Nella prima parte della nostra analisi storica, Dossetti: le mani sul Concilio Vaticano II,  abbiamo visto come questo religioso si sia distinto nel manovrare a favore della riforma conciliare come perito di fiducia dell’acivescovo di Bologna e Principe di Santa Madre Chiesa, il cardinale Giacomo Lercaro.
E proprio Lercaro vide nella collegialità dei 2400 padri che partecipavano al Concilio il contesto atto ad “attualizzare” una Chiesa che – a suo avviso – senza una drastica riforma non sarebbe stata in grado di affrontare le sfide del terzo millennio. Così, dagli alambicchi del laboratorio progressista teologico della Scuola di Bologna, egli distillò con Dossetti un elisir che avrebbe dovuto “dissetare” la Chiesa dall’arsura del “deserto medievale” nel quale si sarebbe trovata: la stessa superficialità che spinse riformati, illuministi e positivisti a vedere nel medioevo un periodo storico “oscuro” e un freno al progresso.
Per inquadrare il discorso, torniamo a qualche anno prima del Vaticano II, in Emilia, dove Lercaro pasceva il suo gregge orientandolo politicamente verso la Democrazia Cristiana. Parlando d’orientamento politico ai fedeli da parte del clero, non possiamo non citare le elezioni comunali del 1956 a Bologna. Il cardinale, presumendo che ogni battezzato avrebbe votato DC, mandò allo sbaraglio come candidato sindaco il Dossetti, che portava in dote la sua profittevole esperienza all’Assemblea Costituente dal 1946 al 1948. Tuttavia, una cosa era l’alto livello istituzionale, altra era ottenere un consenso elettorale nella Bassa Padana, in una provincia che nel biennio rosso (1919-20) aveva aderito massicciamente alle utopie della rivoluzione bolscevica.
Dossetti perse; e Lercaro assistette, a scorno delle sue attese, alla crescita elettorale del Partito Comunista Italiano nella città dov’era arcivescovo. Probabilmente illuso dalla sconfitta del Fronte Popolare (PCI e PSI) alle elezioni politiche del ‘48, non tenne conto che i rossi da quelle parti la facevano da padroni: di fatto, la sua era la diocesi più comunista d’Europa. L’elettorato dell’Emilia Romagna votò al 60% per i comunisti, inducendolo a sospettare con terrore che i cattolici non costituissero la maggioranza dell’Italia.
Il tarlo del dubbio cominciò a tormentare il cardinale Giacomo Lercaro, indebolendo le sue certezze. Egli cercò – seppur da un’angolazione religiosa – di entrare nella “psicologia” dei bolognesi e degli italiani che votavano Partito Comunista Italiano. E comprese che al proletariato la lettura di Marx era quasi sconosciuta, e appena digeribile per gli intellettuali del partito; inoltre le persone che votavano PCI andavano a Messa, non mostrandosi così atee.
L’80% degli elettori del partito nella seconda metà del XX secolo – a parte i “trinariciuti” – riceveva i Sacramenti da Santa Romana Chiesa. Lercaro, nato a Quinto (Genova) ed emiliano di adozione, non poteva negare a sé stesso che il suo gregge era composto da molte pecorelle che ricevevano il battesimo cattolico. Egli invitò a pregare (un esorcismo?) affinché i comunisti si affrancassero dall’errore, anticipando la distinzione di Giovanni XXII tra l’errore e l’errante.
Insomma, nella sua diocesi fu un buon pastore, e se si fosse limitato all’Ufficio al quale era stato destinato, di lui tracceremmo oggi un’effige celebrativa.

giacomo lercaro
L’ingresso dei padri al Concilio.

Agli albori della “neochiesa”

