latino medioevale mansio che rappresenta sia la casa sia la famiglia. Incerta è l’etimologia del termine “chiuso”, tuttavia ne suggerisce l’indivisibilità. Alla morte del proprietario, il maso chiuso che è indivisibile con tutte le pertinenze, non si spartisce tra gli eredi ma si trasferisce a una sola persona (l’unico erede o legatario), mentre si regolano i compensi per gli eredi restanti. Così l’unità agraria alla dipartita del capofamiglia non si frammenta come nel diritto romano. L’integrità del podere, della sua capacità di produrre e di mantenere un certo numero di persone, prevale sui diritti degli altri figli. Certo, come ho detto in altri articoli, ciò non manleva da gravi colpe eredi che non hanno avuto il minimo rispetto per la storia familiare.
Per quanto attiene alle valli provenzali cisalpine, molti sono scappati dalla fame, dalla povertà, ma altri hanno volutamente lasciato marcire il loro patrimonio architettonico alpino di raro valore per trasferirsi in anonime costruzioni anni settanta.
Tornando più prettamente alla connotazione linguistica, possiamo dire che il contrasto tra tradizione e modernità è meno irritante solo grazie alla parlata piemontese di Saluzzo, di Verzuolo, di Busca, di Dronero, di Caraglio e di Borgo San Dalmazzo, un tempo “zona grigia”, 1) spartiacque della pregressa isoglossa tra la locuzione piemontese e quella occitanica. Se sociologicamente in pianura è avvenuta una trasformazione che ha fatto il verso alla città, la parlata piemontese ha mantenuto una certa vitalità nei paesi citati e ha sfondato da tempo l’antica isoglossa, erodendo le vecchie propaggini dell’occitanico.
Ciò vuol dire che oggi, facendo un’analisi seria e intellettualmente onesta, parlare di “zona grigia” è ormai un nonsenso o una inesattezza semantica. Quindi sarebbe opportuno certificare la fine di questa “zona grigia” nell’interesse di quanto rimane dell’adstrato linguistico di confine per non continuare a immaginarsi una realtà inesistente.
Studiosi come Corrado Grassi o Tavo Burat illustrarono linguisticamente le valli del sud Piemonte senza scadere nell’ideologia “autonomista” degli anni settanta, che per vent’anni si rivelò un mero velleitarismo. Se tornassero in vita, essi constaterebbero, amaramente, che i loro studi furono trasformati in materia prima per intellettuali autoctoni (o anche no) che, “tenendo famiglia”, ne fecero un uso personale, ad usum Delphini.
In tutto ciò pesa la responsabilità delle sfumature ideologiche d’Oc del Piemonte sud-occidentale, le quali non hanno solo perso, a loro nocumento, la “zona grigia” – che, come si è detto, da oltre un lustro non è più tale – ma si sono ritirate in riserve che loro stesse si sono create. Anni di personalismi, di autoreferenzialità; una minoranza etno-linguistica dilaniata da lotte nate all’interno delle associazioni culturali che hanno sempre tenuto distanti dai loro affari i destinatari della rinascita identitaria: vale a dire le genti delle valli, uniche e insostituibili nella loro essenza etnica, eredi della memoria e continuatrici della storia locale. Esse non sono state difese da coloro che nelle sedi accademiche, istituzionali e politiche hanno millantato per decenni di esserne i rappresentanti.
Invero le istanze della montagna – a parte la “voga passeggera occitanista” (così la definì lo storico Eric Hobsbawm) che fece il verso all’autonomismo mondialista d’oltralpe, di passaggio in Val Varaita con François Fontan – si risolsero in ”grida” intellettualistiche in salsa sinistroide. Cosa che non si sposava affatto con il sentire della gente delle valli! Questa realtà, che si registra nelle osservazioni delle evoluzioni antropiche, dovrebbe portare i linguisti professionisti a riconsiderare, ex novo, le aree di presenza linguistica ferme statisticamente a qualche decennio fa. Penso ai “Quaderni di Ricerca” (Lingue del Piemonte) dell’IRES 2007, che sovrastimavano il numero dei locutori, o a chi dichiarava di comprendere le lingue delle minoranze facenti parte della legge di “tutela” 482/99. In più occasioni abbiamo dimostrato che detta legge ha affermato lo scollamento tra le garanzie della stessa e la loro (mancata) ricaduta sul territorio. L’espresso riferimento del testo alla “popolazione parlante l’occitano”, che avrebbe vagheggiato un’inesistente Occitania, la dice lunga sul taglio ideologico avvenuto nella fase istruttoria e preparatoria a nocumento di quella che più propriamente avrebbe dovuto essere chiamata “popolazione parlante il provenzale alpino”.
Prescindendo dalla querelle nominalista, chi scrive coltiva da anni l’identità provenzale alpina e non nega di aver sposato, per qualche tempo, nel solo interesse degli autoctoni, anche la causa opposta. Per questo riconosce che oggi la bandiera linguistica piemontese sventola a pieno diritto dall’imbocco delle valli (ex occitaniche) risalendo le stesse. Essa riempie gli spazi vuoti lasciati dall’arretramento della lengo d’Oc, soffocata anche dalla sterile autoreferenzialità delle sue associazioni che si sono cullate in un’egemonia culturale persa da tempo. Non bastano i concerti di agosto al Santuario di Castelmagno o, per par condicio, i pellegrinaggi provenzali a dimostrare l’esistenza in vita di una minoranza linguistica. E sono convinto che il piemontesismo su questa analisi dovrà riflettere per riconsiderare la sua presenza nelle valli del sud Piemonte e delineare il suo futuro culturale in quell’area.

N O T E

1) Nelle cosiddette Valli Occitane, l’area della bassa valle, dove risiede ormai la maggior parte della
popolazione, viene tecnicamente definita “zona grigia” in quanto – a parte l’italiano – viene utilizzata una sorta di mescolanza tra occitano e piemontese. [NdR]