Nella storia della Chiesa vi furono personalità che lasciarono segni indelebili: pastori che guidarono il loro gregge onorando il piano di Dio; uomini che in vita non trovarono facili strade da percorrere poiché intralciati dalle trame nefaste del Maligno e che per le azioni dei loro nemici (fin dentro il recinto di Pietro) vennero ostacolati nel loro destino ecclesiale…
Tra di loro ricordiamo un alto prelato il quale, di fronte agli sconvolgimenti dottrinali che spinsero molti fedeli a smarrire la fede cattolica o a non conoscerla per quello che era davvero, cercò di difendere la tradizione della Chiesa. Giuseppe Siri (1906-1989), arcivescovo di Genova e “delfino” spirituale di papa Pio XII, che lo elevò alla porpora cardinalizia nel 1953, fu uomo alieno a compromessi e a cedimenti, anche quando nel 1959 Giovanni XXIII lo chiamò alla presidenza della Conferenza Episcopale Italiana. Partecipò alla vita della Chiesa per un quarantennio suscitando profondi affetti, ma altrettanto profonde avversioni. Lottò soprattutto contro l’abdicare dell’autorità apostolica dei vescovi a vantaggio di organismi collegiali.
Di fronte agli “innesti” teologici nel Vaticano II, interpretò i presagi (vox clamantis in deserto) che lasciarono alle generazioni future una Chiesa ridotta a parlare il linguaggio del mondo; perché se non vi è differenza tra il mondo e la Chiesa, significa che quella che si definisce tale è una sua parodia, differente per forma e sostanza da quella di sempre. Giustamente, l’antropologo scozzese James George Frazer (1854-1941) disse che non c’è religione senza trascendenza e non c’è trascendenza senza distacco tra Creatore e creatura.

papa gregorio XVII giuseppe siri
Giuseppe Siri.

Il cardinale Siri tra Padre Pio e Giovanni XXIII

Accostandoci a papa Giovanni XXIII, colui che innescò l’evento del Concilio, non possiamo non ricordare che egli entrò, con consapevolezza o meno, in contrasto con Padre Pio da Pietrelcina di San Giovanni Rotondo, acclamato come santo quando era ancora in vita. Il cardinale Siri, addolorato dalle incomprensioni tra il Pontefice e il cappuccino, cercò una mediazione e, vedendo continuare la lotta spietata contro quest’ultimo, interpretò tutto ciò come una trappola di Satana che aveva coinvolto nei suoi disegni anche i vertici della Chiesa. La vicenda umana del cappuccino fu la lotta tra la forza del Bene e quella del Male, ma la diatriba tra due uomini di Chiesa, l’uno  “perseguitato” e l’altro “persecutore” (un pontefice), va soppesata con molta prudenza.
Il Sant’Uffizio se n’era già occupato quando nel settembre del 1918 il frate ricevette le stimmate. Il vescovo di Manfredonia e Foggia, mons. Gagliardi, costituì un gruppo di religiosi e laici per distruggere Padre Pio, ritenuto “fanatico e imbroglione”. In una lettera al clero di San Giovanni Rotondo egli esortava: “Non temete di compromettervi nel mandare lettere al Sant’Uffizio “, così il frate venne segregato in un isolamento che durò fino al 1933, quando papa Pio XI lo reintegrò nei suoi diritti permettendo ai fedeli di visitarlo e di scrivergli senza temere i rigori del dicastero.
Sul secondo periodo della persecuzione del cappuccino, avvenuta tra il 1960 e il 1961, incise non poco il parroco romano del Divino Amore, don Umberto Terenzi, il quale volendo “tutelare” il frate e la sua Casa Sollievo della Sofferenza da gente economicamente interessata, ottenne dal Sant’Uffizio l’incarico verbale di indagare. Presentatosi a San Giovanni Rotondo come rappresentante papale, per eccesso di zelo millantò di dover riferire personalmente a papa Giovanni XXIII, cosa mai richiesta. Posizionò microfoni nei luoghi dove il frate incontrava le persone (non nel confessionale) e durante la registrazione di un colloquio con un’anziana signora, Cleonice Morcaldi, qualcuno credette di avere udito un “bacio”. Le bobine vennero inviate al Sant’Uffizio, ma il Papa, venuto a sapere del fatto, ordinò che i microfoni fossero subito rimossi e non volle più vedere don Terenzi, neppure nelle pubbliche udienze.
Nel 1960, come visitatore apostolico venne nominato monsignor Carlo Maccari per far luce su quanto sarebbe accaduto nel convento pugliese. Disse di essere un incaricato del Papa, ma il suo compito avrebbe dovuto limitarsi a fornire informazioni da consegnare ai suoi superiori. Maccari, in seguito all’ispezione compiuta a San Giovani Rotondo e alla sua “visita apostolica”, suscitò vasta eco e differenti interpretazioni sugli esiti. Siri sull’episodio disse:

