Il 31 dicembre 2022 all’età di 95 anni l’“umile lavoratore nella vigna del Signore” (così si definì Benedetto XVI, al secolo Joseph Ratzinger, il 19 aprile 2005 dopo l’elezione a pontefice) è tornato alla casa del Padre. Nacque il 16 aprile 1927, giorno del Venerdì Santo a Marktl am Inn in Baviera e ricevette dai genitori e dalla nonna materna (sudtirolese) una formazione cristiana unita all’attaccamento e all’amore per la sua terra. Durante la dittatura nazista fu arruolato per obbligo nella Gioventù Hitleriana, ma riuscì a ottenere una dispensa per gli studi in seminario.
Il padre, ispettore di polizia, fu tra coloro che repressero il primo putsch di Adolf Hitler, e si dimise quando il dittatore tedesco andò al potere.
Joseph venne ordinato diacono e presbitero il 29 giugno 1951, insieme con il fratello maggiore Georg, dall’arcivescovo Michael von Faulhaber.
Nel 1953 discusse la tesi di dottorato in teologia ­– Casa e popolo di Dio in Agostino – e successivamente divenne professore all’Università di Bonn. Membro del movimento liturgico tedesco, ebbe come sicuro riferimento il filosofo e teologo italiano naturalizzato tedesco Romano Guardini. Professore di Teologia dogmatica all’Università di Tubinga, partecipò come esperto dell’episcopato tedesco e teologo personale del cardinale Joseph Frings alle sessioni del Concilio Vaticano II. Collaborò in tale consesso con il gesuita Karl Rahner, ma si rese conto che sotto il prfilo teologico vivevano su due pianeti diversi, e la distanza aumentò negli anni. Nei confronti del Vaticano II, dopo l’enfasi iniziale, fu in seguito critico e stigmatizzò il liberalismo che si era imposto soprattutto nel post Concilio.
Intervistato del 1992 dal vaticanista Marco Tosatti, sostenne che i colleghi progressisti avevano offerto “fondi di magazzino liberali come teologia cattolica”. Anche per questi giudizi, in molti seminari gli studenti sorpresi a leggere i suoi libri considerati “dannosi” vennero esclusi dal sacerdozio.
Nel 1985, nel libro-colloquio con Vittorio Messori Rapporto sulla Fede indicò nella “post-conciliarite” la malattia della Chiesa, ma aggiunse che “il Vaticano II ha la stessa autorità del Tridentino e del Vaticano I” e che “è impossibile essere pro Trento e Vaticano I e contro il Vaticano II”.
Si affrancò dalla rivista “Concilium” che aveva collaborato a fondare nel 1964, diventata ormai troppo progressista; e nel 1972, insieme ai teologi Henrie-Marie de Lubace e Hans Urs von Balthasar, fondò la rivista moderata “Communio”.
Il 25 marzo 1977, Paolo VI lo nominò arcivescovo di Monaco e Frisinga, e il 28 maggio ricevette l’ordinazione episcopale scegliendo il motto Ut cooperatores simus veritatis (noi dobbiamo innalzarci a tal punto da essere cooperatori della verità). Paolo VI, nel Concistoro del 27 giugno 1977, lo nominò cardinale. Chiamato a Roma da Giovanni Paolo II, strinse con il papa polacco un forte sodalizio. Karol Wojtyla lo nominò prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede (dal 1981 al 2005).

Prefetto per la Congregazione della Dottrina della Fede dal 1981 al 2005.