La sopraggiunta morte di Pio XII, il 9 ottobre 1958, lo proiettò in una nuova dimensione ecclesiale: dai primi atti di Giovanni XXIII, intuì che la Chiesa avrebbe preso un’altra fisionomia rispetto al predecessore. Un orizzonte nuovo si sarebbe aperto anche per lui: e quale orizzonte!
Fin da quando era un semplice parroco si era occupato di liturgia: il suo chiodo fisso era arrivare a una Messa ad usum populi. A Bologna, il 22 novembre 1953 nella ricorrenza dei 50 anni del Motu proprio di Pio X, Intra sollecitudini, creato cardinale da pochi mesi, prospettò che sarebbe stato possibile apportare piccole riforme alla Messa. Egli era per una “partecipazione comunitaria” alla celebrazione, quella che durante il Vaticano II prese forma nella tristemente nota actuosa participatio. I fedeli, a suo avviso, avrebbero dovuto partecipare al Sacro Rito come celebranti (alla maniera dei protestanti) e diventare un “popolo di sacerdoti”.
A Bologna modificò il Direttorio Liturgico per sperimentare la neo-liturgia. Sottopose la riforma ai parroci, i quali la soppesarono perplessi, e la illustrò ai fedeli che, colti di sorpresa, la accettarono senza grande entusiasmo. Si mosse comunque senza esitazioni e senza badare alle critiche.
Il primo aprile 1956 impose la sua “innocente” creatura senza che fosse discussa e introdusse la lingua italiana nel rito secolare affermando: “Il popolo non sa il latino; la nuova Messa sarà accessibile a tutti grazie all’introduzione dell’italiano non distaccandosi dall’autentica tradizione latina, verrà semmai ripulita”.
Lercaro temeva che la tradizionale Messa, testimone d’altri tempi e d’altri popoli, fosse un diaframma che impedisse all’uomo di oggi l’incontro con il Cristo di oggi… Errando sotto il profilo cristologico e smantellando gli arredi cultuali e architettonici di cui la Messa si era arricchita nei secoli. Il cardinale sollevò così un polverone dottrinale (in effetti scismi ed eresie sono sempre stati avversi al latino), ma forte verosimilmente del placet di Paolo VI, procedette con risolutezza come sempre, senza curarsi delle obiezioni.
Parlando all’Azione Cattolica, tuonava: “Voi dovete spezzare una mentalità troppo individualistica e ricostruire il senso della comunità cristiana”.
“Finalmente” il 25 dicembre 1961, con la Costituzione Humanae Salutis fu indetto il Concilio Vaticano II e l’anno dopo venne avviato attraverso l’ormai nota allocuzione Gaudet Mater Ecclesia da papa Giovanni XXIII.
Il cardinal Lercaro, l’11 ottobre 1962 all’inizio dell’assise, era dubbioso sul comportamento che avrebbe dovuto tenere nei dibattiti conciliari (anche se in seguito si sarebbe trovato oltremodo a suo agio), ma non certo in tema di liturgia. Di sicuro, tra i suoi interventi al Vaticano II spiccherà il discorso sulla Chiesa povera e dei poveri che, a suo avviso, avrebbe dovuto essere il tema centrale del Concilio. L’intervento ebbe una risonanza dentro e fuori dall’assise, le cui tracce si trovano nel capitolo 8 della Lumen gentium. Ma l’impronta che dette alla riforma della liturgia fu davvero determinante.
D’altra parte una riforma non solo l’aveva sognata, ma addirittura sperimentata nella diocesi bolognese! Nel 1955 aveva scritto un libretto intitolato “A Messa, figlioli!”, direttorio liturgico che ebbe un buon successo e venne tradotto in molte lingue. L’eco di quella mini-riforma era giunto all’orecchio del clero dell’Europa centrale, dell’America latina (i brasiliani credevano che egli volesse adattare il rito alle culture locali) e del terzo mondo.
Non a caso il suo nome come membro della commissione liturgica al Concilio non fu proposto dai vescovi italiani, ma proprio da una eterogenea coalizione straniera che lo indicò come punto di riferimento per chi auspicava una profonda riforma.
Regnante papa Paolo VI, il 4 dicembre 1963 venne approvata la Costituzione sulla Sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium con 2217 voti contro 4, pubblicata come primo documento ufficiale del Concilio Vaticano II. In essa – a dimostrazione che la liturgia sarebbe stata manipolata nel post-concilio – si prescriveva che “l’uso della lingua latina, salvo diritti particolari, sia conservato nei riti latini”. Cioè, di fatto, dal punto di vista canonico il latino non fu mai abrogato.
Il 25 gennaio 1964, Paolo VI istituì una Commissione per l’attuazione della Costituzione composta da teologi, periti cardinali e vescovi, nominando Lercaro presidente del consiglio per la riforma della liturgia insieme al tristemente famoso segretario monsignor Annibale Bugnini. Questi risultò iscritto alla massoneria e fu citato nella lista di Mino Pecorelli, il giornalista del settimanale OP assassinato il 20 marzo 1979. La lista, che includeva il cardinale e segretario di Stato Jean Villot e altri aderenti a una “Loggia Vaticana”, venne ritenuta attendibile dal generale dei carabinieri Enrico Mino, incaricato da Paolo VI di verificare le fonti.
Tornando al nostro cardinale, egli prese molto seriamente il mandato di papa Paolo VI, realizzando il suo progetto che esporrà nei lavori della commissione preposta alla preparazione dei testi liturgici. Il 2 aprile1964 fu nominato presidente del gruppo di teologi e liturgisti del Consilium ad exsequendam Constitutionem de Sacra Liturgia.
In opposizione al progetto c’erano un centinaio di vescovi favorevoli al mantenimento della Tradizione, che in tal senso appoggiarono il cardinale spagnolo Arcadio Larraona, presidente della commissione. Alcuni padri conciliari, difensori della tradizione teologica, temevano gravi modifiche se non l’alterazione della Messa: nacque così il Coetus Internationalis Patrum.
Il Coetus era un gruppo di opposizione alla riforma liturgica fondato da monsignor De Proença Sigaud, arcivescovo di Diamantina in Brasile. Il suo scopo era frenare le spinte progressiste e “orientare il Concilio nella linea dottrinale tradizionalmente seguita dalla Chiesa”.
Le dicotomie si inasprirono aprendo un solco tra due modi di vivere la Chiesa, che avrebbe coinvolto la relazione tra lex orandi e lex credendi.
Il Novus Ordo Missae, ossia la nuova Messa per certi versi vicina al culto protestante, perdeva sacralità: un divario incolmabile con l’antica liturgia. Qualcuno parlò di Lercaro (che intanto dal 1966 al 1968 fu presidente del Consiglio per la riforma liturgica) come dell’“insidiatore più temibile, dopo l’uomo di Wittemberg [Martin Lutero], dell’integrità, della compattezza, della unità della Chiesa”.
Nel 1969, all’indomani della promulgazione della Costituzione Missale Romanum di Paolo VI, che introduceva la “riforma” della Messa cattolica, due autorevoli teologi stilarono un documento di critica alla nuova liturgia. Il testo, intitolato Breve esame critico del Novus Ordo Missæ, scritto dai cardinali Alfredo Ottaviani e Antonio Bacci, fu sottoposto al papa. Riportiamo qui un passaggio centrale:

Come dimostra sufficientemente il pur breve esame critico allegato – opera di uno scelto gruppo di teologi, liturgisti e pastori d’anime – il Novus Ordo Missæ, considerati gli elementi nuovi, suscettibili di pur diversa valutazione, che vi appaiono sottesi ed implicati, rappresenta, sia nel suo insieme come nei particolari, un impressionante allontanamento dalla teologia cattolica della Santa Messa, quale fu formulata nella Sessione XXII del Concilio Tridentino, il quale, fissando definitivamente i “canoni” del rito, eresse una barriera invalicabile contro qualunque eresia che intaccasse l’integrità del magistero.

Paolo VI non li degnò di una risposta, mentre Lercaro – beffardo – rispose loro di “proporre l’eterna verità del Vangelo al mondo in un linguaggio che gli uomini del nostro tempo possano comprendere”.
Egli non si fermò alla lingua e voltò letteralmente le spalle a Dio. In un documento ufficiale del Consilium ad exequendam Consitutionem de Sacra Liturgia scrisse: “Per una liturgia viva e partecipata non è necessario che l’altare sia rivolto al popolo. Tutta la liturgia della parola, nella Messa, si celebra alle sedi o all’ambone, e dunque di fronte al popolo”.
Adirato dalle obiezioni, disse che il Concilio stava perdendo tempo e deludendo le attese del mondo. Scrisse alla Segreteria di Stato Vaticana, informando il papa dei fatti e sollecitò altri padri affinché lo spingessero a intervenire. Ciò valse a sbloccare lo stallo, e la “paterna esortazione” papale valse a far prevalere la necessità di un’ampia riforma liturgica.

giacomo lercaro

Pseudodemocratizzazione

Purtroppo i nemici della riforma non si avvidero che la modifica, oltre a voler cassare il latino, avrebbe penalizzato anche le lingue autoctone. In Italia, per esempio, fu funzionale all’italianizzazione del popolo. Ancora oggi, le rare volte che si vorrebbe celebrare Messa in lingua locale, si deve chiedere il placet dell’ordinario territoriale, il quale lo concede con sufficienza ostentata anteponendo mille “impedimenti dirimenti”.
L’introduzione dell’italiano non solo smentì, come abbiamo detto, la prescrizione del Vaticano II sulla conservazione della lingua latina, ma impose del tutto arbitrariamente la lingua maggioritaria degli Stati. Che lo si voglia o no, il latino è stato nei secoli una lingua universale e democratica, mentre coloro che avrebbero voluto estendere la liturgia alle lingue dei popoli passeranno, in questo modo, dalla padella alla brace. La retorica dell’antitesi tra nuova e antica liturgia farà sì che i fedeli saranno obbligati a elevare il culto a Dio – “grazie” a un cardinale di Santa Romana Chiesa – nella lingua di Stato; ovviamente di ogni Stato.
La prima Messa celebrata da Paolo VI il 7 marzo 1965 con il messale riformato italiano-latino, ebbe l’imprimatur di Lercaro.