La cattività avignonese vede, nello stereotipo messo in discussione in base ai recenti studi, la corona francese sovrastare il papato per ottenere, con tutti i mezzi, l’autonomia dello Stato nei confronti della Chiesa. La figura più autorevole di questa lotta senza esclusione di colpi fu il re di Francia Filippo il Bello che, nel contrasto con papa Bonifacio VIII, mise in campo tutte le armi, lecite e soprattutto illecite, per disarcionare e piegare, pro domo sua, il potere temporale della Chiesa.
Filippo, durante un periodo difficilissimo per la Chiesa, sfruttò l’oggettiva debolezza del papato facendo in modo che il baricentro della cristianità si spostasse verso la Francia per controllare più da vicino, dal trono del suo sepolcro imbiancato, le mosse dei Vicari di Cristo.
Per cercare d’influenzare l’operato della Chiesa, egli manovrò affinché i pontefici provenissero territorialmente da zone prossime ad Avignone, dove venne spostata temporaneamente la cattedra di Pietro. A tal proposito occorre precisare che i sette papi di Avignone erano di etnia occitanica (anche se in tutti i testi sono chiamati francesi), nati in quel mezzogiorno occupato militarmente dai baroni francesi del nord meno di ottant’anni prima. Questione oggi trascurata, ma che allora non poteva esserlo. Non si comprende infatti come si poté creare quell’assoluto idem sentire tra corona e uomini di Chiesa nati in una terra che subì con la crociata albigese (seppur con il placet della stessa Chiesa) una guerra etnica di occupazione.

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Il Palazzo dei Papi, ad Avignone.

Clemente V

Bertrand de Got, terzo di dodici figli di Ida di Blanquefort e Béraud de Got, nacque a Villandraut in Guascogna nel 1264. Lo zio paterno, anch’egli di nome Bertrand, fu vescovo della diocesi d’Agen. Due suoi fratelli seguirono la carriera ecclesiastica: il primo, Bérard, fu arcivescovo di Lione, il secondo, Guillaume, canonico d’Agen morì in giovane età nel 1299.
Destinato alla carriera ecclesiastica, Bertrand fu istruito nella diocesi d’Agen, nel priorato dell’Ordine de Grandmont, fondato da santo Stefano de Thiers alla fine del XI secolo. La sua carriera fu influenzata dal fratello Bérard, nominato cardinale da papa Celestino V nel 1294: incarico che gli aprì le porte come cappellano papale d’Inghilterra, con il compito di convincere il re inglese Edoardo I a mettere fine alle ostilità nei confronti della Francia. Studiò diritto canonico e civile all’università d’Orléans e di Bologna ottenendo il titolo di magister, e con gli anni divenne un avvocato esperto e un diplomatico consumato.
Papa Bonifacio VIII, il 28 marzo 1295, lo nominò vescovo di Comminges e il 23 dicembre 1299 gli affidò la diocesi di Bordeaux.

L’elezione a papa

Dopo la morte di Bonifacio VIII, fu nominato pontefice il francescano Benedetto XI, ma il suo pontificato durò solamente dal 1303 al 1304. Morì a Perugia, dove si riunì il collegio cardinalizio per il Conclave del 18 luglio 1304, diviso tra sostenitori e avversari di papa Bonifacio VIII. Le famiglie feudatarie romane Caetani (guelfi) e Colonna (ghibellini) si dilaniavano in guerre intestine, rendendo di fatto insicura la Città eterna.
La situazione di Roma suggerì al Sacro Collegio di spostare il Conclave a Perugia, e dopo undici mesi di liti tra porporati, il 5 giugno1305 fu eletto papa Bertrand de Got, che scelse il nome di Clemente. Venne incoronato a Lione, con la preziosa tiara di Bonifacio VIII, il 14 novembre 1305 nella Chiesa di Saint-Just alla presenza del re di Francia, del fratello Carlo di Valois, del re d’Inghilterra e di qualche cardinale.
A Lione, Filippo minacciò di convocare un concilio francese proclamando l’autonomia della chiesa di Francia da Roma e pressò il nuovo papa affinché venisse soppresso l’Ordine dei Templari. Chiese poi a Clemente V che Bonifacio VIII fosse condannato (post mortem), riesumato e bruciato accusandolo pretestuosamente di presunti crimini, primo tra tutti l’assassinio di papa Celestino V.

