Stéve sempre dàrente!” Mi saluta così un anziano contadino, abbracciandomi stretta con le mani secche e nodose di chi lavora il “fumo” – ovvero il tabacco – da tutta la vita nella boscaglia del Rio Grande Do Sul in Brasile. E in quella paterna raccomandazione riconosco un dialetto veneto di inizio Novecento, così in disuso da essere quasi sconosciuto anche agli attuali abitanti del Veneto. E sorrido per tanta dolcezza e profondità di sentimento che si cela dietro un mondo così lontano, ma capace di azzerare nella brevità di un saluto ogni distanza di spazio e di tempo.
Quando alla fine dell’Ottocento le condizioni economiche in Veneto erano così precarie e la miseria incombeva nelle famiglie, e nel Brasile del Sud si rendeva necessaria la bonifica geografica di una vasta area selvaggia e incontaminata, i destini di un popolo in fuga dalla fame e di un Paese in attesa di un popolo si incrociarono irrimediabilmente, tramite una delle più massicce e poco conosciute opere migratorie dell’epoca.
Il governo brasiliano intravide in alcuni volenterosi gruppi di origine germanica e triveneta i coloni ideali da trapiantare sui monti del Rio Grande Do Sul, ricoperti di foresta vergine infestata di animali anche feroci e da ogni sorta di insidie. Dal canto suo, il governo italiano guardò con favore allo spostamento di ingenti masse contadine dalla pianura padana alle terre d’oltreoceano, e ne incoraggiò l’emigrazione, decantando i luoghi di destinazione come “terre promesse”, fertili e generose.
Gli attuali pronipoti mi raccontano che ai primi emigranti fu detto che in quelle terre “i salami scendevano dagli alberi”… La realtà fu tristemente diversa: agli emigranti, che avevano venduto tutti i loro averi per trovare in America un riscatto economico e personale, fu dato dal governo un biglietto di sola andata. La traversata fu spesso una fatica, a volte una tragedia, non solo per l’eventualità di un naufragio, ma per le pessime e promiscue condizioni in cui avveniva; e l’arrivo al porto brasiliano non rappresentò che l’inizio di un calvario senza fine.
Ai gruppi tedeschi arrivati per primi furono concesse le zone pianeggianti e facilmente raggiungibili, mentre ai veneti non rimasero che le zone più impervie e montuose. Lo smistamento verso le zone selvagge in condizioni disumane, gli alloggi precari in mezzo alla foresta, le giornate interminabili passate ad abbattere gli alberi nel mato, lasciando i neonati nelle baracche, facili prede delle anaconde attratte dal sentore del latte: queste furono le condizioni di vita dei nostri “taliani”, arrivati in America pieni di speranze per loro e per il futuro dei loro figli.

talian discendenti dei veneti
 

Il dramma del Sirio

Tristemente famoso fu il naufragio del piroscafo Sirio: il 4 agosto del 1906, alle quattro di pomeriggio circa, la nave procedendo a tutta forza si incagliò vicino a Capo Palos poiché teneva una rotta troppo rasente alla riva. La prua fu vista innalzarsi con violenza dall’acqua per via della forte velocità. Questa la testimonianza del comandante della nave francese Maria Louise, che assistette al fatto e partecipò all’opera di salvataggio: “Vidi passare il piroscafo italiano Sirio che navigava a tutto vapore. Facevo notare il suo passaggio al collega di bordo quando osservai che esso si era improvvisamente fermato… Vidi la prua alzarsi, inabissando la poppa. Non vi era più alcun dubbio: il Sirio aveva avuto un urto. Subito feci dirigere il Marie Louise verso il Sirio. Udimmo allora una violenta esplosione: le caldaie erano scoppiate. Poco dopo vedemmo dei cadaveri sulle onde, nello stesso tempo delle grida disperate che chiamavano soccorso giungevano alle nostre orecchie”.
Il tragico naufragio della nave Sirio colpì molto la fantasia popolare che ispirò una stupenda e drammatica canzone entrata nel repertorio dei cantastorie:

E da Genova
il Sirio partivano,
per l’America,
varcare, varcare i confin.
Ed a bordo
cantar si sentivano
tutti allegri
del suo, del suo destin.
Ed a bordo, lerì
cantar si sentivan, lerà
tutti allegri, lerì
del suo destin.
Urtò il Sirio
un orribile scoglio
di tanta gente
la mise-, la misera fin.
Padri e madri
bracciava i suoi figli
che si sparivano
tra le onde, tra le onde del mar.
E tra loro lerì
un vescovo c’era lerà
dando a tutti lerì
la sua benedizion.
E tra loro lerì
un vescovo c’era lerà
dando a tutti lerì
la sua benedizion.

talian discendenti dei veneti
La tragedia del Sirio in una copertina dell’epoca. Il piroscafo, salpato da Genova, aveva imbarcato anche una cinquantina di emigranti spagnoli a Barcellona prima di naufragare al largo di Cartagena, nella Spagna meridionale.