Ratzinger fu il Deus ex machina del Catechismo della Chiesa Cattolica del 1993: un enorme lavoro che venne alla luce solo grazie alle sua capacità. Nel 2001 parlò di “odio dell’Occidente per sé stesso” a causa del rifiuto categorico, soprattutto della Francia di Chirac, di citare le radici cristiane nella bozza preliminare della costituzione europea. Lottò contro la teologia della liberazione, in sintonia con papa Wojtyla.
Fu determinante specie in America Latina nell’allontanare il cattolicesimo dall’utopia marxista, crollata con il muro di Berlino. Dopo la sua elezione a papa, il quotidiano comunista “il Manifesto” lo omaggerà in prima pagina dell’insulto ben poco mascherato di “Pastore tedesco”…
Contrastò gli abusi liturgici, nonché le deformazioni arbitrarie della liturgia, al limite del sopportabile, nate dal cosiddetto “spirito del Concilio”: per questo scrisse nel 2000 Introduzione allo spirito della liturgia. Sempre nel 2000, firmò il documento Dominus Iesus della Congregazione per la Dottrina della Fede, dove ribadì il primato del cattolicesimo sulle altre confessioni cristiane e su altre religioni, non considerandole però prive di verità.
Il Venerdì Santo del 2005, negli ultimi giorni di vita di Giovanni Paolo II, durante la Via Crucis al Colosseo parlò di “sporcizia” nella Chiesa, chiaro riferimento a quei porporati che offendevano il ruolo di servitori di Dio. Ratzinger lasciò intendere che (anche grazie a lui) di lì a poco sarebbe scoppiato il caso degli abusi sessuali, perpetrati da uomini in seno all’istituzione ecclesiastica.
Il 8 aprile 2005, celebrando le esequie di Giovanni Paolo II, esaltò i quasi ventisette anni del suo pontificato. Il 18 aprile, nell’omelia della Missa Pro Eligendo Romano Pontifice, a detta di molti sembrò tracciare le linee guida per il prossimo pontificato e il 19 aprile venne eletto 265esimo Romano Pontefice e Vicario di Cristo.
La Baviera e il Sudtirolo esultarono; ma quella parte dell’episcopato germanico che rappresentava (e rappresenta) una spina nel fianco per Roma, soprattutto con i cardinali Lehmann e Kasper, non gioì per l’elezione di un tedesco dopo quasi mille anni (l’ultimo era stato Clemente II).
Ratzinger scelse di chiamarsi Benedetto, sia per la stima verso il predecessore Benedetto XV, pontefice durante la prima guerra mondiale, sia per amore verso San Benedetto e la sua regola che avevano plasmato l’Europa spiritualmente e materialmente fino all’avvento funesto della rivoluzione francese.
Nel suo primo discorso alla Curia romana, il 22 dicembre 2005, criticò l’ermeneutica della frattura tra il passato millenario della Chiesa e il Concilio Vaticano II, dicendosi a favore di una riforma nella continuità.

L’islam e i suoi complici

Il primo atto del suo pontificato si rivelò immediatamente problematico. Il 12 settembre 2006, in uno dei suoi primi viaggi all’estero, tenne una lectio magistralis all’Università di Ratisbona – dove aveva insegnato – sul tema “Fede e scelta religiosa alla luce della ragione”. Nella lezione affermò che la Chiesa avrebbe dovuto riconsiderare le sue radici ebraiche e greche, poiché il Vangelo aveva preso forma dal contesto ellenista. Il cristianesimo, disse, “provenne dalla Rivelazione biblica, dalla Fede in Dio associata alla razionalità umana, alla filosofia, alla scienza, ed ebbe un rapporto speciale con l’Occidente, progetto provvidenziale nel legame tra fede e ragione”.
Citò poi il dialogo tra l’imperatore bizantino Manuele II Paleologo e un dotto persiano riguardo alla figura di Maometto: “L’imperatore fece una domanda all’interlocutore sul rapporto tra religione e violenza: ‘Mostrami ciò che Maometto ha portato di nuovo e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che predicava’”. Un passaggio inserito quindi all’interno di un discorso molto articolato che non condannava l’islam come intrinsecamente violento, ma qualsiasi violenza in nome della fede.
Estrapolando pretestuosamente il discorso e travisandone il senso (coda di paglia?), i musulmani si inalberarono.
Immediatamente si scatenò uno scandalo mediatico a livello mondiale. Il papa fu insultato in tutti Paesi islamici e preso di mira anche in Occidente, a cominciare ovviamente dall’élite progressista del “New York Times”. Le chiese vennero assalite in Oriente e in Africa; in Somalia, una suora cattolica al servizio dei poveri orfanelli del luogo fu massacrata e uccisa. Ci volle del tempo prima che si placassero le ire dei musulmani, anche se la Chiesa cattolica (la sola sempre pronta a scusarsi al di là delle sue effettive colpe storiche) aveva chiarito definitivamente il suo punto di vista.
A parte questo incidente, Benedetto XVI, la domenica all’Angelus e i mercoledì, nell’aula Paolo VI, proseguì la sua opera pedagogica spiegando ai fedeli i Santi, gli Apostoli, i Discepoli, i Padri e i Dottori della Chiesa attraverso una catechesi studiata dai teologi di tutto il mondo e depurata dai noiosi predicozzi dei convegni sociologico-pastorali.
Nel Motu Proprio Summorum Pontificum del 7 luglio 2007, promosse il rito “straordinario” della Santa Messa tradizionale in latino, per secoli “fonte di vita spirituale” per tanti popoli, “cibo di tanti santi”, e il ritorno al canto gregoriano, usati prima del Vaticano II.
Ma facciamo un momentaneo balzo al 16 luglio 2021: il Motu Proprio Traditionis custodes di Bergoglio, sottomettendo di nuovo l’autorizzazione del rito in latino all’umore dell’Ordinario di turno, ha sconfessato l’intento di Benedetto e represso la fedeltà alla liturgia tradizionale. Un giornalista del quotidiano cattolico tedesco “Die Tagespost”, Guido Horst, ha chiesto a monsignor Georg Gänswein, segretario di Ratzinger: “Come ha reagito Benedetto XVI al Motu Proprio Traditionis custodes, ne è rimasto deluso?” Il presule ha risposto: “Lo ha colpito molto duramente, credo sia stata una ferita nel suo cuore”.