 

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Clemente V: pontificato dal 1305 al 1314.

Verso il Contado Venassino

Dal 1305 Clemente V peregrinò in visita pastorale tra Bordeaux, Nevers, Cluny, Limoges, Poitiers, Carpentras, poi entrò ad Avignone in Provenza, nel Contado Venassino, trovando asilo nel vasto convento dei Domenicani.
La Provenza, nel 1290, era di proprietà del conte Carlo II d’Angiò il quale, come re di Napoli, era fedele vassallo della Chiesa. Il Contado era un enclave della Santa Sede in Francia poiché nel 1229, dopo la crociata contro gli albigesi, con il trattato di Meaux-Paris il conte Raimondo VII di Tolosa aveva ceduto i suoi possedimenti sul Rodano al papa.
Nel 1309 venne spostata ufficialmente la sede del papa da Roma ad Avignone e si inaugurò la cattività avignonese protrattasi fino al 1377 con Gregorio XI.
La posizione geografica della città non certo fu estranea alla decisione del pontefice. Situata alla confluenza dei fiumi Rodano e Durance, due grandi vie di comunicazione, il luogo appariva strategicamente adatto alle relazioni continentali e, nei confronti degli Stati cristiani, in una posizione più centrale rispetto a Roma, anche se Clemente V la considerò sempre una destinazione provvisoria rispetto alla città degli Apostoli Pietro e Paolo.
All’inizio del pontificato, sotto il profilo politico, fu alle prese con la lotta tra Francia e Inghilterra per il possesso dell’Aquitania e con il progetto di una crociata che, sotto la guida di Carlo di Valois, avrebbe dovuto conquistare l’impero bizantino levandolo ad Andronico Paleologo, accusato di non saper difendere sufficientemente la cristianità dai turchi ottomani.
La fine della lotta franco-inglese avrebbe risolto il secondo problema perché la crociata (che poi non si attuò per l’esaurimento delle finanze del Valois) non poteva realizzarsi senza l’intervento militare dei due regni.

Alle prese con gli Ordini Minori

Fin dal XIII secolo ci fu un contenzioso nell’Ordine dei Frati Minori a proposito della natura della povertà evangelica e della sua  osservanza. Almeno due differenti posizioni si contrapponevano con forza tra di loro. Una asseriva che la stretta osservanza della povertà era in contrasto con l’evoluzione storica dell’Ordine, l’altra invece ne pretendeva la piena e totale osservanza come ideale della fede cristiana. All’inizio del XIV secolo la lotta tra spirituali e moderati fu così intensa che, in forza della legge ecclesiastica, fu necessario l’intervento del papa affinché componesse in modo equilibrato l’antica disputa.
Con la Bolla Exivi de Paradiso, del 6 maggio1312, Clemente V accolse le lagnanze degli spirituali, ma ritenendo esagerate le loro pretese, confermò la presenza dei francescani moderati nell’Ordine, consigliando loro l’uso morigerato delle cose materiali, vietando loro la funzione di esecutori testamentari e d’incassare le eredità. La conciliazione, tuttavia, non mutò la condotta degli spirituali, che oltre a non sottomettersi al papa, fecero entrare i propri rappresentanti nell’Ordine e vennero così scomunicati.
In questo contesto, Clemente V si dovette occupare di fra Dolcino, capo carismatico di una agguerrita setta religiosa di circa 4000 adepti, attiva soprattutto in Piemonte nelle montagne biellesi fin dalla metà del XIII secolo, detta degli “Apostolici”. Essa si irradiò in pochi anni negli strati marginali della società basso medievale e nella borghesia mercantile di importanti comuni centro-settentrionali, e addirittura all’interno del clero secolare e regolare attraverso membri della corrente spirituale francescana, persuasi dal pauperismo radicale. La setta predicava la povertà, ma anche l’amore libero e la disobbedienza al papa. Le sue tesi, estrapolate dall’interpretazione delle Scritture nel riuso di fonti profetiche veterotestamentarie (Geremia, Zaccaria, Ezechiele, Isaia), oltre all’Apocalisse, furono maneggiate con perizia teologica ed esegetica.
Non riconoscendo la Messa e il Sacramento della confessione, fra Dolcino assunse posizioni sempre più radicali minacciando l’unità della Chiesa. Clemente V invocò una crociata contro il “frate” (già precedentemente ideata da Bonifacio VIII): nel giugno del 1307, questi venne catturato dal vescovo di Vercelli Raniero degli Avogadro, insieme a 150 persone e alla compagna Margherita Boninsegna, e, rifiutatosi di abiurare, fu condannato al rogo.