Quando seppi che il Sant’Uffizio aveva inviato un visitatore apostolico nel convento di San Giovanni Rotondo rimasi di sale. La persona prescelta mi sembrava poco attrezzata dal punto di vista culturale per fare un’indagine relativa a un personaggio come il frate già sottoposto ad altre inchieste e circondato dalla grande devozione popolare. L’inviato del Sant’Uffizio fino ad allora s’era occupato esclusivamente del Vicariato di Roma, ignoravo soprattutto se avesse o meno il garbo e l’avvedutezza necessaria a un compito da condurre con la massima discrezione. E ciò che è avvenuto mi ha dato ragione.

Monsignor Maccari morì nel 1997 e in punto di morte si pentì di avere perseguitato Padre Pio, invocando fino alla fine il nome del cappuccino.
Il cardinale Siri, seppure da lontano, aveva sempre seguito le vicende di Padre Pio. Era seminarista quando si sparse la notizia delle stimmate del frate e del rifiuto da lui opposto a padre Agostino Gemelli di fargli esaminare le piaghe senza l’autorizzazione dei superiori. Il rifiuto – dovuto alla decisione di non sottoporsi a visite mediche per ubbidienza al suo Ordine – unito alla ritrosia del suo carattere, gli attirò l’ostilità di Gemelli, il quale si rifiutò di attribuire alle ferite del frate un’origine soprannaturale, considerandole tutt’altro che eventi trascendenti. Siri, che aveva conosciuto padre Gemelli durante i corsi universitari alla Gregoriana, non ne condivise l’opinione. Di lui dirà:

Ho avuto grande stima del fondatore dell’Università Cattolica, studioso di grande prestigio e amico, ma purtroppo in quell’occasione sbagliò. Emise un verdetto superficiale mentre le sue affermazioni, secondo le quali tutte le stimmate, tranne quelle di San Francesco d’Assisi e di Santa Caterina da Siena, erano state frutto di isterismo e di autolesionismo, furono stigmatizzate anche dalla “Civiltà Cattolica”, la rivista della Compagnia di Gesù.

Giovanni XXIII continuava a essere molto preoccupato. La situazione creatasi spinse Siri a intervenire presso il Pontefice, il quale a un certo punto cominciò a intuire la falsità delle accuse mosse al frate. Il cardinale era convinto dei doni mistici ricevuti dal cappuccino: “I fatti sono fatti”, disse, “e non vi è dubbio che egli vedesse il futuro, leggesse nel pensiero, si spostasse in bilocazione. Le guarigioni, la possibilità di convertire un ateo con uno sguardo, una parola, una benedizione. Non sono questi prodigi?”. Il cardinale non andò mai al convento di Santa Maria delle Grazie e non conobbe di persona Padre Pio; ma amava ricordare quella singolare intesa tra lui e il frate, resa possibile dai concittadini genovesi che, al ritorno da San Giovanni Rotondo, portavano al loro arcivescovo i saluti del frate. Citò anche un esemplare accadimento:

Dovevo prendere una grave decisione circa una importante questione relativa alla diocesi di Genova ed ero perplesso e angustiato poiché le soluzioni possibili erano due, ma non sapevo quale fosse la migliore. Messo alle strette decisi per una delle due. Il giorno dopo ricevetti un telegramma da Padre Pio in cui mi rivelava che la decisione presa era quella giusta e mi esortava a continuare lungo quella strada. Avevo vissuto le mie perplessità senza parlare con nessuno. Come aveva fatto ad averne notizia?

Commemorando Padre Pio nel quarto anniversario della morte, nella chiesa di Santa Caterina a Genova, il cardinale ricordò agli astanti: “I primi che avrebbero dovuto riconoscere Gesù Cristo furono quelli che lo hanno mandato in croce; è successo anche a Padre Pio”.

Il Conclave del 1958

Papa Pio XII morì il 9 ottobre del 1958, nell’allora residenza papale di Castel Gandolfo, luogo frequentato dai pontefici nei mesi estivi fino alla defezione dell’attuale vescovo di Roma che lo ha ridotto a museo. Alla morte di un papa, prima che venga eletto il successore, intercorre uno spazio di tempo chiamato “sede vacante”. Periodo in cui il cardinale camerlengo prende possesso dei palazzi apostolici, mentre il Collegio cardinalizio, oltre a organizzare le esequie del pontefice defunto, esegue le procedure che precedono le operazioni di voto per il conclave. Queste ultime sono state spesso aggiornate nel corso dei secoli, con modifiche che spettano di diritto esclusivamente al Romano Pontefice. La morte di papa Eugenio Pacelli, nonostante la sua salute fosse da tempo malferma, colse impreparata la Santa Sede. La carica di amerlengo, che avrebbe dovuto gestire la sede vacante, era senza titolare dal 1941. I cardinali giunti a Roma per il Conclave elessero in tutta fretta come camerlengo il cardinale Benedetto Aloisi Masella, prefetto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti.
Il Conclave si svolse (in segreto e senza contatti esterni) nella Cappella Sistina dal 25 al 28 ottobre 1958, in piena guerra fredda, e né l’arcivescovo croato Alojzije Stepinac, né quello ungherese Jòzef Mindszenty ebbero il permesso dai rispettivi governi di recarsi a Roma. I cardinali elettori erano 53, ma con la loro assenza il quorum dei due terzi fu fissato a 35 preferenze e 14 scrutini. Secondo la versione più diffusa, la battaglia per l’elezione del nuovo papa si sarebbe dovuta svolgere fra l’anziano patriarca di Venezia, Angelo Roncalli, e il patriarca di Cilicia degli armeni, Krikor Boutros Agagianian. Ufficialmente s’impose Roncalli, prendendo il nome di Giovanni XXIII: lo stesso di Baldassare Cossa, antipapa del secolo XV.  
L’elezione fu circondata da un alone di sorpresa e da scenari utili da riportare, seppur per sommi capi. Fermo restando che quanto avvenne in quelle ore avrebbe dovuto essere all’insegna dell’assoluta riservatezza, dopo il Conclave girarono voci che in tempi come i nostri, aperti alla pluralità delle interpretazioni se taciute, non renderebbero giustizia dell’aneddotica storica della Chiesa. Per questo è necessario fare un passo indietro nel tempo. Pio XII in molte occasioni manifestò il desiderio che, alla sua morte, il successore al soglio di Pietro (con buona pace dello Spirito Santo) fosse il cardinale Giuseppe Siri, arcivescovo di Genova. Quindi le voci che il Conclave dell’ottobre 1958 avesse eletto papa proprio Siri, che prese il nome di Gregorio XVII, comunque le si vogliano interpretare, ci ricordano che quell’elezione fu a dir poco tribolata. È un fatto che alle 17,55 del 26 ottobre 1958, dopo il terzo ballottaggio e a “elezione avvenuta”, uscì dalla cappella Sistina una fumata bianca, preludio imminente