L’ateneo della vergogna

Torniamo al periodo del suo pontificato. Nel 2008 Benedetto XVI applicò una “sanatoria” per aver concorso indirettamente alla scomunica (decisa latae sententiae da papa Giovanni Paolo II) di monsignor Marcel Lefebvre.
In qualità di prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, lo incontrava spesso per regolare canonicamente la sua Fraternità Sacerdotale San Pio X. Il monsignore, visto il continuo rinvio decisionale del papa e le condizioni poste dalla Santa Sede, non si era fidato dell’esito della trattativa e aveva consacrato senza placet papale quattro vescovi, e non “uno solo” giusta i voleri del pontefice, pur sapendo che ciò avrebbe portato alla scomunica.
Censura che lo colpì puntualmente non avendo obbedito (canonicamente), ma senza essersi mai macchiato (canonicamente) d’eresia. Lefebvre morì fuori dalla Comunione con la Chiesa, nel 1991, non negando alcuna verità di Fede ma testimoniandola come presule: sarà sottoposto al giudizio di Dio e alla sua misericordia. Divenuto papa, Ratzinger revocò nel 2008 la scomunica ai quattro vescovi della fsspx ordinati da Lefebvre nel 1988.
L’episcopato francese l’accusò d’aver negato la Messa di Paolo VI. Segmenti della comunità israelitica accolsero con sfavore la preghiera per la salvezza d’Israele nel Rito del Venerdì Santo, nonostante la modifica del papa. E qui, per non incorrere nell’ipocrisia del politicamente corretto, si deve rivendicare il sacrosanto diritto della scelta liturgica alla Chiesa cattolica ed esclusivamente a essa.
Nel 2008, Benedetto XVI avrebbe dovuto tenere una lectio magistralis all’Università La Sapienza di Roma (fondata nel 1303 da Bonifacio VIII), ma gli studenti e i professori di fisica dell’ateneo, compreso il futuro premio Nobel per la fisica Giorgio Parisi, ne impedirono di fatto la visita. Egli si ritirò in buon ordine, nel suo stile: mansuetudine contro violenza.
Ratzinger stigmatizzò gli abusi sessuali e le omertà da parte di alti esponenti della gerarchia ecclesiastica, invitando a un più severo discernimento circa l’ammissione ai seminari di persone con tendenze omossessuali.
Sollecitò le diocesi americane a risarcire le vittime di abusi sessuali degli ecclesiastici sui minori (“l’11 settembre della Chiesa”, secondo il suo segretario Gänswein) riconoscendo la giustizia dei tribunali laici. Nel marzo del 2010 condannò gli abusi sessuali nella Chiesa d’Irlanda e la superficiale gestione del problema da parte di quell’episcopato.
Il suo magistero produsse tre Lettere Encicliche: Deus Caritas est (2005), Spe Salvi (2007) e infine Caritas in Veritate (2009). I viaggi apostolici furono 24, il primo a Colonia per la XX Giornata Mondiale della Gioventù nel 2005 dove, primo papa nella storia, entrò in una sinagoga tedesca; poi, nel maggio 2009, affisse un biglietto sul Muro del Pianto a Gerusalemme. Il 23 settembre 2011, come vescovo di Roma, visitò l’ex convento agostiniano di Erfurt dove Lutero aveva studiato teologia, e in quella sede citò la “lotta interiore in sé stesso” dell’iniziatore della cosiddetta riforma.
L’ultimo viaggio di Benedetto XVI fu in Libano del 2012 (già nel penultimo, a Cuba, gli era stato sconsigliato dai medici di viaggiare ancora).