Il concilio di Vienne e la soppressione dei Templari

La convocazione del Concilio di Vienne (sulle rive del Rodano) per novembre 1308 da parte di Clemente V fu determinata dalle pressanti insistenze, per non dire vere e proprie ingerenze, di Filippo il Bello.
La preparazione dell’evento si distinse per il contrasto tra corona e papato: il pontefice riuscì a scongiurare la damnatio memoriae e la condanna di papa Bonifacio VIII, e il sovrano concentrò il focus sull’Ordine dei Templari accusandoli, del tutto arbitrariamente, d’eresia e d’immoralità. La sua ostinazione fece sì che il Concilio si polarizzasse su quei monaci-soldati che avevano sempre servito la Chiesa con abnegazione, mentre le altre questioni passavano in secondo piano.
Per forzare la decisione del papa, il 13 ottobre 1307, il re fece arrestare più di 600 templari del regno di Francia, estorcendo loro confessioni sotto tortura. Clemente protesterà ufficialmente con la bolla Subit Assidue del 5 luglio 1308 accusando l’Inquisitore di Francia, Guglielmo di Parigi, suo cappellano e confessore di Filippo, di non aver avvisato l’autorità pontificia dell’imminente arresto.
Nessuno zelo religioso ispirava Filippo: il suo accanimento contro i Templari era dovuto al fatto che la cassa dei cavalieri, costituita dai loro beni di famiglia, era ricca di donazioni e gestita perfettamente. A ciò si deve aggiungere l’enorme indebitamento che il sovrano aveva nei confronti dell’Ordine, almeno a quanto si evince dai Commentarii de Cipro redatti nel 1340 da Bustron Florio. La loro ricchezza dunque faceva gola a un sovrano senza scrupoli e alla disperata ricerca di finanze per affrontare la guerra contro l’Inghilterra.
L’arresto dei Templari colse di sorpresa il papa nei dintorni di Poitiers. Ritornato in curia, il 15 ottobre indisse un concistoro per studiare, con i cardinali del sacro collegio, un’iniziativa per contrastare Filippo. Lesse con incredulità gli atti processuali contro i cavalieri e le confessioni estorte sotto tortura dal tribunale di Filippo: rinnegare Cristo, sputare sopra la Croce. In verità, il rinnegamento e altre cose avvenivano nel rituale d’ingresso dei cavalieri che si esprimevano solo con i gesti e non con il cuore. Clemente V comprese che quel gesto indecente, specialmente il rinnegamento a parole di Cristo e lo sputo in direzione della croce, non esprimevano la volontà dei monaci ma erano imposti da un rituale segreto obbligatorio (che si auspicava fosse abrogato), in omaggio alla tradizione militare dell’ordine. Alla base di un cerimoniale, c’era l’esigenza di mettere alla prova il novellino per dimostrare l’obbedienza al Tempio.
Intuendo l’atto pretestuoso del sovrano, chiese di avocare a sé la causa contro l’Ordine, concedendogli, in contropartita, la decima delle entrate ecclesiastiche di tutto regno di Francia per cinque anni. Clemente preparò dunque due bolle, Faciens misericordiam e Regnans in coelis, e una commissione in funzione di due distinti processi: uno nei confronti dei singoli membri, l’altro contro l’Ordine nel suo insieme. Istituita formalmente all’inizio del 1309, era composta da otto prelati imposti dal re e presieduta da Gilles Aycelin, arcivescovo di Narbona, noto per l’avversione nei confronti dei Templari.