all’annuncio Habemus Papam del protodiacono. Le guardie svizzere si schierarono come da prassi in piazza san Pietro e lo speaker di Radio Vaticana, padre Francesco Pellegrino, alle ore 18,00 annunciò: “Il fumo è bianco, non c’è dubbio”. Un Papa era stato eletto e presto si sarebbe presentato al popolo dalla finestra della loggia centrale della basilica. Tuttavia la finestra, dopo i minuti canonici, non s’aprì e l’eletto non si affacciò. Si dubitò (come sempre accade) del colore del fumo uscito dal comignolo, ma monsignor Santaro, segretario del Conclave, per dissipare i dubbi ribadì che il fumo era bianco e che l’elezione era avvenuta. L’attesa continuò senza esito e successivamente si comunicò che si era trattato di un errore, frettolosamente si fece una fumata nera e le guardie svizzere rientrarono in caserma.
Qui iniziano le congetture: i “si dice”, i “probabilmente”, i “certamente”. Uscirono varie indiscrezioni tra dubbi assoluti e assolute certezze. La fonte di questo dubbio amletico si basava, come si è detto, sull’apparire di una fumata prima bianca e poi grigiastra, levatasi dal comignolo della Sistina. Eppure, ciò che fu poi fatto passare per un errore tecnico, secondo un giornalista americano che ebbe accesso al dossier del Federal Bureau of Investigation (FBI) Cardinal Siri, non sarebbe stato tale. “Si dice” che, per evitare problemi internazionali e per non creare una rottura con i “modernisti” all’interno della Chiesa, all’inizio del Conclave Siri rinunciò alla candidatura, che pure gli era stata offerta da un congruo numero di cardinali, e la cosa sembrò finire lì. “Si dice”, secondo le indiscrezioni di alcuni cardinali, che Siri, anche se non candidato, fu eletto al soglio pontificio e ciò sembra confermato da un rapporto dell’FBI secretato fino al 28 febbraio del 1994, quando fu possibile accedere al documento ufficiale grazie alla legge Freedom of Information Act emanata negli Stati Uniti. Il rapporto sarebbe stato visionato dal consulente dell’FBI Paul Williams, che nel libro The Vatican Exposed: Money, Murder, and the Mafia, del 2003, affermò che Siri sarebbe stato dichiarato papa e avrebbe scelto il nome di Gregorio XVII, ma non poté annunciare pubblicamente la sua elezione a causa della reazione dei cardinali liberali e progressisti. Questi temevano che Siri avrebbe, come erede di Pio XII, ripercorso la via di un papato fortemente centralizzato.
Dai primi decenni del novecento, in Germania e Francia, era nata una corrente teologica detta Movimento Liturgico, che a partire dalla liturgia aspirava alla rivoluzione nella Chiesa. Tutto ciò avvenne attraverso lo “spirito del Concilio” che ebbe il sopravvento dopo il Vaticano II. La motivazione che avrebbe indotto i cardinali a compiere questo atto gravissimo fu comunque di natura politica. L’elezione di Siri avrebbe avuto una ricaduta geopolitica a causa del suo dichiarato anticomunismo.  “Si dice” che avrebbe portato a un’accentuata repressione nei confronti dei cattolici oltre la Cortina di Ferro, e su pressione dei servizi di sicurezza vaticani e su “richiesta” al neo eletto da parte di alcuni cardinali francesi (e “si dice” da quelli dell’Europa dell’est), Siri rinunciò al Papato.
Qualche porporato propose di eleggere un papa di transizione, il cardinale Federico Tedeschini, ma egli in condizioni di salute davvero precarie non poté neppure prendere in considerazione quella irricevibile offerta. Il terzo giorno del Conclave l’assemblea in qualche modo si mise d’accordo ed elesse come si è detto Angelo Roncalli. Il ringraziamento ufficiale della Chiesa per l’elezione di papa Giovanni XXIII toccò proprio a Siri, il quale lesse un discorso dai passaggi salienti:

In questo giorno luminoso e sereno legato alla nostra vita, alla nostra famiglia, alle nostre speranze vi ho chiamati per ringraziare Dio della elezione del nostro Santo Padre Giovanni XXIII […] In Lui noi credenti abbiamo ritrovato il Padre, del quale si era estinta la visibile figura con la santa morte di Pio XII […] Sia dunque ringraziato Iddio perché abbiamo nuovamente il Papa […]

Parole che avrebbero dovuto esortare all’abbandono del campo speculativo, ma che pur avallando il pronunciamento della Sede Apostolica, non sciolsero la sostanza di un dilemma che si dibatte tra ipotesi e ufficialità, stentando ad assegnare all’una o all’altra lo scettro della verità assoluta. Dissolvere le ombre sul 261esimo vescovo di Roma, anche per non scontrarsi con il  “sedevacantismo “ (stato in cui si trova la Sede Apostolica per la libera rinunzia al ministero petrino) di talune frange del cattolicesimo fuori dalla comunione ecclesiale, è fondamentale. Queste impugnarono l’allora Codice di Diritto Canonico del 1917 che al can. 185 recitava: “La rinunzia non è valida, per legge, qualora essa sia avvenuta per timore grave ingiustamente inflitto, per frode, per errore sostanziale, per simonia”
La giustificazione data all’esclusione di Siri a causa della sua posizione ideologico-politica stride, non poco, con il ruolo di un’autorità che spiritualmente è diretta emanazione della Volontà Celeste sulla Terra; ponte (da cui il termine “pontefice”) tra questa e la sfera divina del trascendente. Assai debole risulta la tesi che vedrebbe la figura di un cardinale (italiano) divenuto papa, come causa della spinta repressiva sui cattolici dell’est comunista a motivo della sua avversità nei confronti di un’ideologia atea. È ovvio che quella dittatura continuò, come fucina di barbarie, fino al suo epilogo, prescindendo da chi fosse seduto sulla cattedra di Pietro. Semmai è vero il contrario, pur con tutte le differenze storiche del caso: vista l’elezione vent’anni più tardi, nell’ottobre del 1978, di un papa che avversò di fatto la dittatura comunista, ossia l’arcivescovo di Cracovia Karol Wojtyla, che prese il nome di Giovanni Paolo II.
In Wojtyla, l’Unione Sovietica vide il sostenitore del movimento sindacale Solidarność di Lech Walesa, che in Polonia si batteva contro la dittatura del generale Jaruzelski: una vera minaccia per l’intero Patto di Varsavia. Il crollo del socialismo reale era già in atto, ma quel papato intanto servì ad allentare la stretta sulle libertà individuali nei paesi dell’est e concorse (senza spargimenti di sangue) alla caduta del Muro di Berlino nel 1989.

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Conclave 1958, Siri e Roncalli.