Rinuncia al ministerium

L’11febbraio 2013, un lunedì durante un concistoro, quasi al compiersi dell’ottavo anno di papato, Joseph Ratzinger annunciò ai cardinali con la Declaratio la propria rinuncia al ministerium di vescovo di Roma, successore di San Pietro, con effetto dal giorno 28 dello stesso mese, per “ingravescente aetate”. Il verbo ingravescere significherebbe l’ineluttabile azione dell’età che “grava e pesa sempre più sulla persona”. Calò il silenzio da parte dei cardinali. Il mondo, non solo cattolico, restò impietrito e stupito di fronte a tale gravissima decisione, canonicamente valida ma inedita in età moderna.
Era addirittura dai tempi dello scisma d’Occidente che non avveniva una rinuncia al papato (Gregorio XII, al secolo Angelo Correr). Nella storia della Chiesa la più famosa rinuncia fu naturalmente quella di papa Celestino V, al secolo Pietro da Morrone, il quale dopo appena cinque mesi, nel 1294, rinunciò alla Cattedra di San Pietro e abbracciò l’eremitaggio.
Benedetto XVI nell’ultima udienza pontificale, il 27 febbraio 2013 davanti a 150mila persone e al mondo, dichiarò di non “aver abbandonato la croce” e di voler restare in “modo nuovo” presso il Signore. Spiegò le ragioni di un gesto della cui “gravità” e “novità” si disse consapevole, ma compiuto con “profonda serenità d’animo” e con “grande fiducia” nella Chiesa. Ricordò il giorno della sua elezione, nel 2005, e sottolineò in modo sibillino che l’impegno preso allora era – e rimaneva – “per sempre”.
Al proposito c’è una tesi interessante espressa dal filosofo Enrico Maria Radaelli che chiede: “Cosa vuol dire ‘essere papa’? Come il sacerdote riceve uno status – l’ordine del sacerdozio – che è eterno, in quanto riceve dal vescovo la partecipazione al sacerdozio di Cristo che è sacerdos in aeternum, così il papa riceve da Dio il munus spirituale: è Vicario di Cristo e Capo della Chiesa, è in eterno, solo Dio può toglierlo dal ruolo con la morte del corpo”.
Il rinunciante conservò il nome Benedetto XVI, usò il titolo di “papa emerito” (neologismo ecclesiale) e restò con la veste papale bianca nel recinto di San Pietro tra le mura vaticane, nel monastero Mater Ecclesiae.
Nella storia della Chiesa, mai era mai accaduto che in Vaticano ci fossero due papi: uno regnante, uno “emerito”. In una lettera del 9 novembre 2017, Ratzinger rispose a una critica del cardinale Walter Brandmüller circa l’introduzione della figura del “papa emerito”. Egli pensò di togliere ogni dubbio sul perché non era tornato a essere cardinale dicendo: “Nel mio caso, sicuramente non avrebbe avuto senso semplicemente reclamare un ritorno al cardinalato. Allora sarei stato costantemente esposto al pubblico nel modo in cui un cardinale lo è”.

Il cardinale Joseph Ratzinger e Giovanni Paolo II.