Il Concilio, convocato per il novembre 1310 e differito di un anno al 16 ottobre 1311, emise la sentenza il 22 di marzo 1312 con la bolla Vox Clamantis in Excelso che sciolse l’Ordine. La bolla di Clemente V lo espose a critiche circa la “contradditorietà” della sentenza, ma egli, come giurista e con l’approvazione del Concilio, rischiando di alienarsi Filippo, applicò un decreto che, pur abolendo l’Ordine, non lo condannava giuridicamente, ma lo sottoponeva a una disposizione apostolica da ricondurre interamente alla volontà del papa. La maggioranza dei cardinali, d’accordo con lui, ribadì che al fine di emettere una sentenza giuridica l’Ordine avrebbe avuto il diritto di difesa e, invece di prolungare la causa, decise per l’abolizione in via cautelare.
In qualità di giurista, Bertrand de Got Bern, sapeva che la bolla dogmatica del 1265 Dignum esse conspicimus, del suo predecessore Clemente IV, affermava che non si poteva pronunciare una sentenza di scomunica ai membri dell’Ordine del Tempio. Divenuto papa, con la bolla Vox in excelso non avrebbe dunque potuto abrogare una bolla dogmatica.
Circa i beni dell’Ordine, con la bolla Ad Providam Christi vicari del 2 maggio1312, ordinò che venissero trasferiti in Terra Santa e consegnati all’Ordine dei Cavalieri Ospitalieri, già Ordine di San Giovanni di Gerusalemme, ma parte dei beni finì nelle mani di Filippo.
L’azione giudiziaria che soppresse l’Ordine e molti rappresentanti, fu costellata da illegittimità emerse da atti oggi a disposizione degli studiosi.
Clemente V avocò a sé il giudizio sull’Ordine, ma indebolito dalla malattia che lo perseguitava da tempo, venne vilmente depredato da Filippo della sua funzione giuridica. La bolla Considerantes dudum del 6 maggio 1312 segnerà le sorti dei singoli cavalieri: quelli innocenti o riconciliati con le commissioni diocesane ricevettero una rendita in misura del rango avuto nell’Ordine Templare. Gli altri, come il Gran Maestro Jacques de Molay con Geoffrey de Charney e sessantasette cavalieri che ritrattarono le confessioni, il 18 marzo 1314 (con la complicità dell’Inquisitore di Francia, Guglielmo di Parigi, che agì senza consultare il Pontefice) vennero messi al rogo nei pressi di Notre Dame sulla Senna.
L’illegalità sta nel fatto che le condanne non potevano essere emesse dall’autorità regia poiché i due templari, sotto il profilo formale, erano religiosi (i loro voti monastici non erano mai stati messi in discussione) e pertanto avrebbero dovuto essere sottoposti alla sola autorità ecclesiastica.
A settecento anni dagli eventi, nel 2007, la Santa Sede pubblicò un testo sui documenti ufficiali del Processus contra Templarius facenti parte dell’Archivio Segreto Vaticano. Nelle ultime pagine si leggono parole come: Absolutionis e reintegrantes ad Ecclesiam. Queste si sposano perfettamente con la Pergamena di Chinon, documento che la comunità scientifica credeva perduto da secoli e rispolverato nel 2001, già censito nel 1628 e nel 1912, riapparso grazie alle ricerche della storica italiana Barbara Frale e convalidato da storici specialisti come Alain Demurger, Franco Cardini e Malcom Barber.
Resa pubblica nella serie Exemplaria Prætiosa, la pergamena contiene la deposizione davanti ai teologi della Sorbonne di Jacques de Molay, a dimostrazione che i Templari furono assolti dai cardinali plenipotenziari di papa Clemente V e scagionati dall’eresia. Essa comprova come il pontefice intendesse perdonare i Templari nel 1314, assolvendo il loro maestro e gli altri capi dall’accusa di eresia, limitandosi a sospendere l’ordine piuttosto che sopprimerlo, per assoggettarlo a una profonda riforma ed epurando tradizioni degradate emerse dai processi.