La verità “secretata” di Giuseppe Siri

Fino a ora abbiamo analizzato il Conclave del 1958, ma occorre ricordare che Siri passerà alla storia della Chiesa come protagonista di un primato: “Entrò quattro volte papa in conclave e quattro volte ne uscì cardinale”. Nel Conclave del 21 giugno 1963 che scelse Paolo VI, sarebbe stato eletto per la seconda volta, ma gli fu impedito a causa degli stessi motivi del 1958. L’anticomunismo di un uomo di Dio sarebbe un’ovvietà, se non facesse venire i brividi l’utilizzo di questa scusa per l’esclusione di un candidato. Citando l’enciclica di Pio XI del 19 marzo 1937 Divini Redemptoris sul comunismo ateo e il Decreto contro il Comunismo del Sant’Uffizio del 1949, c’è da chiedersi a quale grave rischio per la loro anima si sarebbero esposti i cardinali che avessero ostacolato lo Spirito Santo per la politica.
Nello stesso modo finì il Conclave dell’elezione di Giovanni Paolo I nell’agosto del 1978 e, dopo soli 33 giorni di papato, quello dell’elezione di Giovanni Paolo II. Siri sfiorò il soglio pontifico in entrambi i casi. La prima volta era in vantaggio su Luciani per 25 voti contro 23, ma poi – “si disse” – prevalse la prudenza dei tradizionalisti. Più complesso fu il conclave dopo la morte misteriosa e improvvisa di Giovanni Paolo I. Secondo le indiscrezioni di famosi vaticanisti come Giancarlo Zizola e Benny Lay, a Siri mancavano quattro o cinque voti, ma fu bloccato dal cardinal Giovanni Benelli, allievo di Paolo VI. Così i cardinali all’ottavo scrutinio deviarono sul polacco Karol Wojtyla.
C’è però una sostanziale differenza tra il Conclave del 1958 e gli altri tre. Nel primo c’è ancora (sempre nei “si dice”) una sorta di celato pudore per imporre, pur nell’ecclesiasticamente corretto, la demolizione della tesi di Siri papa. Negli altri non è il falso scopo ideologico a sorreggere le motivazioni pretestuose che lo ostacolarono, che lo convinsero a rinunciare, o che lo fecero fuggire dal munus petrino, ma logiche interne alla stessa Chiesa. Il cardinale in tutta la sua vita non violò mai il segreto dei conclavi. Semmai, cosa rilevante, come scrisse Antonio Socci su “Libero” il 26 dicembre del 2014, “fu Siri, a proporre l’abolizione del segreto del conclave, perché, lungi dal tutelare le cose sacre, la norma rischiava (e rischia) di diventare una copertura di cose strane”. Il 18 maggio 1985, nel suo studio di Genova, concesse un’intervista al giornalista e scrittore Louis Hubert Remy, che gli chiese se fosse vero quanto si diceva sulla sua elezione a papa. Siri, mettendosi le mani sul viso e chinandosi, stette per lunghi attimi in silenzio, poi alzò gli occhi al cielo e con sofferenza disse: “Sono legato dal segreto”. Parole che fecero dire a padre Nicholas Gruner che tecnicamente avrebbe potuto essere stato eletto, ma il fatto che avesse detto “sono legato dal segreto” significava che non fu mai papa poiché solo il papa è tenuto al segreto. Una conclusione che invece di mettere la parola fine a un enigma, come forse avrebbe preteso Gruner, ne amplifica i dubbi.
Peraltro, una delle ipotesi sulla mancata elezione di Siri è che nel tempo intercorso tra l’elezione del Papa alcune voci di cardinali siano uscite dalla Sistina, e non si può escludere che egli stesso abbia concorso al fatto. Nel 18 settembre 1988 nell’ultima conversazione con Benny Lay, dopo essersi rammaricato per quello che era diventata la Chiesa dopo Pio XII, chiese perdono a Dio per non avere accettato la candidatura nei conclavi a cui aveva partecipato. Aggiunse: “Ho fatto male, perché avrei evitato di compiere certe azioni. Vorrei dire… ma ho timore a dirlo, certi errori”.
Un anno e nove mesi più tardi il cardinale Siri morì improvvisamente.
Nella sua bolla Una sanctam del 18 novembre 1302, Bonifacio VIII aveva ammonito:

Per accedere alla salvezza eterna occorre essere sottomessi incondizionatamente al “vero” Vicario di Cristo. Imperativo quindi è il conoscere perfettamente i termini della questione, prenderne atto con le relative conseguenti misure da adottare, perché da questa faccenda dipende l’affare più importante della nostra vita: la salvezza eterna dell’anima.

Una questione non proprio marginale per i fedeli di confessione cattolica.

 

papa gregorio XVII giuseppe siri