Fu però proprio grazie alla lingua talian e alle tradizioni contadine che i nostri emigrati riuscirono a sopravvivere a una vita tanto dura. Le famiglie si ritrovavano alla sera attorno al fuoco, mangiando i pinoli delle araucarie che furono per molto tempo il loro cibo di sopravvivenza, pregando e facendo filò, ovvero condividendo pensieri, chiacchiere, ricordi e tradizioni; ma soprattutto mettendo in scena, del tutto inconsciamente, un potente antidoto alla paura dell’oggi e del domani, e alla pericolosa perdita di identità e appartenenza.
Nacquero, tra la boscaglia, insediamenti dai nomi familiari come, tra i tanti, Nuova Venezia, Nuova Beluno, Nuova Treviso, e la comunità dei taliani si espanse a tal punto da diventare una importante realtà dello Stato brasiliano.
Anche “el talian”, dopo essere stato proibito durante la seconda guerra mondiale, uscì intatto dal buio culturale del periodo, e fu riconosciuto da parte del governo federale brasiliano come “Patrimonio Culturale Immateriale del Brasile”, prima lingua minoritaria brasiliana a ottenere tale riconoscimento.
La canzone Merica-Merica di Angelo Giusti – dichiarata il 23 dicembre 2015 inno ufficiale della Colonizzazione Italiana nel Rio Grande do Sul in onore a tutti gli emigrati che contribuirono all’enorme sviluppo della regione – ben spiega il loro orgoglio in questi dolcissimi versi:

Dalla Italia noi siamo partiti
Siamo partiti col nostro onore
Trentasei giorni di macchina e vapore,
e nella Merica noi siamo arriva’.

Merica, Merica, Merica,
cossa saràlo ‘sta Merica?
Merica, Merica, Merica,
un bel mazzolino di fior.

E alla Merica noi siamo arrivati
no’ abbiam trovato nè paglia e nè fieno
Abbiam dormito sul nudo terreno,
come le bestie abbiam riposa’.

Merica, Merica, Merica,
cossa saràlo ‘sta Merica?
Merica, Merica, Merica,
un bel mazzolino di fior.

E la Merica l’è lunga e l’è larga,
l’è circondata dai monti e dai piani,
e con la industria dei nostri italiani
abbiam formato paesi e città.

talian discendenti dei veneti
 

Un’antica purezza

E ora che mi trovo qui, nelle cittadine di Dona Francisca, Nova Palma e Garibaldi, ad abbracciare e baciare visi sorridenti, e mangiare poenta e tocio, e crostoi perché siamo a Carnevale, mi sembra di non essermi mai mossa dal mio Veneto. Insieme all’amico Valmor Marasca, cantautore brasiliano di origine italiana i cui avi partirono per il nuovo continente circa 110 anni fa, accompagnati dalle allegre note della sua fisarmonica, cantiamo le canzoni della tradizione in talian: La Bela Polenta, Recordarse dei nostri Bisnoni, Oh Rio Grande, L’oselin de la comare, e le sane risate fanno tanto bene al cuore.
Sotto un grande capannone, al riparo dal sole e dalla calura, si cucinano zampe e ali di gallina in enormi pentoloni; su un grande braciere si mette ad arrostire il churrasco, e la polenta fuma nel paiolo. Tutto in grandi quantità: d’altronde c’è tutta la comunità ad accogliere e dare il benvenuto ai veneti venuti a trovarli da tanto lontano.
Ci scambiamo indirizzi e cognomi, soprattutto per valutare eventuali gradi di parentela, e quando un baffuto militare in pensione di nome Bianchin scopre che faccio Bianchi di cognome, mi porta con entusiasmo su un piccolo palco e mi presenta come la sua parente venuta dal Veneto. Il desiderio di riconoscersi e di sentirsi comunità è talmente forte che una “n” in più è del tutto ininfluente… E questo vale anche per me, che quasi ho dimenticato quanto mi sia necessario e appagante il calore umano. Per suggellare l’incontro, ricevo in dono un paio di orecchini artigianali fatti con piume colorate di un misterioso uccello tropicale, che conservo con commozione come uno dei regali più sinceri ricevuti.
Nonni, bambini, ragazze, madri, tutti insieme balliamo sulle note della fisarmonica di Marasca, e non importa con chi si fa coppia, l’importante è divertirsi. E capisco che le sovrastrutture mentali qui ancora non esistono, ancora ci si diverte a fare i botti con il carburo, e a cantare a squarciagola anche se si è stonati… La semplicità fa davvero rima con felicità, e il rispetto è ancora un grande valore: si lascia il posto a sedere agli anziani, si porta da bere a chi non si può muovere, i ragazzi guardano di nascosto le fanciulle sognando chissà cosa. E il futuro è, almeno nel cuore, una splendida aspettativa.