Dietro le quinte

Dal monastero Mater Ecclesiae, negli ultimi anni di vita accordatigli dal buon Dio dopo la rinuncia, Benedetto XVI fece sentire, selettivamente e su temi di rilievo, non solo un flatus vocis ma il suo autorevole punto di vista.
Riparò, per quanto possibile, a talune estemporaneità di Bergoglio: rari e mirati interventi. Quando intervenne cercò di attenersi con scrupolo ad argomenti teologici e storici piuttosto che alle controversie in seno alla Chiesa, anche se purtroppo negli ultimi anni diventò difficile evitarle.
Il cattolicesimo, noto per la sua continuità magisteriale, sentì proferire da parte del papa regnante, specie nei primi anni di pontificato, affermazioni evanescenti; fattori che contribuirono non poco allo smarrimento dei fedeli. In tale contesto fu difficile per Benedetto restare in silenzio. Per molti cattolici “alla macchia” sapere che egli era in vita rappresentò una piccola consolazione, in momenti di sbando magisteriale.
La causa dello smarrimento del gregge della Chiesa fu la sua rinuncia che, come dice Aldo Maria Valli, è stata fatta sulla strada dell’efficientismo, germe del secolarismo in netta antitesi con tutti i suoi insegnamenti pregressi… rinuncia che ha portato al pontificato di Francesco.
Nell’aprile 2019 il “Corriere della Sera” pubblicò un articolo del papa “emerito”, preso dalla rivista bavarese “Klerusblatt”, a proposito della piaga degli abusi sessuali nella Chiesa cattolica. Egli fece un’analisi sulla nascita e il dilagare di questo crimine e lo mise in relazione anche con il collasso morale del ’68, che aveva deturpato non solo la società ma anche la vita ecclesiastica, soprattutto nel Nordamerica. L’analisi creò un attrito con Bergoglio, attento alle “invasioni di campo”. Le osservazioni di Benedetto toccavano un nervo scoperto – le contaminazioni del mondo sulla Chiesa – che il cardinale argentino, divenuto papa, invece favoriva.
Le divergenze tra Francesco e Benedetto furono gestite con buon senso e le piccole o grandi divergenze restarono ben dissimulate.
Il secondo episodio di rilievo fu l’uscita in Francia nel gennaio 2020 del libro Dal profondo del nostro cuore, scritto da Benedetto e dal cardinale Robert Sarah, che creò un caso editoriale e una polemica con Bergoglio.
L’intervento degli autori prima dell’uscita dell’Esortazione post-sinodale Querida Amazonia – nel timore che papa Francesco aprisse al matrimonio sacerdotale attraverso il “cavallo di Troia” del Sinodo dell’Amazzonia – fu provvidenziale. Lo scopo prefissato del saggio fu raggiunto a un passo dal precipizio nel quale la Chiesa sarebbe inesorabilmente caduta. Il papa regnante, senza argomenti da opporre a tale capolavoro teologico che smontava l’ipotesi ventilata soprattutto da parte del clero tedesco, non concesse alcuna apertura al matrimonio dei preti.
Così gli eterodossi conclamati, con a capo il cardinal Reinhard Marx, che tramavano per scardinare la dottrina attraverso “il piede di porco” del Sinodo, dopo aver tentato di influenzare (inutilmente) il papa si ritirarono.
Benedetto XVI, fino alla fine dei suoi giorni, non finì di stupire. Nel giugno 2020 visitò in forma privata, in Baviera, il fratello 96enne Georg malato da tempo. Accompagnato dal fedele segretario Georg Gänswein, tornò nei luoghi di famiglia che non vedeva dal 2006, anno della visita ufficiale in patria. Si recò al cimitero di Ziegetsdorf, dove riposano i genitori e la sorella, poi nella sua casa di Pentling, e dopo qualche giorno tornò nel monastero Mater Ecclesiae.
Il 31 dicembre 2022, come si è detto, Benedetto XVI lasciava questa terra. Al suo funerale, celebrato dal cardinale Re e con l’omelia di Francesco, hanno partecipato centinaia di migliaia di fedeli che hanno gridato “santo subito”, segno dell’amore per questo papa, il quale attraverso la divulgazione del messaggio di Cristo ha cercato di fare uscire l’umanità dall’oscurità della non esistenza.
Fu un papa che servì la Chiesa e che non si servì di essa. Oltre al suo insegnamento e al suo magistero, scrisse un centinaio di testi teologici e letterari: gli studi su San Bonaventura, l’esegesi morale, letterale, allegorica ed escatologica della Bibbia; nel 1968 il capolavoro di teologia sistematica, Introduzione al Cristianesimo; fino alla trilogia su Gesù, dal 2006 al 2010, solo per citare i più famosi. Nel futuro è probabile che Benedetto sarà dichiarato Dottore della Chiesa.