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Papato e impero

Il 1° maggio 1308, Alberto I d’Asburgo re di Germania e imperatore venne ucciso dal nipote Giovanni. A quel punto, Filippo il Bello incominciò a battersi per la successione in favore del fratello Carlo di Valois, anche se molti Stati non avrebbero gradito il potenziale pericolo di una espansione francese, compreso lo stesso Clemente V.
Resi vani i tentativi di Filippo di far designare il fratello al trono del Sacro Romano Impero, il 27 novembre 1308 venne scelto come re di Germania il conte di Lussemburgo Enrico VII, incoronato ad Aquisgrana il 6 gennaio 1309. Egli ottenne il benestare papale per scendere in Italia, anche perché dall’operazione “diplomatica” il pontefice si aspettava la fine delle ostilità tra guelfi e ghibellini. Clemente V in effetti sperava in una restaurazione imperiale che in qualche modo riportasse la pace; ma successivamente la presenza di Enrico, coinvolto dalle beghe tra le fazioni, anziché costituire un elemento di pacificazione, acuì il conflitto.
Ai primi d’ottobre 1310 il re di Germania partì da Ginevra con le sue truppe e, superate le Alpi al valico del Cenisio, cinse la corona ferrea il 6 gennaio 1311 in Sant’Ambrogio a Milano. Portava con sé una lettera papale nella quale Clemente V chiedeva a coloro che erano soggetti al re dei Romani un aiuto nella pacificazione che Enrico avrebbe condotto durante il viaggio a Roma, dove sarebbe stato incoronato imperatore, anche se le possibilità di un accordo tra il re di Napoli Roberto d’Angiò e il re di Germania erano ridotte al minimo.
Enrico entrò a Roma, dopo una breve scaramuccia con le truppe angioine, il 7 maggio 1312. L’incoronazione, avvenuta grazie a un’azione di forza del popolo romano, si svolse a San Giovanni in Laterano alla presenza di tre cardinali, legati del papa, il 29 giugno 1312. In settembre l’imperatore lasciò Roma per battersi contro Firenze, ma dopo alcune battaglie senza successo si ritirò prima a Pisa e successivamente, stremato e ammalato, morì a Buonconvento, nei pressi di Siena, il 24 agosto 1313.

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La Pergamena di Chinon.

La riabilitazione

I severi giudizi da sempre pronunciati contro Clemente V – di aver agito a stretto contatto con Filippo, segnando un cambiamento radicale nella politica pontificia – sono stati ridimensionati dalla critica moderna. Un più equilibrato giudizio sul suo papato parte oggi dall’assunto che, nei nove anni di pontificato, in una Avignone divenuta formalmente capitale del cattolicesimo, egli si mosse dentro un’impresa colossale e con uno stretto margine di manovra.
Uomo di cultura, prese decisioni importanti nel campo dell’insegnamento delle lingue. Incentivò lo studio dell’ebraico, del greco e dell’arabo nelle università di Roma, Parigi, Oxford, Orleans, Bologna e Salamanca.
Poco conosciuta è la sua attività missionaria; sull’esempio di papa Niccolò IV inviò i Francescani presso la corte mongola che controllava la Cina. Fondò nel 1307 una diocesi con a capo l’arcivescovo Giovanni da Montecorvino che divenne il primo vescovo di Pechino.
Nel 1313 pubblicò la bolla Pastoralis cura in cui, superando addirittura il pensiero teocratico di Bonifacio VIII, affermava con forza la superiorità del papato sull’impero.                             
Nel Concistoro del 21 marzo 1314 pubblicò le Decretali Clementine, con le Costituzioni del concilio di Vienne, norme facenti parte del Corpus Iuris Canoni, doveri del clero e del popolo nel contesto del più antico testo della Messa Clementina.
Grazie alla sua diplomazia seppe evitare la condanna formale nei confronti di Bonifacio VIII chiesta da Filippo anche se, dimostrando la debolezza dell’ordine canonico, fu costretto a fare molte concessioni al sovrano, soprattutto con l’abrogazione parziale sia della Clericis Laicos sia della Unam Sanctam, le bolle di Bonifacio VIII contro il re di Francia.
Sulla base di una nuova e straordinaria fonte documentale è dunque da rivedersi la tesi di un Clemente V come il “cappellano” di Filippo.
Morì a 50 anni a Roquemaure sul Rodano il 20 aprile 1314, probabilmente per un cancro allo stomaco, e fu seppellito a Uzeste (Gironda). Pochi mesi dopo moriva Filippo il Bello.